Forse il realismo è una questione di equilibrio.
Una rappresentazione della realtà ci apparirà realistica se riuscirà a bilanciare luci e ombre, virtù e vizi, la tendenza al bene e la tendenza al male. Se i termini positivi saranno eccessivamente preponderanti, quella rappresentazione della realtà risulterà probabilmente edulcorata; se i termini negativi saranno maggioritari o esclusivi, potrà apparire caricaturale o esasperata (il che, però, beninteso, da un punto di vista artistico non è sempre un difetto).
Tale premessa vale solo per dire che il film americano The brutalist di Brady Corbet, mantiene per buona parte della sua lunga durata (circa tre ore e mezzo) un equilibrio realistico. Ma poi opta per tinte forti, esasperatamente crudeli o melodrammatiche, che contrastano con i toni precedenti, danno un senso di inverosimiglianza, e possono far rimpiangere la finezza di cui il racconto aveva dato prova fino a quel momento.
The brutalist racconta il drammatico rapporto fra un architetto ebreo ungherese, fuggito da un campo di concentramento nazista ed emigrato negli Stati Uniti, e una famiglia di magnati americani che decide di commissionargli dei progetti: prima una libreria in una residenza di campagna, poi un’opera più ambiziosa, una costruzione che sia allo stesso tempo una biblioteca, una sala da riunioni e una chiesa.
Quel rapporto è drammatico perché, se il capo di quella famiglia di magnati nutre una vera ammirazione per il talento artistico dell’architetto, si sente anche umiliato dalla propria inferiorità rispetto a lui, e per rivalsa gli fa pesare il proprio potere e la propria ricchezza.
Da parte sua, l’architetto è grato per la fiducia che gli viene accordata, comprende bene che quelle insperate commissioni sono una svolta nella sua carriera, che l’alternativa è forse una vita di povertà e di stenti, che la sua condizione di perseguitato non gli permette di respingere chi comunque gli dimostra benevolenza ed è dunque disposto a sopportare un certo grado di umiliazione. Ma poi insorge in lui l’orgoglio, l’esigenza di mantenere salda la propria dignità, e anche lui per rivalsa sfoga la sua rabbia anche sui suoi collaboratori più cari.
Lo stile architettonico che lui adotta, il brutalismo appunto, che impiega nudi blocchi grigiastri di cemento o di marmo, sembra alludere nel suo caso a una condizione umana desolata, in cui la sopraffazione imperversa ovunque, nei campi di concentramento nazisti, ma anche, in forme diverse, nei rapporti di lavoro in società democratiche.
Questa idea di fondo è più convincente quando è suggerita da una drammaturgia sottile, che orchestra quell’ambivalenza di sentimenti reciproci tra l’artista e il suo mentore, a cui ho accennato.
Quando il racconto sfocia in violenze più esplicite ed efferate, dirette all’architetto ma che lambiscono anche sua moglie e sua figlia, si ha l’impressione di una forzatura ideologica, che l’esigenza di dimostrare una tesi abbia preso la mano all’autore.
Si tratta comunque nel complesso di un bel film sostenuto da notevolissime interpretazioni: come quella di Guy Pearce nel ruolo del magnate, o quella di Adrien Brody nel ruolo dell’architetto, imperniata quest’ultima intorno al sentimento di una violazione intima subita dal personaggio, nei lager nazisti, ma destinata a riprodursi come una maledizione per tutto il corso della sua vita, nonostante i suoi successi.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 22 febbraio 2025
»» QUI la scheda audio)