Spinus
Il ritorno del Cenerino
05 Aprile 2006
 

Cocco è un pappagallo cenerino di nove mesi che parla, balla e modula i motivi che sente alla televisione. Ne ha un vasto repertorio, che va dal “Ta–ta-tata” della nona di Beethoven alla colonna sonora del padrino. Dal “parà, parà, parà” della “mosca del Canadà” a “quando quando quando”.

Lo avevo adottato a distanza, quando era un uovo, e vive a casa mia da quando aveva due mesi... All’inizio si chiamava Pipolo perché pigolava come un pulcino passando da un “pio pio” appena percettibile a un possente “pi ppio” quando era l’ora della pappa (che gli somministravo con una siringa perché non era ancora capace di mangiare da solo).

Ma la vita nella bambagia del cenerino subì un improvviso scossone. Era un’afosa giornata di agosto. Andai a cercare un po’ di fresco in giardino in compagnia di Pipolo. Lo avevo in casa da soli13 giorni ed era la prima volta che lo portavo all’aperto. Le dimensioni erano più o meno quelle attuali (la grandezza di un piccione) ma le zampe erano fragili e il piumaggio ancora da completare.

La gabbia mi scivolò di mano e il pappagallo uscì. Feci per prenderlo ma, spaventato dal tonfo, spiccò il volo da terra, sorvolò il muro di cinta passando sopra un agave, scese in picchiata verso la strada provinciale (così almeno mi parve). Un flebile pio, poi più nulla.

Temevo di dover raccogliere i resti sull’asfalto, ma una persona alla fermata dell’autobus mi tranquillizzò dicendomi di non averlo visto.

Lo cercai invano passando al setaccio ogni siepe. Era come se la terra l’avesse inghiottito.

Vicino alla mia casa vi sono boschi con fitta vegetazione e, poco più a valle, il torrente Mallero con le sue gole profonde (le cosiddette Cassandre). Le sue tracce si sarebbero perse qualunque direzione avesse preso.

Feci correre la voce e lanciai un appello per radio sperando di ricevere qualche segnalazione.

Metti il cuore in pace – mi dicevano gli amici. – Se non si è sfracellato, è stato mangiato dalle volpi, o dalle faine oppure dagli uccelli rapaci di cui pullulano i boschi e le cassandre del Mallero.

Il sabato sera (se ne era andato il martedì pomeriggio) ricevetti la segnalazione che un pappagallo cenerino con la coda rossa era stato avvistato sullo steccato della strada che congiunge Ponchiera con Montagna attraverso le vigne. Incredibile ma vero. Il pappagallo era riuscito a sopravvivere per tutti quei giorni (quasi sicuramente senza mangiare) e, cosa straordinaria, era riuscito ad attraversare il Mallero. La domenica all’alba mi recai sul luogo dov’era stato avvistato. Lo chiamai a lungo e tesi l’orecchio. Nessun segnale, salvo in lontananza il verso della cornacchia.

A mezzogiorno tornai a casa, rinviando la ricerca al pomeriggio. Stavo per ripartire quando accadde una cosa straordinaria. Mio marito avvistò in lontananza un uccello che attraversava le cassandre del Mallero in direzione della nostra casa. Un puntino che, man mano si avvicinava, assomigliava sempre più a un piccione (ma era il pappagallo cenerino).

Eccolo, eccolo! Eccolo!

È lui, è lui, è lui.

L’emozione era troppo forte... Si posò sul tetto della casa di fronte... Lo chiamai mostrando la scodella della pappa. Si alzò nuovamente in volo e si posò sul tetto della nostra casa e da lì a un cavo del telefono. Stavo pensando a una strategia per farlo scendere alla mia portata, ma non fu necessaria. Appena mi vide si posò su una siepe facendo il verso della cornacchia. Lo stesso verso che avevo sentito in lontananza al mattino. Si abbassò verso di me pencolando sul ramo più basso della siepe finché è riuscito a farsi prendere. Era diventato leggero come una piuma; pardon, come un insieme di piume.

Con il becco, per almeno dieci minuti, mi tempestò il collo e le guance di baci. Era il suo modo per dimostrarmi la felicità di essere ritornato a casa. Mangiò il pappone e si addormentò pesantemente. Per due giorni lo sentii russare. Era allo stremo. Nei giorni successivi si rimise in forza e sfoderò un incredibile repertorio di versi degli animali che aveva incontrato sul suo cammino. Faceva il verso della faine, dei corvi, delle cornacchie e, cosa straordinaria, con differenti modulazioni di cinguettii imitava la tenera scena di mamma chioccia alle prese con uccellini appena nati.

Non mi riuscì più di chiamarlo Pipolo. Quell’esperienza l’aveva fatto crescere troppo in fretta. È incredibile come un pappagallo di due mesi, nato in incubatrice e allevato in cattività se la sia cavata alla grande al suo primo volo fuori dal suo habitat in mezzo a pericoli di ogni genere...

È mistero su come e dove abbia trascorso i cinque giorni prima che venisse avvistato. Esiste un abisso tra il tempo impiegato da Mossini a Ponchiera (cinque giorni) e il tempo impiegato da Ponchiera a Mossini (poche ore).

Mai avrei pensato che potesse ritornare. All’inizio speravo di ritrovarlo accovacciato sotto una siepe, nella migliore delle ipotesi con una zampa o un’ala rotta. Con l’andare dei giorni, ho però perso le speranze...

Forse avrei dovuto vivere l’attesa in modo più fiducioso sapendo che se la natura ha dato agli uccelli le ali per volare ha dato loro i mezzi per difendersi dai pericoli.


Vanna Mottarelli


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