Manuale Tellus
Elisabetta Brizio: Esistenza, mistero, scrittura 2. Toblack e Spleen di Sergio Corazzini
20 Aprile 2009
 

1 - L’astrazione dalla vita in Toblack

 

Dolcezze di Sergio Corazzini si chiude significativamente con le cinque quartine di “Asfodeli”, in cui si avverte una prima risoluzione verso il dissolvimento delle strutture tradizionali del verso, qui attuato solo attraverso dei prolungatissimi enjambement:

 

e se voi, con un magnifico atto,

lo accettaste insieme a’ miei versi

 

di fanciullo poeta

 

malgrado l’uso regolare della rima incrociata. Con Toblack Corazzini comincia a trasgredire le consuete norme regolative della versificazione, ma ancora limitatamente all’uso della rima (la cui pressoché totale assenza nella prima parte potrebbe quasi indurci a considerare questo testo un esempio di versi sciolti). Inoltre solo apparentemente vengono esibiti quattro sonetti: nella prima parte la struttura del sonetto è stravolta a livello grafico e i versi confluiscono in una sola strofe. Numericamente corrispondono alla norma fissata dal sonetto, sono invece assenti le tradizionali pause che scandiscono i tempi delle quartine e delle terzine. In seguito Corazzini sarà radicalmente orientato verso l’oltrepassamento dei limiti fissati dalla prosodia tradizionale con il finale approdo al versoliberismo. Il disimpegno corazziniano dalle regole della versificazione per un dettato poetico più aperto, incontenibile, ritmicamente assimilabile alle ragioni profonde della propria ispirazione, avviene contemporaneamente alla decisiva intuizione della vita come naufragare, la cui sola ragion d’essere è delegata a un disfatto, evocativo e debordante verbalizzare la morte.

Nei sonetti di Toblack Corazzini si mostra per la prima volta profondo conoscitore del proprio tramontare: non assistiamo più allora, come talora in Dolcezze, a una insincera esemplificazione del desiderio di morte o a una generica e quasi compiaciuta estetizzazione della mitologia della morte ma alla ridescrizione della visione della fine come prossima e non differibile realizzazione. Non più la morte è impiegata come metafora di una volontà di distanziazione e di una esperienza estetica della sconfitta, ma diviene immedesimazione di vita e poesia, convergenza di poesia e ontologia, la realizzazione poetica di un fin troppo consapevole declinare. In Toblack, scrive Sergio Solmi nella sua citatissima e ormai proverbiale definizione, siamo di fronte a «un luogo astratto, anticamera luminosa della morte, con le sue vie, le sue fontane, le sue continue processioni funerarie». E poi opportunamente aggiunge: «e quella forte intuizione iniziale varrà a far perdonare qualche lungaggine esplicativa e determinativa, specie nei tre sonetti che seguono la prima parte della poesia».1 Allo scopo di incrementare questa impressione di surrealtà Corazzini ha assoggettato la versione definitiva dei quattro sonetti a un ulteriore processo di astrazione con la conseguente perdita del senso del tempo e dello spazio: indeterminazione e vaghezza percorrono in forma quasi assoluta pressoché l’intero componimento attraverso una dispersione semantica - in termini di evanescenza - che paradossalmente finisce per intensificare il motivo dominante della scomparsa e dell’annullamento.

Toblack si apre in uno sfondo di indeterminatezza estrema («…E giovinezze erranti per le vie») conseguito non soltanto mediante la metonimia iniziale che propende per l’astrattezza quanto per la “ingiustificata” congiunzione coordinativa copulativa “e” inusualmente preceduta dai puntini di sospensione posti all’inizio, circostanza che pare sottendere la prosecuzione di qualcosa, di un discorso già altrove cominciato, e che stabilisce una indistinta e tuttavia ossessiva continuità in questo lento, disilluso e irreversibile andare verso la morte: «passare funerali e funerali», dirà Corazzini nella seconda strofe della quarta parte. Gli elementi del consueto repertorio crepuscolare - deprivati della loro presunzione di oggettività e reificazioni dunque di uno statuto ormai solo spirituale - seppure introdotti in un contesto che si propone di accentuare il processo astrattivo, paiono aver totalmente perso - come d’altronde spessissimo accade nei poeti crepuscolari - ogni rapporto con il proprio referente. «Portoni semichiusi, davanzali/ deserti, qualche piccola fontana/ che piange un pianto eternamente uguale»: tali elementi sono posti in rapporto di coordinazione attraverso una sintassi nominale che inscena l’allusione a una sorta di scansione lenta e ininterrotta, cadenzata, da andatura del corteo dell’ultimo viaggio. Pur funzionando come sempre da correlativi oggettivi, le presenze e le parvenze oggettuali ricevono un diverso sfruttamento: perdono la propria consistenza materiale, sfumano attraverso un ulteriore straniamento come per dare la percezione della propria estraneità al mondo fisico. Toblack - come trasfigurazione dell’anima - è un luogo di approdo e di deriva, paesaggio sublimato dello spirito disilluso di una umanità disumanizzata che indugia alle soglie in una crescente identificazione con la morte. Toblack è una trasposizione metaforica, un luogo separato dalla vita, ma tale circostanza non corrisponde più al crepuscolare e talvolta snobistico desiderio di separatezza: esso sta a oggettivare una condizione ineluttabile, non ha più niente a che vedere con alcuna forma di snobismo letterario né con la codificazione di una maniera deideologizzata o quantomeno non mistificatoria di fare poesia in un contesto ormai inautentico. Il luogo sta piuttosto a significare un inflessibile prendere le distanze dalla vita, laddove l’impartecipazione alla vita e l’opzionare la morte sono solo di necessità.

Fin dai primi versi compare il termine «piange» che per frequenza statistica potremmo indicare - se è possibile fare astrazione dal campo semantico relativo alla morte, i cui riferimenti nondimeno paiono dilagare nel testo - come il mot-clé del testo: «piange», «pianto», «piange», «lacrimosi», «lacrimare» esemplificano un vano rimpianto su tutto ciò che il poeta descrive attraverso una accumulazione per asindeto, nella seconda parte del componimento. Toblack, supremo luogo dell’impermanenza e del disincanto, propedeutico alla morte, figurazione stessa dell’inconsistenza, accoglie

 

Le speranze perdute, le preghiere

vane, l’audacie folli, i sogni infranti.

le inutili parole de gli amanti

illusi, le impossibili chimere,

 

e tutte le defunte primavere

 

in termini di esperienze inattuabili, di un passato irrevocabile, di un futuro neppure congetturale, e, soprattutto, di vacuità di ogni forma di resistenza spirituale, della consapevolezza di una impossibile - finanche estetica - salvazione. La costante tendenza all’indeterminatezza cede talvolta il posto alla personificazione, a indicare uno stato di cose universale e a tratteggiare un ineludibile (peraltro qui espresso anche in forma ironica) negativismo ontologico: «Vita che piange, Morte che cammina», «A uno a uno Morte li prepara,/ (…), lungo, Speranza, la tua dolce via!».

La precoce chiaroveggenza del poeta, la tragica percezione della sua incompiutezza esistenziale, la piena cognizione dell’esclusione dalla vita, incapaci - come superbamente accade nella poesia di Guido Gozzano - di manifestarsi in una letteraria dissimulazione della propria disillusione, danno luogo a uno sterile e vacuo “lacrimare” su quanto ancora nel poeta “viveva ieri”. Oltre questo c’è solo il mistero, insieme, come poi in La morte di Tantalo, alla sconfitta esistenziale per il mancato rinvenimento di un senso della perduta vita e della perduta poesia.

 

 

 

2 - Il sogno di una canzone morta: Spleen

 

Et comme un piano voisin rêve en mesure (Jules Laforgue)

 

A partire da Le aureole (1905) Sergio Corazzini semplifica i temi della propria ispirazione e circoscrive - attraverso una accuratissima selezione - sia le forme espressive che l’inventario oggettuale, tralasciando tutto ciò che ritiene inutilizzabile per una ormai solo austera e autoreferenziale trascrizione del proprio distacco dalla vita.2 Ne consegue che in Spleen la resa del poeta alla realtà insieme alla sua antica rassegnazione di fanciullo malato si allontanano dai toni finanche scarsamente incisivi dei testi precedenti.

La distribuzione dei versi liberi di Spleen segue un andamento ritmico fluido e flessuoso, assimilabile al contemporaneo gusto figurativo dell’Art Nouveau; versi liberi, si diceva, ma non senza pause singolarmente marcate attraverso un uso espressivo della virgola e della maniera di andare a capo. Malgrado qui tutto appaia - in una intrinseca coerenza elegiaca - indissolubilmente legato e consequenziale, ognuna delle quattro strofe, di varia lunghezza, finisce per svolgere un tema. E i temi di Spleen - scrive Bruno Porcelli - sono «la richiesta del canto», «la tristezza della privazione», «il languore dell’attesa» e «la preparazione alla morte».3

Nella prima strofe il tentativo di ridestare qualcosa che evochi il passato defunto e come tale oggetto di rimpianto già contiene la prefigurazione di un incolmabile senso di vuoto; «ti sarebbe/ dolce» dirà poi Corazzini in Elegia «imaginare di lontani/ giorni che la tristezza esiliò/ con le favole»:

 

Che cosa mi canterai tu

questa sera?

Amica, non voglio pensare

troppo: la prima canzone

che ricordi, antica,

non importa;

una di quelle canzoni

che non si cantano più

da tanto,

che non fanno più schiuder balconi

da un secolo. Vuoi

darmi la nostalgia

di una canzone morta?

 

La seconda strofa gravita intorno al sentimento di privazione, trasfigurato nelle figure del silenzio, della “malinconia di morire”, del tentativo di rifugiarsi nel passato - entro i confini della nostalgia, la sola alternativa percorribile -, nell’avvertimento di una impossibile rinascita. Il senso di privazione invade anche la sfera del ricordo e sancisce inderogabilmente la svalutazione del tempo trascorso:

 

Sei triste, mi dai pena

questa sera; non canti, non mi parli…

Che hai? malinconia

di morire? Ti duoli

perché siamo soli?

Ricordi l’ultimo ballo

nel tuo salotto giallo

roso dai tarli?

Sai che è primavera?

Io non ne n’era accorto;

non ho rosai,

non ne ho avuto mai

nel mio triste orto.

 

Nella terza strofa domina il motivo - tipicamente corazziniano - dell’attesa vana, del desiderio inappagato e del prolungarsi di un quasi narcisistico mortale languore. D’altra parte l’astensione, l’irrealtà dell’azione, l’assenza di echi, l’ombra, la polvere soffocante e paralizzante gravano sull’intero componimento: è l’indefinito in cerca di una adeguata definizione, l’oggettivazione dello spleen nei simboli di una inattitudine a varcare i limiti di un’esistenza confinata nella passività - il cui simbolo d’elezione sarà il «povero specchio melanconico» della “Desolazione del povero poeta sentimentale” - e nella condizione di impotente rivolta, neppure di carattere ideale, romantico o leopardiano:

 

Perché non suoni? Langue

di desiderio

quel tuo piccolo pianoforte esangue,

nell’ombra; o non così,

amica,

l’anima ci sospira nell’attesa

di chi

sappia farla vibrare?

 

Ulteriori variazioni analogiche sul tema della morte - parola chiave di un testo in cui Corazzini ci consegna la propria peculiare, ennesima meditatio mortis - compaiono nella quarta strofe: i simboli dell’interiorità del poeta assumono una tonalità desolante, sono presenze - di cui Corazzini tenta una elevazione dall’ordinario al simbolico - anch’esse trascoloranti, segni di un abbandono non più altrimenti documentabile:

 

Oh, che tristezza! Pare

nel biancore lunare,

malata di etisia,

con tutte le sue porte

chiuse, la nostra via

diserta e quel fanale

solo e torbido pare

che attendendo la morte

ne vegli l’agonia.

 

Il non rinvenimento di una canzone-varco sulla malattia dell’esistenza, il soffocamento della polvere che opprime le cose, l’anima e i pensieri, il silenzio come unica possibile risposta a un insistente e inesausto - ed essenzialmente retorico - domandare e la solitudine claustrale della strada agonizzante alludono alla condizione dell’individuo già spiritualmente morto. Scriverà Marino Moretti, qualche anno più tardi, in “Che vale?” (Poesie scritte col lapis):

 

Non c’è né duolo né gioia,

non ci son luci né ombre:

il grigio, il grigio che incombe

sui cuori e un tarlo: la noia.

 

Vale la pena spendere due parole sullo spleen, altrimenti detto disagio immotivato, indefinibile e senza soluzione, (che qui non sconfina nell’angoscia baudelairiana ma si mantiene nei limiti di una rassegnata accettazione), senza senso e senza oggetto. Ma definito anche, sotto certi aspetti, come difficoltà a impossessarsi della propria esperienza. Lo spleen in Corazzini definisce un’esistenza in termini di mancanza di fondamento, della perdita della propria identità strutturale e individuale e del senso della percezione della continuità dell’io nella mutevolezza del tempo. In una incoerente alternanza di vissuti e in una sconnessione tra i diversi piani dell’esperienza - avvertita, pertanto, nel senso dell’Erlebnis -, segni di una identità vacillante e incerta, non più sorretta dal dualismo tra soggetto e oggetto. Lo spleen corazziniano sembrerebbe piuttosto implicare questa condizione, visto che la desolazione e soprattutto lo spaesamento del poeta contengono profonde motivazioni extraletterarie. Scrive Fausto Maria Martini:

 

La sua poesia non era se non l’ombra proiettata sul suo volto di giovinetto esangue dalla morte imminente che l’aveva in suo dominio da quando egli aveva cominciato a conoscere e amare la vita. (…). Così Sergio: per non vedere davanti a sé la nemica, egli cerca d’intorno e lontano tutte le cose dove gli sia dato ritrovare un’eco del suo spasimo, in un pianto che risponda al suo pianto.4

 

 

Al poeta non resta che il colloquio con l’anima sorella, che si istituzionalizza e, scrive Jacomuzzi, «si va allargando a tutto il tessuto lirico, diventa misura fondamentale non più rintracciabile particolarmente, ma presente come essenziale scansione della parola, che cerca e incontra in un continuato richiamo vocativo al ‘tu’ la validità ultima delle proprie ragioni sentimentali».5 Il colloquio con l’anima sorella - eminente finzione della poesia più autenticamente corazziniana - consiste nondimeno in un soliloquio assorto in totale assenza di corresponsione, laddove l’interlocutore è confinato nell’ombra di un prolungato e inespugnabile silenzio. In fondo il silenzio è anche l’orizzonte delle cose non dette, quelle inesprimibili e adombrate di mistero: ma fondamentali, in quanto, come diceva Ludwig Wittgenstein, conferiscono un senso a ciò che al contrario si è stati in grado di esprimere. Corazzini pare piuttosto interrogare sé stesso, cercare di definirsi in termini di «perplessità crepuscolare» (l’espressione, è noto, è di Guido Gozzano) in un inconcludente monologare senza interlocutori allo scopo di indicarci che l’essenziale sta nella domanda: Spleen è «lucidamente bilanciata tra soliloquio e dialogo, elegia e invocazione».6

Nei crepuscolari l’evocazione del proprio status interiore viene affidata al muto linguaggio degli oggetti (siamo alla preistoria della poesia montaliana); le trasposizioni oggettive in Spleen ascrivono un ipersenso alla mancanza di senso, alla malattia consustanziale alla vita, attraverso una eloquente, emblematica dimessità di accenti e una sorta di de-signazione che alla fine reintroduce i cosiddetti referenti di significazione nel loro ambito di insita intrasparenza: se «una canzone morta» potrebbe costituire una chance, nondimeno delinea l’irrevocabilità del passato; la «primavera» sta a significare - come altrove in Corazzini - una rinascita che non accade nel poeta; i «rosai» sono il segno di felicità possibili e comunque disattese (la dimensione autentica del poeta è quella del «triste orto»); il «pianoforte esangue» è insieme impulso alla vita e impotenza vitale; la «via diserta» con le sue «porte chiuse» allude alla scomparsa e al silenzio; il «fanale», infine, non illumina ma veglia, solitario, una agonia. Scrive Matteo Veronesi, a proposito di Corazzini: «la malattia - stato di sospensione e di perenne attesa, sorta di sfumatura indefinibile, di limbo interiore - si riflette anche sul linguaggio, sulla stessa tessitura stilistica di una poesia volutamente ‘inutile’, dimessa, smorzata, che addirittura nega di essere tale, salvo poi affermare una propria paradossale poeticità grigia e tenue, antitetica a quella ufficiale e pubblicamente riconosciuta».7

Nei versi conclusivi di Spleen si assiste all’esaurimento del colloquio-soliloquio del poeta in una iperoggettivazione della morte e al ripristino del silenzio interiore attraverso il suo trasferimento in quello esteriore. Ora - come nei memorabili versi gozzaniani (appartenenti a “Delle crisalidi”, in Le farfalle) - vita e morte non sono più distinguibili separatamente ma «i loro volti fanno un volto solo». Non dissimile, scrive più avanti Veronesi, «è la sorte della poesia, che, come la malattia e come la vita, dilegua con la morte, e svapora in essenza impalpabile - in “molteplici cerchi di fumo,/ aboliti in altri cerchi”, dice Mallarmé».8

Poesia dell’assenza, dunque, il crepuscolarismo di Corazzini, dell’atto non compiuto, come nelle gozzaniane «rose che non colsi», o nelle corazziniane «rose odorate mai». Non unicamente - come peraltro nello stesso Gozzano - quali metaforizzazioni o segni di una ostentata forma di impartecipazione alla vita. Corazzini non è un fingitore o perlomeno a un certo punto smette di esserlo, non oppone alcun correttivo allo spleen e nella propria disillusione si abbandona alla deserta tristezza che sorge dall’acquisita cognizione della irrealizzabilità di una condizione futura. Come in questi versi dal tono quasi gozzaniano della “Ode all’ignoto viandante”, appartenente a Piccolo libro inutile:

 

Viandante, ancor io

risi alla mia speranza,

vissi la lontananza

per vivere d’oblio.

 

Impersuasione (o «persuasione inadeguata», avrebbe detto Carlo Michelstaedter), assenza, malattia, spleen: non sono altro che maniere non omissive di nominare la vita.

 

Elisabetta Brizio

 

  

1 S. Solmi, “Sergio Corazzini e le origini della poesia contemporanea”, Introduzione a Liriche di Sergio Corazzini, Ricciardi, Milano 1959, ora in Scrittori negli anni, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 263.

2 Cfr. S. Jacomuzzi, Sergio Corazzini, Mursia, Milano 1963-1970, p. 68.

3 B. Porcelli, Momenti dell’antinaturalismo. Fogazzaro, Svevo, Corazzini, Longo, Ravenna 1975, pp. 107-108.

4 F. M. Martini, Prefazione a Liriche di Sergio Corazzini, Ricciardi, Milano-Napoli 1959, p. XIV.

5 S. Jacomuzzi, Sergio Corazzini, cit. p. 63.

6 G. Savoca, “I crepuscolari e Guido Gozzano”, in G. Savoca e M. Tropea, Pascoli, Gozzano e i crepuscolari, Laterza, Roma-Bari1978, p. 100.

7 M. Veronesi, “Corazzini e il male della poesia”, in Atelier, IX, (2004), n. 34, pp. 23-29.

8 ibid.


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