Stacca silenzio breve
la sciamura delle mosche,
nel dopo della pioggia io arrivo.
Con un molo di meraviglia
da scatenato abbrivio:
io arrivo, ti cammino e
scopro che, te
luce/ombra/ombre/affondo
patinata discesa sul prato
e sale-sale fresco rotondo scabro
scivolante e fatale
la teoria delle frane
luce/luce/mezza-a-scondo
dove scende poi sale
mista musica del mondo
una
montagna.
Reale.
Un mobile procurato
e ricercato sul vento di te che
spazzi nuvole cimbre e cirri
bomboloni cumuli spetardati
un rumore funambolo
il suo nitore ad angolo
nel blu del pomeriggio
guardai…
Non tanto il valico o
la scissura di valle e
non tanto la gola
che lancia a fiume gli uccelli più sensazionali
-quelli di piuma colorata e ardente
e i grossi neri, beccuti, spirituali-
, non tanto il giogo, il rostro, la trincea
e non l’ossario
il suo senso sparato a calco,
la morte che viene, oramai…
non tanto la lepre, la marmotta, il cerbiatto
o il fiore giallo, quello
violetto, un bianco, di loro,
la genzianella,
non quella d’oro, il lavoro
del paracarro, dell’escavatore
vicino al rifugio del CAI.
Guardai, un sapore nuovo.
E il senso dello stare in piedi.
Tutta intera, prima di sera
nella montagna pulita
la vita piccola ora un gigante
nelle mie gambe
fragrante o leggera.