Il bianco e nero a dominare con tutte le sue luci e ombre e sfumature. E i corpi nella separazione e nello straniamento o, di contro, in una sorta di affermazione muta, perciò di ancor maggior e potente impatto emozionale. Fra “appartenenza ed esilio”, concetti non solo fisici ovviamente, si muove Shirin Neshat (Qazvin, 1957), videomaker, artista visuale e intellettuale iraniana dalla feconda, densissima, intensissima e drammatica speculazione filosofica.
“Body of Evidence” è la mostra, a cura di Diego Sileo e Beatrice Benedetti, che ne celebra il genio visionario, le incredibili suggestioni estetiche, il panorama mai smesso di critica sociale agli eventi, all’abbandono, all’arbitrio del potere, all’alienazione. La mostra è visitabile sino all’8 giugno al PAC-Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, e Shirin – Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1999 e Leone d’Argento per la Miglior Regia al Film Festival di Venezia nel 2009 – colpisce forte: immagini di bellezza congiunte a un senso (e non senso) di tragedia incombente, nel suo farsi e dispiegarsi.
L’itinerario espositivo si apre con il duplice video Fervor (2000). Si tratta di un incontro-non incontro fra un uomo e una donna nel corso di una rappresentazione da parte di un cantastorie. Un lungo telo divide il pubblico maschile (in camicia bianca) da quello femminile (in nero e velato): eppure il e la protagonista si sentono, si cercano, si fiutano, si vedono senza vedersi. La percezione è più forte della separazione forzata e imposta. È uno svolgersi doloroso, d’impotenza che si trasmette implacabile allo spettatore.
Nella seconda sala: Rapture (1999) – che “cattura il visitatore al centro di due schermi contrapposti per seguire il dialogo silenzioso tra un gruppo di uomini, che attraversa le strade acciottolate di un’antica città, e una schiera di donne, che emergono dal paesaggio desertico e si dirigono verso il mare, pronte a imbarcarsi” – e Turbulent (1998), il cui video “restituisce su due palchi opposti la voce maschile di Shoja Azari che intona un poema del mistico Rumi (1207-73) e la voce femminile della vocalist e compositrice iraniana Sussan Deyhim”.
La terza galleria ospita la più recente opera video, Roja (2016), una pellicola carica di onirismo e di spaesamento, un vagare da un’identità all’altra, sino ad avvertire il rifiuto di entrambi gli universi esistenziali, quello di provenienza e quello di arrivo. Una inconciliabilità paurosa, in un “cortocircuito per cui, nelle fantasie di Neshat, sia la cultura statunitense sia quella iraniana possono trasformarsi da ambienti rassicuranti ad atmosfere inquietanti e ostili”.
Nella Sala 4 è Land of Dreams (2019), una sequenza di 111 ritratti fotografici, d’incredibile forza evocativa, una galleria umana che lascia stupefatti per varietà e sentimento, oltre a “un video a due canali focalizzati sulla narrazione della dicotomia tra Oriente e Occidente, sogno e veglia, realtà e rappresentazione. Il video rintraccia i movimenti di una fotografa che sta apparentemente lavorando a un reportage sull’America rurale, ma che in realtà fa parte della Colonia (The Colony), una società segreta i cui membri ricevono, selezionano e analizzano i sogni dei cittadini statunitensi”.
Il video della Sala 5 The Fury (2023) è il racconto sconvolgente del trauma inferto a una prigioniera politica, costretta a danzare per i persecutori in un ambiente asettico e torturante, gli sguardi fissi e tenebrosi, la trista e triste libido del potere, il lassismo morale delle divise, il fumo che impesta in volute/nebulose di terrore (elemento quasi preistorico/a-storico), la vasta sala in cui si muove il corpo della danzatrice disegnato da una spaventosa geografia di lividi...
Veniamo al parterre che “accoglie The Book of Kings (2012), installazione concepita in seguito alla nascita del Green Movement iraniano” – movimento che contestava l’elezione, nelle presidenziali del 2009, di Ahmadinejad, candidato dei conservatori iraniani, a causa di presunti brogli elettorali; la protesta, inscenata soprattutto da una imponente folla di giovani, fu violentemente repressa. “L’opera include una selezione di ritratti i cui corpi riportano a inchiostro illustrazioni e testi calligrafici tratti sia dal poema epico Shahnameh (Il libro dei Re) scritto dal poeta persiano Ferdowsi (1000 d. C.) sia da composizioni poetiche di scrittori contemporanei e prigionieri in Iran, portando in luce parallelismi visivi e allegorici tra passato e presente dell’Iran, oltre a trattare la concezione iraniana di eroismo”.
Sulla balconata è esposta la celeberrima serie Women of Allah (1993-1997). “Le iconiche opere vedono la sovrapposizione di versi poetici e motivi decorativi sui corpi velati delle donne, trascritti con inchiostro calligrafico sull’immagine fotografica. Alcune fotografie coinvolgono armi e riportano testi di scrittrici iraniane contemporanee che presentano visioni politico-ideologiche diametralmente opposte, da citazioni coraniche sul martirio, fino a riflessioni femministe o puramente poetiche.”
Al termine di questo lungo, sofferente e pur fascinoso percorso due video a colori, un’eccezione rispetto al b/n sin qui dominante: “Soliloquy (1999), unico lavoro in cui Shirin Neshat appare come protagonista, vede l’artista compiere due viaggi paralleli in due contesti differenti, una città mediorientale e una metropoli occidentale, in una rappresentazione del proprio stato oscillante tra origini e nuova realtà nomadica; Passage (2001) esplora il tema della morte e della condizione ciclica che riavvolge il tempo a ogni evento di rinascita, ripercorrendo le diverse fasi di una sepoltura nel deserto”.
Una mostra che scuote, come dev’essere. Un pugno di ferro in un guanto di velluto, che s’abbatte sulle nostre coscienze sovente, ahinoi!, attutite e piegate dall’inedia e dall’indifferenza. Una profonda meditazione politica, sulle strutture sociali e sull’oppressione, sulle scelte da compiere o non compiere, ma anche una riflessione che va oltre, sul senso del nostro essere e del passaggio in questo tormentato mondo.
Alberto Figliolia
Body of Evidence, a cura di Diego Sileo e Beatrice Benedetti. Mostra, promossa da Comune di Milano – Cultura e prodotta dal PAC e Silvana Editoriale. PAC-Padiglione di Arte Contemporanea, via Palestro 14, Milano (M1 Palestro). Sino all’8 giugno 2025.
Info: tel. 0288446359, sito Internet pacmilano.it.
Orari: 10-19:30; giovedì 10-22:30; chiuso lunedì. Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Festività: 25 aprile 10-19:30; 1 maggio 10-22:30; 2 giugno 10-19:30.
Catalogo (in italiano e inglese): Silvana Editoriale. Il volume comprende i testi dei curatori e i contributi critici di Negar Azimi, Adam Geczy, Chrissie Iles, Venetia Porter.
Shirin Neshat è un’artista e regista di origine iraniana che vive a New York. Neshat lavora e continua a sperimentare con diversi mezzi espressivi, tra cui fotografia, video, cinema e opera, che arricchisce con immagini e narrazioni altamente poetiche e politicamente cariche. Le sue opere affrontano questioni di potere, religione, razza, genere e il rapporto tra passato e presente, Oriente e Occidente, individuo e collettività, attraverso la lente della sua esperienza personale come donna iraniana in esilio.
Nel 2017 ha debuttato come regista d’opera con Aida di Verdi al Festival di Salisburgo, riproposta nuovamente nel 2022 e che verrà messa in scena all’Opéra di Parigi nel 2025.
– La ricerca di Shirin Neshat travalica il tema di genere e, partendo dal dualismo uomo-donna, indaga le tensioni tra appartenenza ed esilio, salute e disagio mentale, sogno e realtà. La mostra dedicata a Shirin Neshat rappresenta un’occasione unica per esplorare l’opera di un’artista che, attraverso un linguaggio visivo potente e stratificato, ha saputo raccontare le complesse tensioni tra identità, memoria e appartenenza. ci invita a riflettere sul rapporto tra individuo e collettività, tra storia e contemporaneità, offrendo una lettura puntuale delle sfide del nostro tempo – ha dichiarato Tommaso Sacchi, Assessore alla Cultura del Comune di Milano. – Con questo progetto, il PAC si conferma lo spazio privilegiato per il confronto sui grandi temi della contemporaneità e la mostra, tra gli eventi centrali dell’edizione 2025 di Milano Art Week, stimola una riflessione profonda sulle identità in trasformazione, sulle contraddizioni della modernità e sul potere dell’arte di farsi veicolo di cambiamento e consapevolezza.