Superato e doppiato “il mezzo del cammin della mia vita” sarebbe maturo il tempo per elaborare bilanci; la mia età mi consente di ricordare bene la veemenza con la quale Pasolini si scagliava contro il "Palazzo"; oggi non c'è più un Palazzo contro cui scagliarsi, il mondo intero è diventato un Palazzo dentro il quale siamo tutti teleguidati come automi indifferenti.
Quale bilancio potrebbe mai venirne fuori ?
La situazione globale del pianeta Occidente viene nascosta da nubi che si addensano sulle vere metastasi che affliggono una realtà alla deriva, gettata allo sbaraglio dall'incapacità di guardare dentro i fatti, dentro gli uomini, dentro le problematiche che si sviluppano in una spirale involutiva.
Accusiamo il neo-liberismo del vuoto ideologico che sta attanagliando la cultura, la politica, la programmazione, la speranza, mentre in realtà tale neo-liberismo non è altro che l'emblema di una cultura, di una politica, di una programmazione, di una speranza, diventati la nuova ideologia della reality.
La banalità della cultura, della politica, della programmazione, della speranza si rivede nella banalizzazione dell'agire, del pensare, del credere, come se una nuova censura avesse eliminato le domande inerenti le questioni fondamentali dell'esistenza e della convivenza civile.
Le questioni che coinvolgono l'azione e la vita stessa sono state relegate nel Limbo dell'inutile, mentre faziosi "opinions leaders" si accalcano sulla scena per discutere di regolamenti, di metodi, di trucchi, di miraggi lontanissimi e dell'esigenza di "insegnare e imporre la democrazia" agli altri.
Per questo mi sono messo a trascrivere le mie esperienze, per tentare uno stimolo da trasmettere; ma si tratta di un confronto impari: l'abitudine a non pensare, a non riflettere, a non credere, a non sperare, viene presentata come il culmine del nuovo progresso che riduce l'uomo alla stessa stregua delle formiche o delle termiti, impostando l'intera vita senza un perché, sostenuta solo dall'istinto di sopravvivenza.
Mi è stato rimproverato di non essermi “messo in gioco”, ma per mettersi in gioco occorre che ci sia un gioco nel quale mettersi; ma quello che vedo è solo un tavolo di bari, con un cartaro dalla “mano lesta”. Così faccio il solo gioco che so fare: il solitario, l’unico gioco nel quale è da stupidi barare.
E’ il Potere che si eleva su tutto e su tutti, indica, di volta in volta, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è vero e ciò che è falso.
Il Potere, quindi, genera chi lo esercita che finisce con il credersi il solo in grado di guidare il gregge; ritorna il mito di Zaratustra che si cala nella realtà dell'Occidente come una magia mediatica.
Anche la scienza non lascia spazio al voler pensare, al voler riflettere, al voler credere, al volere sperare, e ci indica, impietosamente quali molecole stimolino il pensiero, la ragione, la riflessione, la fede, la speranza e l'amore, ma non ci dice PERCHE' abbiamo pensato, creduto, sperato, amato.
L'aiuto per tornare a credere, a pensare…ad amare non può darcelo nessuno, violentati come siamo dalla pretesa onnipotenza del nuovo pragmatismo, che svuota l'uomo, ma riempie le cantine della Coscienza con gli ultimi ritrovati dell'inutile progresso.
Le parole non esprimono più sentimenti profondi in grado di commuovere, esaltare, illudere (forse), ma in ogni caso vivere.
Non possiamo cercare aiuto nei nuovi mentori del vero, in quegli opinionisti tuttologi condizionati dal conformismo e dal servilismo verso il potere.
Se la vita fosse un tram, chiederei di scendere alla prossima, ma questo tram si ferma solo al capolinea.
Avere conquistato e mantenuto la mia libertà è la sola ricchezza che posseggo e la trasmetto ai miei figli come la più opulenta fortuna, mentre una cascata di anni riduce le tentazioni del futuro, che vengono affidate ai sogni vissuti, ai ricordi passati e agli affetti presenti.
Confiteor
Sono stato il cantore del silenzio,
della parola mai proferita,
contentandomi di un fiasco di vino e del pane secco;
cercando il succo di un frutto migliore
nella borraccia di un pellegrino;
contento di una fetta di azzurro
e del mattinale tripudio dei bambini;
della luna ormeggiata nel suo angolo di cielo;
del trascorrere del tempo,
dolciastro come le more selvatiche.
Ho tentato, invano, di prestare la mia voce
a quanti erano condannati a restare muti.
La giovanile esuberanza
tingeva la mia vita di illusoria eternità.
Ora una cascata di anni
genera la foce di tutte le mie utopie,
che scivolano nell’alveo di una vita intera,
per generare un dedalico estuario
articolato in mille delusioni.
Il rastrello della memoria rimuove i ricordi
che credevo sepolti sotto cumuli di gramigna,
per ridare loro nuova linfa,
e rinnovare, dentro di me, l’itinerario di una mai sopita sete.
Nella mia mente non c’è spazio per i ricordi,
emergono solo nostalgici rimpianti.
L’ansia travolge il quotidiano,
l’ignoto mai vissuto
monta su slitte trainate dai sogni,
mentre solari momenti squarciano le nubi tumultuose,
concedendo spazio a nuove illusioni.
La storia che si conferma è solo quella scritta dai vincitori,
che si trasforma nella deriva senza meta di ogni valore umano.
Il silenzio dei vinti è una condanna senza appello
che si ricollega a tante altre condanne,
transitate nelle pagine dell’oblio di una storia mai scritta.
La cronaca della violenza, della sopraffazione
della legge del più forte, non finisce mai di finire.
Il tempo scandisce impietoso quotidiane litanie
di un itinerario ripetitivo che divide per sempre
il popolo dei vincitori da quello dei vinti.
Un attimo diventa un’ora, un giorno, un anno...tanti anni,
tutto torna alla mente e riconduce alla memoria storica
di quel passato che si materializza
in una torre inespugnabile
dove il popolo dei vinti ritrova le sue origini e la sua identità.
Solenne mediocrità di tarlati ricordi,
inutile ricerca di una genesi
che si è perduta
nello scempio della sconfitta.
Rosario Amico Roxas