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Marisa Cecchetti. “Nata nell’acqua sporca” di Giuliana Vitali
17 Maggio 2025
 

Giuliana Vitali

Nata nell’acqua sporca

Giulio Perrone Editore, 2025, pp. 232, € 18,00

 

Quando in tv si segue una fiction sul mondo della criminalità che trasuda violenza, pur rimanendo turbati, si è portati a pensare che ogni fiction esaspera le situazioni, che non corrisponde del tutto alla realtà. Il romanzo di Giuliana Vitali, Nata nell’acqua sporca, che già nel titolo sintetizza una storia, ci trascina dentro quel mondo, ce lo fa toccare fin dalle prime pagine, in un contesto giovanile dove la droga è padrona, insieme a un fiume di alcool, ed è faticoso pensare che sia una finzione letteraria.

Sara, la protagonista, è una creatura sofferente, intorno a lei ruotano quelli del baretto che le ha fatto conoscere un ragazzo incontrato in chat: lui è Christian, tra gli altri ci sono Alessio, Anna, Gianni. E c’è Elena, la madre di Sara, che fa la giornalista impegnata e sta fissa al PC, il marito da tempo residente a Valona con la sua seconda famiglia. E Matteo, il fratellino.

Il linguaggio è crudo, tagliente: “Provò a chiamarlo, ma il cellulare era spento. A casa il telefono staccato. Magari il bastardo si stava facendo di coca con qualche troietta di piazza del Gesù”. E anche: “St’erba fa cagare. Si sente che ci stanno pure scarti d’eroina. Mi piglia male”.

Il rifiuto si esprime con la violenza: “Oh, è Libellula. Ieri due stronzi a piazza Bellini l’hanno ammazzato di botte. «Cazzo!». «Pure lui però che si atteggia a femminella davanti a tutti!»” La bellezza del territorio è infettata: “Il puzzo della discarica nella cava lì vicino era vomitevole, trapassava i palazzi, la terra ampia e piena che recintava il quartiere, fino a riempire le cucine, le camere da letto. Si formava una cappa su tutto il paese diventato una spugna di merda tossica”.

Non c’è dialogo tra madre e figlia, anche Elena sembra vivere in un mondo parallelo: “Avrebbe potuto dirle qualsiasi cosa: «Mamma, sono stata violentata», «Ho preso cinquanta euro dalla tua borsa senza dirtelo», «Sei una stronza depressa del cazzo…»: questo una volta gliel’aveva detto davvero, a bassa voce”. Manca l’amore, l’attenzione, la cura, all’interno del gruppo familiare, Sara ne ha sentito l’assenza fin da bambina e quel passato si incunea nella sofferenza attuale, con quadri che si affiancano alle esperienze di oggi. Così lei si proietta all’esterno, nasconde la verità, lentamente adotta i riti di quelli del baretto, sniffa coca, prova il crack, in un misto di curiosità e di volontà di annebbiare la mente. Non è amore nemmeno quello a cui si adatta nella casa fatiscente di Alessio.

Difficile è trovare una occupazione retribuita che possa durare, ma il denaro serve per la roba, se non se ne dispone si sottrae alla famiglia, quando si è in pericolo si chiede: “«Devo chiederti un favore. Mi mancano duecento euro. Tu me li puoi prestare? Sennò lo sai che quelli là si incazzano con me» fece lui a voce bassa, una volta presa Sara in disparte”.

Il sesso è la via più rapida per creare un’intesa, l’amicizia esiste, soprattutto fra ragazze; nessuno è escluso dal gruppo del baretto, nemmeno chi ha dei trascorsi con la giustizia: “Be’, quella notte gli avevano trovato in macchina parecchia droga ed era rimasto per qualche giorno a Poggioreale”. Purtroppo qualcuno confida in certezze discutibili: “Con la droga puoi morire solo se esageri, si diceva tra sé, e lui non era come quelli bruciati in testa che vedi in mezzo alla strada”. Ma la nonna, al funerale, grida la sua accusa al gruppo: «Annarè, ’o saje. Me lo avete accisu vuje. Mo jateven ne, fatemi il piacere».

La morte fa parte del loro quotidiano, perché è la vita che ha perso valore: «Come è morto?» «Eh, il coglione se ne sarà sparata troppa».

Quando tocca il fondo Sara ha davvero bisogno di Elena, quella madre “stronza”, l’unica che può trovare soluzioni rapide a un dramma. Entrambe avrebbero diritto a un poco di felicità, anche se Elena ha qualche dubbio in proposito: “Ma voi ragazzi come fate a essere così felici? Si vede che non ve ne fotte proprio niente di quello che succede intorno a voi. Ma uscite, uscite…” Eppure questi ragazzi non sono felici, bensì espressioni di una società malata che attende invano interventi e cambiamenti profondi.

Girando per i vicoli si coglie un po’ di bellezza: “Davanti alla piazzetta il buio fitto nascondeva il Vesuvio e il mare che si avviluppavano con le stelle, come amanti vogliosi”. Ma i giovani hanno appena iniziato la loro notte: “A quest’ora il centro di Napoli era un via vai di motorini che entravano e uscivano dai Quartieri Spagnoli. Passavano sul marciapiede, si infilavano in passaggi minuscoli quando s’incrociavano con le macchine. Si suonavano con i clacson, da compari” - i motorini, che girano senza targa, cambiano vicolo quando vedono da lontano la polizia. No c’è alcun senso di orgoglio e di riflessione nemmeno quando si ha la fortuna di entrare “dentro il porticato con la targa QUI VISSE GIACOMO LEOPARDI”.

 

Marisa Cecchetti


 
 
 
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