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Marisa Cecchetti. “Il ragazzo che fu Pinocchio” di Mario Bernardi Guardi
26 Aprile 2025
 

Mario Bernardi Guardi

Il ragazzo che fu Pinocchio

Mauro Pagliai Editore, 2025, pp. 120, € 12,00

 

Si legge Pinocchio da bambini, ovvero qualcuno ce lo legge quando non abbiamo dimestichezza con la lettura, o ce lo racconta nei suoi punti salienti; capita poi che siamo noi a leggerlo ai bambini, in un turn over che non smette mai. Il naso che si allunga se si dice una bugia è ormai un luogo comune, uno strumento quasi sadico di educazione.

Leggere Il ragazzo che fu Pinocchio, ora che di vita alle spalle se n’è accumulata tanta, che gli occhi hanno visto anche troppo e il pensiero ha saputo distinguere tra bene e male, tra giusto e ingiusto, offre una occasione di riflessione profonda, di apprezzamento ulteriore dell’opera di Collodi, insieme alla piacevolezza della lettura.

Mario Bernardi Guardi lascia che il ragazzino che è stato Pinocchio, ora impegnato a curare e aiutare il padre Geppetto, riavvolga il filo guardando al passato in maniera oggettiva, con un atteggiamento critico ma comprensivo. Allora ci troviamo davanti un burattino nato da un pezzo di legno, che dentro quel tronco c’era già, un figlio della Natura a cui un falegname dà la libertà. Il burattino che ne esce è come un bambino che nasce, che non conosce ancora il freno della ragione, ma agisce d’istinto, che dovrebbe essere innocente e buono, ma non conosce il bene e il male, deve essere ancora educato: nei bambini “la ragione si sta formando con i suoi passi scompigliati. Ma finché questo processo non è avvenuto, è l’istinto a farla da padrone”.

Così Collodi crea una storia sulla crescita, sulla formazione del burattino, lo fa sbagliare, pentirsi, promettere, sbagliare di nuovo, ma anche soffrire, fino all’impiccagione, fino alla sua trasformazione in ciuchino parlante. Compie marachelle ed è punito, ma intanto cresce; è un burattino che si fida, ingenuo perché non ha ancora gli strumenti per capire, sempre in fuga, che talvolta si comporta da bravo ragazzo, ma su cui vince la curiosità dell’avventura, e anche la tentazione.

Collodi sviluppa le Avventure con “l’auctoritas di viaggiare nell’indeterminato”, avvicinando luoghi lontani in un batter d’occhio, dilatando o accorciando i tempi, avvicinando il surreale al reale, il magico all’umano, ma ammiccando sempre alla quotidianità: “tutto vago, dunque indeterminato e per ciò stesso credibile”.

Ma le Avventure non volevano essere solo una storia per bambini e ragazzi, e Collodi lo dimostra attraverso la sua penna acuta quando si tratta di giustizia, di potere, di istituzioni: viene messo in carcere il falegname che non ha colpe, un giudice scimmione ascolta le valide ragioni del burattino poi non ne tiene conto e lo condanna, un pescatore vuole friggere il burattino - chiara allusione a potere e società - perché: “essere fritto in compagnia è sempre una consolazione”.

E la giustizia? “Già, ma che cosa è la giustizia? Di sicuro quella dei tribunali lascia a desiderare, perché ti aspetteresti che il giudice sia non solo uno che conosce bene l’umanità, ma uno che sa anche valutarla. Dovrebbe essere il migliore tra gli uomini, capace in una sentenza di concentrare lo scibile, e di valutare con equità ed equilibrio”. Scrive Mario Bernardi Guardi che Collodi non credeva ai politicanti e a tutta la risma istituzionale e che, “Gatto e Volpe a parte - delinquenti di natura - le Avventure sono una rassegna di quel che, spesso e malvolentieri, dobbiamo aspettarci dal potere e dai delinquenti per vocazione, ottusità e/o viltà”. Una rilettura che ci fa sentire più vicini al burattino, ce lo fa comprendere pienamente nelle sue contraddizioni, e sottolinea il messaggio e la voce critica di Collodi, validi in ogni luogo e tempo.

 

Marisa Cecchetti


 
 
 
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