«Imbecille, come potevi pensare che ti avremmo ucciso? Non sai che noi vorremmo ucciderti mille volte, fino ai limiti dell’eternità, se l’eternità potesse avere dei limiti?» Questa battuta, di sapore così letterario, non è pronunciata dai nazisti di Bastardi senza gloria, che non dimostrano inclinazioni filosofiche. Ma sembra esprimere ciò che in cuor loro anch’essi provano.
Proviene da un film di quasi trent’anni fa: Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini. A pronunciarla era un gerarca fascista, colto e raffinato, rivolgendosi a un ragazzo che aveva appena vinto, in una villa consacrata alle orge, un improvvisato concorso di bellezza: in un gruppo di coetanei e coetanee, era risultato avere il culo più bello. Il premio in palio era un colpo di pistola alla tempia.
Ma – questo è il senso pratico della battuta – conveniva sprecare una creatura così deliziosa con un omicidio di pochi istanti? Non sarebbe stato preferibile semmai ucciderla al termine di lunghi e fantasiosi tormenti?
In Bastardi senza gloria, un pensiero del genere balena forse nella testa di un astutissimo e ripugnante cacciatore di ebrei. Dopo aver fatto sterminare a colpi di mitragliatrice un’intera famiglia nascosta nell’intercapedine del pavimento di una fattoria, lascia che una ragazza, riuscita a salvarsi fuggendo per i campi, resti per lunghi istanti alla portata della sua pistola, senza spararle. Quell’ultima, gustosa preda sembra volersela riservare per il futuro.
Non è un comportamento eccezionale nel film di Tarantino. Tutti i personaggi si divertono a differire spasmodicamente il colpo di mannaia conclusivo, giocando come il gatto con il topo. Per nessun’altra complicazione psicologica, se non il sadismo. Del resto, in un film ricco, e perfino debordante, di episodi, è proprio il sadismo – ora eterosessuale, ora omosessuale – a essere l’elemento che li unisce. Le vittime di un episodio possono diventare i carnefici del successivo. E in qualche scena – in certi duelli verbali e/o con la pistola in mano – la suspense deriva dal dubbio: chi sarà alla fine la vittima e chi sarà il carnefice? Anche se più spesso il dubbio è soltanto: come e quando sarà moralmente soggiogata la vittima, costretta a compiere un atto che le ripugna? O: come e quando sarà materialmente massacrata? Più la conclusione è differita, più è come assaporata.
C’è chi ha accusato il film di antisemitismo, riferendosi in particolare all’invenzione di una banda di ebrei giustizieri, collezionisti di scalpi di soldati nazisti. In effetti, il film, a volergli attribuire un punto di vista storico, è più antinazista che antisemita. Ma quasi soltanto perché, alla fin fine, i nazisti risultano più antipatici degli ebrei. Astraendo largamente dalla Storia, considerando singolarmente ebrei e nazisti come le pedine intercambiabili di una partita sadica, essi finiscono omologati in misura a volte incresciosa.
È una conseguenza che forse Tarantino non aveva previsto. Egli giura di essersi documentato a lungo sulla seconda guerra mondiale, e in particolare sull’occupazione tedesca a Parigi, che è lo scenario del film. Eppure quello scenario appare pretestuoso. Vale a dire che se al bistrot parigino sostituissimo il saloon di un western di Sergio Leone – e agli ebrei (o ai nazisti?) gli indiani – la sostanza psicologica del film non cambierebbe.
Che l’Eros – un eros perverso – abbia qui il sopravvento sulla Storia, lo comprovano due spie.
La ricorrenza di certi compiaciuti dettagli, come le braccia nude e forti dei soldati; o il piede nudo della diva nazista fatto appoggiare sulla coscia del suo prossimo carnefice. E il carattere paradossale, ebbro, trionfalistico di certe azioni di violenza. Che siano i furiosi colpi di mazza da baseball sul cranio di un malcapitato; o un cinema incendiato e fatto crollare con la dinamite mentre vengono mitragliati gli spettatori che lo gremiscono – azioni in cui si scarica un’angoscia prolungata – sembrano qualcosa come l’equivalente di un orgasmo.
Ciò detto, bisogna condannare il film di Tarantino? Nient’affatto. Il voyeurismo sadico (più che l’apparente umorismo, o il gioco delle citazioni cinematografiche) consente all’autore di appassionarsi al suo racconto, dotandolo di un’incessante e straordinaria tensione.
Gianfranco Cercone
(da Notizie radicali, 15 ottobre 2009)