Riccardo Cardellicchio: La strage nazifascista a Fucecchio.
Monumento ai martiri del Padule di Fucecchio
Monumento ai martiri del Padule di Fucecchio 
02 Aprile 2009
 

Dalle colline delle Cerbaie, da Massarella in particolare - balcone sul Padule di Fucecchio - si può vedere il palcoscenico della strage del 23 agosto 1944, attuata dall’esercito tedesco, dai nazifascisti. Può essere luogo di memoria e di meditazione.

La memoria mi riporta al 1964, a quando il mio giornale (Il Telegrafo) mi mandò a fare un servizio sull’eccidio del Padule di Fucecchio. Mi trovavo allora a Volterra, dove dovevo seguire le riprese del film Vaghe stelle dell’Orsa, di Luchino Visconti. Il massimo per un amante del cinema e, soprattutto, per un cronista ventenne. Il caposervizio mi disse che dovevo staccare momentaneamente, un giorno appena, per andare nel Padule di Fucecchio e parlare con qualcuno capace di ricostruire l’episodio, ricorrendo il ventesimo anniversario. La commemorazione avrebbe visto insieme Parri e La Pira.

 

Fu un’esperienza che mi prese più del film di Visconti, al punto che me la porto dentro, come paragone quotidiano con altri avvenimenti.

Per il servizio puntai su due figure emblematiche: Casimiro Giacomelli, allora novantenne, e Armando Arinci, cinquantenne. Due uomini messi alla prova dalla distruzione delle loro famiglie. Parlai con loro e raccolsi, sconvolto, i racconti. Quell’incontro fu per me la molla che mi spinse a impegnarmi nella ricostruzione di una pagina terribile dell’occupazione nazista. Mi resi conto che era necessario per mettere ordine nel numero dei morti e per raccontare la loro storia. Nel documentarmi per l’articolo, ero incappato in cifre ben distanti le une dalle altre. Anni dopo, arrivai al libro L’estate del ‘44 e al numero esatto dei morti: 175. Non rappresaglia, ma azione di guerra per creare il terrore nella popolazione e coprire così la ritirata.

A distanza di tanto tempo, nel rimettere a posto alcuni documenti, l’articolo è riemerso, ingiallito ma intatto. L’ho letto d’un fiato, rendendomi conto dell’errore commesso nel non averlo inserito interamente nel libro, preferendogli una sintesi. Penalizzai testimonianze importanti.

Ne approfitto per rileggerle oggi.

 

 

«Erano le sei di mattina quando vennero», dice Casimiro Giacomelli, detto Alfredo, un uomo che si avvia ormai verso i novant’anni, ma che ha ancora un aspetto giovanile e, quel che più conta, la mente lucida. Un uomo che ha perso nell’eccidio nove persone: tre nipoti, due femmine e un maschio, rispettivamente di 2, 7 e 14 anni, la moglie, due nuore, tre figlioli (due femmine e un maschio). Abita in località Uggia di Cintolese, frazione di Monsummano Terme, via del Porto, nel secondo podere delle File della fattoria Poggi-Banchieri, proprio accanto (primo podere delle File) alla famiglia Arinci, anch’essa decimata nell’eccidio.

«Erano le sei di mattina quando vennero» ripete Giacomelli calmo «alla casa Simoni, là nel padule, dove s’era sfollati perché i tedeschi ci avevano mandati via da qui». «Erano due» aggiunge «e avevano i fucili mitragliatori. Entrarono in casa. Ci saremo stati in trenta, dai Simoni. Noi, gli Arinci e qualche altro. C’erano le donne, i bambini, i vecchi: pochi giovani. Ci fecero uscire e ci misero al muro. Non si capiva che volessero. Non s’era fatto nulla, noi. Stavo discorrendo con uno, un mio amico, anziano come me, quando sento il crepitìo dei fucili mitragliatori e gli urli di dolore».

E vide il sangue e vide la morte, Giacomelli. Aprì la bocca per dire qualcosa, per implorare pietà per quelli ancora in vita, ma non ci riuscì. Udì un altro crepitìo e un altro ancora. E mentre vedeva i bambini, le donne cadere a terra in pozze di sangue, perforati, sfigurati, maciullati, si chiedeva perché mai lui fosse sempre vivo. Allora pensò che poteva mettersi in salvo se riusciva a raggiungere la porta della stalla.

Due passi, con le gambe fiaccate dal dolore e dall’orrore, e fu nella stalla. Si appiattì in un angolo buio. Un attimo dopo un suo nipotino, il bambino di 7 anni (Pietro) scivolò nella stalla, ferito a morte. Era l’ultimo dei parenti, dei suoi parenti ancora in vita, nella casa. Si chinò su di lui con il cuore straziato, la vista appannata dalle lacrime, le mani tremanti con cui gli sfiorò i capelli arruffati. Il bambino ebbe il tempo di dire. «Nonno, non mi lasciare».

Il crepitìo era finito. Tutto tranquillo?, si chiese, e stava per uscire, quando, con un boato pauroso, qualcosa crollò alle sue spalle. I tedeschi stavano lanciando bombe a mano per eliminare chiunque fosse all’interno della casa. Allora fuggì per i campi e raggiunse un argine. Vi si nascose con due bambini, due nipoti degli Arinci, che erano riusciti a scappare perché si trovavano al primo piano. S’erano calati dalla finestra di dietro della loro camera che dava sul tettuccio del porcile e avevano preso per i campi senza una mèta: quel che contava era andare lontano da lì.

«Non ricordo quanto tempo rimanemmo là» dice. «So solo che fummo scorti da amici che ci portarono alla casa dei Cipollini». E fa un gesto vago verso il Padule. Poi ci fa vedere il quadro alto, nella parete centrale del salotto, con le foto di tutti i suoi morti, e ha le lacrime agli occhi.

Armando Arinci ha 51 anni. Nell’anno della strage ne aveva 31, era sposato e aveva due bambini: Santi e Giampiero, rispettivamente di sei e un anno.

«Ero scappato nei campi poco prima, perché si era sparsa la voce che cercavano gli uomini. Si diceva che qualcuno si era rivoltato il giorno prima e allora i tedeschi stavano cercando tutti gli uomini della zona per individuare i responsabili».

Vagò a lungo con il fratello e altri per i campi; poi decisero di dividersi. Armando riuscì a raggiungere la strada, che era ritenuta zona sicura. Fu lì che lo venne a cercare il fratello. «Vieni, torniamo dai Simoni», gli disse.

«Ma c’è pericolo per noi».

«No, non c’è più pericolo, ora».

Lo seguì e quando si trovò di fronte a quello spettacolo straziante rimase come pietrificato. Ma fu un attimo. Si riprese. Aiutato dal fratello, portò a casa, con un carretto i suoi otto morti. I tedeschi se n’erano andati. «Li sistemai tutti su un tavolo, nella sala». La moglie e i due figlioli, la mamma e i due fratelli minori, la cognata e la zia.

E mentre lui preparava la camera ardente, altri innocenti morivano sotto il fuoco dei fucili mitragliatori, nelle capanne bruciate, nelle esplosioni delle bombe a mano, in quella parte del Padule delimitata con teutonica esattezza.

 

Fin qui l’articolo.

 

175 morti: 62 le donne, 25 sotto i 14 anni. Le donne protagoniste di quei giorni, di quei mesi, e dovremo raccontarla la loro storia. Le donne in Padule. Erano loro in quell’estate del 1944 a difendere i bambini e i vecchi, a nascondere mariti e figli, i pochi rimasti, braccati come animali dai tedeschi.

Agivano spinte dal loro grande cuore, la voglia immensa di non chinare la testa, aggrappate alla forza della ragione, contro l’odio. Un minuto dopo l’altro, un’ora dopo l’altra, un giorno dopo l’altro, a far finta di non vederle, le armi, a far finta di non sentire le proposte oscene, a respingere mani vampire di soldati senza scrupoli. I conquistatori. E loro le conquistate. Le loro verità annientate dall’odio. Corpi in attesa del sacrificio. Martiri.

E i bambini. Quanti bambini. Maria Malucchi aveva 5 anni, Severina Tognozzi e Giampiero Arinci un anno. Antonio Mazzei, Roberto Natali e Graziella Giacomelli ne avevano due. Ce n’erano di pochi mesi.

Esempi.

E quanti vecchi. Ne ricordo una: Carmela Arinci, 93 anni, cieca, fatta saltare con una bomba a mano messale in una tasca del grembiule.

Quante “marginine” a Castelmartini, Querce, Massarella, Ponte Buggianese, Cintolese, Stabbia. Nomi incisi nella pietra, nel marmo, ma anche nei nostri cuori, per sempre. Li ritroviamo tutti nel monumento eretto l’anno scorso a Castelmartini.

E di fronte a questo orrore, i superstiti furono costretti a subire un altro affronto. Le condanne furono lievi. Un insulto al dolore di centinaia di famiglie: famiglie del luogo, ma anche di sfollati. Aveva cercato rifugio nel Padule gente di Grosseto, Livorno, Lucca, Massa Carrara, Nuoro, Palermo, Pisa, Verona, Empoli.

Il capitano di cavalleria Josef Strauch fece pochi anni di carcere. Il generale Peter Eduard Crasemann, invece, condannato a 12 anni, morì in carcere il 29 aprile 1950.

C’è di più. Il tenente Tillmann, uno degli ufficiali più tristemente noti tra quelli del 26° reparto esplorante di Strauch, non è mai stato processato. E, proprio in questi giorni, abbiamo saputo che è morto recentemente nel suo letto ad Amburgo. Di vecchiaia.

Kesselring, dopo la guerra, ebbe modo di parlare dell’eccidio del Padule di Fucecchio in questi termini: «Lo considero niente più di una chiacchiera da caserma».

Crudele. Ignobile. Ma la memoria non muore. E più passa il tempo, a me fa questo effetto, più mi sento vicino ai martiri del Padule di Fucecchio. Ricordo i loro nomi, e mi viene fatto di andare sempre più spesso nei sentieri che raccontano il loro martirio.

 

Riccardo Cardellicchio

 

 

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