Il grande luglio
13 Luglio 2005
È il grande luglio, questo, che va
visto fisso ai muri, fiere datate
con piogge d'afa, deja-vu d'estate;
controluce ragazze di città
sfilano tra ragazzi e gomitate
e una madre piccola che da
il braccio a suo figlio down, sordità
in quegli occhiali, pure risate
ti direi piccolo (prima che sfumi
la tua età) e chiederei a te
a tua madre cosa potrò sentire
quando sarò famiglia in frantumi
di me stesso non risorto, cos'è
un mese corto prima di morire.
L’aria di Torino inspirata controvoglia dalla Valsesia
10 agosto 2005
No, sono i libri e orecchie nelle pagine,
verdi che sono andate, aperte che ne esce aria,
i libri e i meli della verzura, i segni che ne cola inchiostro
e il legno delle baite, che la resina e le narici punte.
Si passa adolescenti al fontanino, ingoia sorsi a gelo
non si finisce di chiamare i gatti, se n'accarezza il pelo.
E' il battere per terra dei bastoni, quando si torna
dalle montagne, a sedici anni si sfila gli scarponi
col
gusto di mele aspre in bocca, l'erica matta al vento.
E' settembre in arrivo che rovina.
No, è la scuola e un viaggio di due ore
a città-centro.
Le cose rimaste intatte [Da l’Ulisse 5/6]
13 Agosto 2005
Cos’è questa speranza
che va oltre le partite a scopa d’assi,
oltre i tuoi messaggini di ripiego?
C’è il sonno dopo pranzo
ora, un’insonnia che s’insinua cieca
tra le pieghe di questo stesso letto.
Ci sei tu che mi squadri per quell’asso
giocato male e, prima,
le passeggiate insieme
là sulla spiaggia, i miei baffi di sabbia.
L’assetto delle cose rarefatte
è mischiare ricordi ad esigenze,
rimuovere paure, ed acquisire
resistenze; il quadretto delle cose
rimaste intatte mi è dato da te,
invece: porti addosso
come abiti gli standard femminili
di questo tempo,
quando mi guardi e a scatti ti rivolgi
al mare, sempre più finto. Virtuale.
Poi, china, scrivi attenta al cellulare,
mandi via i tuoi pensieri.
Sempre gli stessi.
Cos’è questa speranza,
vorrei me lo scrivessi.
(fa paura il sole obliquo)
09 Settembre 2005
si può ancora chiedere e spremere
tutto è ancora facile. tutto credere
la cavità ramifica e tocca i mattini
il gelo sui vetri, gli acuti risvegli
in fondo s’incrociano strade
da casa si vedono tetti brillare
lamiera. pesa di schiena
la malattia. voler oltre mappare.
quasi due miliardi [Da Dissidenze del 6 dicembre 2005]
11-15 Ottobre 2005
non è tra due estremi e ai contorni che s'interpola
una donna
nella scarpa destra per tre giorni due ciottoli
premono le scosse di un male al successivo
non è la diagnostica per immagini
non radiografie a ottenere quel match – e sapere
di dove sei venuta. chi eri
chi è
poi
l'uomo che all'alba d'ogni giorno al risveglio gl’isolati
segue il suo cane microscopico
come un cieco nel via andare del pre-mattino
i tre operai già stanchi che attendono al buio delle sette
il passaggio. il lavoro. il pomeriggio
e
i fari del furgonato da dove il sole
dovrebbe comparire
i riquadri al neon di una finestra mentre
la foschia discioglie i punti dell’immagine
la tua foto – presa di nascosto
messa come sfondo al cellulare
sono il passo appena dopo
sono quasi due miliardi le cose
che non riusciremo mai a dirci
che saranno dimenticate | un istante prima di guardarci
Voceneve
25-29 Novembre 2005
Cade sfusa. Ricorre di splendido, fugge riflessa,
non sono che scheletri rami e da sotto, dalle cantine
cataloghi e cose francesi, la France dei settanta
ed il freddo, collima e si allunga, mal detto.
Riallinei brividi, tu. Tu che non vai, mai, è solo
una scelta, riformuli termini, vista la vita un insieme
di problemi complessi. In fondo, ad olio su pianto,
c’è neve.
*
Fresa rumore, l’enorme. Di là sta mia madre e
non si può se non dire che aizzato
ricorre, in linea, con un dietro e un avanti [in differente]
a scelta svilisce, in capsula, ogni parola
la voce.
*
Quomodo cantabimus canticum hominis
rinomini e strigli gli archetipi in terra
aliena scoscende la questua, nel grembo
non tieni che un tempo, più spesso
ricorre il brivido denso.
*
Caro diario, anamorfico,
ti decodifica il tempo, lente
sul fondo, le ore già messe di neve.
Le piogge della notte
06-09 Dicembre 2005
Ma le piogge notturne sulla terra sospesa
Hanno ridestato l’ardore che tu chiami il tempo.
Yves Bonnefoy
Mi svuoto al pelo libero, mi devo,
si accosta la giornata ancora corta, la
memoria simultanea già morta, in
cerca di massa stabile, chiariva, verde fotoelettrico
autotreni di piazzali.
“Ecco, m’hai fatto vivere settant’anni”
ordinando a segmenti i cimiteri con il tempo, ma
in me c’è sabbia: invece stento, recide fine
precisa come un guanto, su risacche indipendenti
di vivi e di entità, bisbiglio spurio in variabili tonali
di detrimenti periodati, vite estratte a punti come denti.
Di fuori il cielo spegne, fino al chiaro nella fuga,
la prospettiva non sarebbe che uno schizzo, muta
l’aria, nel vuoto d’aria di quel vento.
Ed il tempo una frase a scarabocchio nero
“non riesco a leggerlo”: navigazione non in crescita, sul
versante non pendente del pianeta.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ogni ora in un ricordo, io e te su quella valle
l’incedere geometrico del cielo, le piogge nella notte
hanno detto.
Semplice la fine
1° Gennaio 2006
a Sara
Non ci sono: ho raggiunto il tono labile, la trasfusione
di pensati, concetti esatti che tu passasti alle mie labbra
un bacio, un’emulsione di pellicola e la messa a fuoco
perfetta dell’immagine, anamorfica del buio che fosti
abile a raddrizzare: insieme in cima a respirare mosti
a vento, l’infinito non è che accostamento di spezzoni,
la scelta non casuale di contrasti, variazioni di stupore all’ora
in cui ritorna il tempo, declinato astratto, senza sentimento;
il cuore (tu lo dici) è solo la versione precedente di un contratto
asintattico, scritto calligrafico (come scrivi bene, mi dicesti);
e la tua guancia affiora dal cuscino ancora intriso
di primo tentativo, sfondo cielo, inviso – vivo – gelido
di luce olivo chiara come ci apparvero i paradigmi
delle distanze lunghe, pomeriggi in fondo al sole, muri
screpolati, infiggersi d’avventi attese: come
mi guardavi, partendo. Una leggenda di silenzio.
Vorrei vederti scendere le scale sola, nel crocicchio
di questi capodanni. Ce l’avranno i freddi di qualsiasi
stagione uno scalino che ne ferma la discesa.
Com’è semplice la fine, la sua accoglienza.
Volti a nascite
11-12 Gennaio 2005
Andato nel prato, così aperto, quel che
volevo era un colpo di tosse, quel che sapevo
schiarire il deserto converso di lodi, cercare
le sorti del tremito bianco, del bianco vederlo
al calore che mi mostrasti più denso di prato,
mio padre m’impresse di giorno invernale
in quella, di foto, con una spiga di grano tra dita
il tratto più nitido, inumidita la punta, la mina.
*
Scintilla, che chiedo; scintilla, nel cielo
tre virgole alate finiscono d’essere aerei,
di Sara, dei giorni di vento si sa quasi niente;
di terra battuta, la gomma bruciata rischiara
la sera discesa più lenta, l’America a nuvole
in fondo di bianco, di nero. Che noi lo scoprimmo
il varco nel muro, la cinta aggirava, radente
col fiato sospeso, di fughe. Il presente.
*
Ascolta il motore stellare, a turismo
affiora volare, un bambino che vede,
un mattino, quando da figlio giocò con le spade
stupirsi ospedale, la nascita. Nascere
si dice il volere ogni cosa vicina,
il farsi guidare inconcluso, l’occhio che chiuso
riverbera mare, combina inconsulto
sempre sapere e, ora, preghiera.
Preghiera in parafrasi di prosa
22-23 Gennaio 2006
Mi rifugiai
nel pròtiro della cattedrale
Tentai di pregare.
G. Caproni
Padre buono di noi ossessi, in noi stessi
ricantato e chiuso, concludi il dono,
falla finita, fatti preda svelta, suicida; rimessi
i patti, i nessi, sveglia l’abbandono
di noi piegati, proteggi noi i nomi e i numeri,
appesi a cui scrivesti il tuo valore e il suono
di questa stanca che fu giornata, dei nati liberi
e le sporgenze delle ossa, la morte mossa
in scacco – incontro cronos a delitti maceri
Padre caro, origlia al meglio su noi ricurvi, glossa-
ci la vita, nell’addurvi misteri da rosa-
rio, cose quiete, ma nostre, di cui presunti osi non si possa
avere. Cose che non nostre, non vedere, in parafrasi di prosa.
L’era di un anno solo
02 Febbraio 2006
All’inizio di quel che era in volo, inizio
di un era
di un anno solo
sei stata finita nel cielo crepato
dall’acqua di un pelo
estivo, di sale disciolto; la pena
è quel che non vale al confronto
tra noi ed il peso al ritorno
alle piene di nuvole rigate dal sole, era
nuovo tenere il tuo fresco, la mano
le maniere più buone, la sera
di domeniche intiere sui vetri
bagnati, la polvere offerta
la morte sofferta di fianco o l’ascolto
del sonno, il croccante gustato
oltre il male rivolto,
dal profumo
di foglie di fresco suicide di pruno.
Dovrà aprirsi il passo
del suolo rappreso di gelo,
a dirglielo teso nell’aria, lasso, la voce
di vita: quel che lasciamo
ci tiene di sbieco, sta sotto. Ne è croce.
Lamiera
21 Febbraio 2006
Viene da poco
quel tanto di vuoto
che picchietta
lamiera nel
fresco di vento
se sole, se esangue
di pozza piovana
luce di nembo
se equinoziale
non vorrei, ma resta
la stanca, strana
la festa che
dipende, ci manca.
Io sono
15-17 Dicembre
Mi guardano come se fossi io sono
compresso di scatti, di idiomi malati, un uomo
di dati, una remora prima che dura irridotta,
indecidibile santo, corrotto di vuoto
un gioco, con regola singola e – batch che non filtra
Mi sentono consono al suono di uno stendino,
al vestito che sgocciola in attesa di vento.
Nel mese di nascita corto c’è sempre lo stesso
triangolo sole, muto di muro apparenza. Ad esso, speranza.