Hijos de la crisis
Cuando era pequeña, mi madre me obligaba a comerme toda la comida. La frase para vaciar el plato era: “no dejes ni una cucharada, que hay otros niños en el mundo que no tienen nada que llevarse a la boca”. Pasaron apenas unos años y la profunda crisis generada por la caída del socialismo en Europa cambió totalmente el panorama de mi mesa. Más que evocar a los que no tenían, nos poníamos a divagar sobre los manjares que estarían devorando otros. Eran tiempos en que hablábamos constantemente de sabores perdidos y productos desaparecidos del mercado. Mis padres no volvieron a exigirme mayor apetito, sino que pasaron a pelearme por tragar –demasiado rápido– el pan recibido en el racionamiento.
La crisis entró en nuestras vidas para no irse. Después de más de veinte años conviviendo con una economía colapsada, ya nuestra piel apenas reacciona a los aguijones de las dificultades. El mundo se espanta ante los indicadores que evidencian la catástrofe económica, pero mi generación -crecida en los rigores de la carestía- no concibe levantarse una mañana sin la angustiosa pregunta de ¿qué voy a comer hoy?
La debacle financiera que azota al mundo hace que algunos analistas vaticinen el fin de un sistema. Nosotros somos sobrevivientes de la larga agonía de otro, de manera que los estertores no nos asustan. La experiencia que tenemos en eso de vivir con el mínimo seguramente será de gran utilidad si el problema continúa. Tal vez tengamos que retomar las increíbles recetas de los peores momentos del “período especial”, como el bistec hecho con corteza de toronja o el picadillo de cáscara de plátano. Pondremos esos engendros en el plato sin presionar a nuestros hijos para que mejoren su apetito, temerosas de que puedan engullir la ración de toda la familia.
Yoani Sánchez
Figli della crisi
Quando ero piccola, mia madre mi obbligava a mangiare tutto quello che metteva in tavola. La frase per farmi svuotare il piatto era: “Non lasciare neppure una cucchiaiata, perché ci sono altri bambini nel mondo che non hanno niente da mettere in bocca”. Trascorsero solo alcuni anni e la profonda crisi generata dalla caduta del socialismo in Europa modificò radicalmente il panorama della mia tavola. Invece di evocare coloro che non avevano, ci siamo messi a divagare sui manicaretti che altri stavano divorando. A quei tempi parlavamo costantemente di sapori perduti e prodotti scomparsi dal mercato. I miei genitori non tornarono a esigere da me un maggior appetito, ma cominciarono a litigarmi perché inghiottivo troppo rapidamente la quota di pane razionata.
La crisi entrò nelle nostre vite per non andarsene più. Dopo oltre vent’anni di convivenza con un’economia collassata, adesso la nostra pelle reagisce appena agli stimoli delle difficoltà. Il mondo si spaventa di fronte agli indicatori che mettono in mostra la catastrofe economica, ma la mia generazione - cresciuta nei rigori della carestia - non concepisce di alzarsi una mattina senza l’angosciosa domanda: che cosa mangerò oggi?
La débâcle finanziaria che colpisce il mondo fa predire ad alcuni analisti la fine di un sistema. Noi siamo sopravvissuti alla lunga agonia di un altro, per questo i respiri terminali non ci spaventano. Se il problema persiste, la nostra esperienza di riuscire a vivere con il minimo indispensabile sarà sicuramente molto utile. Forse dovremo riprendere le incredibili ricette dei peggiori momenti del “periodo speciale”, come la bistecca fatta con scorza di pompelmo o il ragù di buccia di banana. Metteremo codesti orrori nel piatto senza incentivare i nostri figli a migliorare il loro appetito, temendo che possano ingurgitare la razione di tutta la famiglia.
Traduzione di Gordiano Lupi