In collaborazione con Beppe Costa e grazie all'ospitalità di Tellusfolio, propongo la pubblicazione “a puntate” delle poesie tratte da Scontraffatte chimere di Angelo Maria Ripellino, edito da Pellicanolibri nel 1987 e ora esaurito. Qui di seguito trovate la prefazione del volume curata da Giacinto Spagnoletti; in parti successive seguiranno le liriche. (Fabio Barcellandi)
PREFAZIONE
di Giacinto Spagnoletti
Angelo Maria Ripellino, una delle figure insostituibili del panorama letterario del secondo cinquantennio del secolo, si spense a Roma il 21 aprile 1978, a soli cinquantaquattro anni. Qualche mese prima di morire aveva pubblicato da Guanda l’ultimo suo libro di poesie, Autunnale barocco, qualche giorno dopo la fine Einaudi fece recapitare ad Ela, la scrittrice e traduttrice ceca che era stata la sposa e la compagna della sua vita, l’ultimo straordinario volume di critica: Saggi in forma di ballate, recante come sottotitolo «Divagazioni su temi di letteratura russa, ceca e polacca». In due brevi paginette anonime il lettore veniva informato che l’autore in questo volume aveva raccolto i saggi «che in anni recenti erano stati al centro della sua attività critica». E ne allineava i nomi: da Cechov a Rozanov, da Chlébnikov a Pasternak, da Schulz ai cechi Halas e Kolàf. «Sullo sfondo, onnipresente punto di riferimento, la grande figura di Majakovskij e le ardite sperimentazioni dei cubo-futuristi».
Naturalmente, passando le settimane e i mesi, e togliendo dai suoi cassetti quanto di prezioso ancora contenevano, dovevano emergere altre poesie, nuovi saggi che presto vedranno la luce, a cura di solerti slavisti. Sarà un ricco corredo, quello dei versi e quello delle prose, che si aggiungerà ad una produzione tra le più profonde e incantevoli del nostro tempo. Slavista, dunque e poeta. Ma Ripellino sapeva che in un paese come il nostro, dove la passione erudita si sposa raramente alla libertà creativa, l’esser relegato fra gli «slavisti» poteva significare pressoché un insulto. La seconda poesia della raccolta Sinfonietta (1972) lo ricorda in modo risentito: «È deciso. La prossima volta farò un altro mestiere».
È semplice dire perché lo slavista Ripellino – il maggiore certo di lingua italiana - abbia tante benemerenze. Ha presentato per primo nel nostro paese le poesie di Pasternak (1957), la prosa di Andrei Belvi (1961) e ha contemporaneamente fatto conoscere la poesia ceca contemporanea e la poesia russa del Novecento; ha dedicato la sua attenzione a Majakovskij, al teatro russo d’avanguardia (1959) e ai nuovi poeti sovietici (1961), concludendo nel ‘65 con Il trucco e l’anima una delle indagini più affascinanti sui maestri della regia nel teatro russo contemporaneo, e con Poesie di Chlébnikov nel ‘68 lo studio di uno splendido periodo della grande avanguardia storica russa. Ma il capolavoro doveva vedere la luce nel ‘73, con Praga magica, che ha legato per sempre il nome di Ripellino alla capitale boema, alla sua storia, alla sua arte, alla sua letteratura.
Come era possibile scrivere un libro di così sapiente, capillare conoscenza di quella cultura e insieme delineare un romanzo della «città d’oro», che a tratti – è stato detto – «assume cadenze patetiche di antica cronaca»? Questa fusione è stata raggiunta, mercé l’uso di uno stile dai mille risvolti personali che riverbera sul quadro della storia la stregonesca capacità di illusioni propria di un grande poeta. Naturalmente a Praga magica è stata riservata una sorte crudele: non poter circolare là dove avrebbe dovuto. In un’occasione recente, uno dei maggiori studiosi boemi della nostra poesia mi diceva che a Praga e altrove circolano dattiloscritti e fotocopie di questo libro, che le autorità governative, e pour cause, non hanno mai permesso fosse tradotto.
Era questo il destino di Angelo: restare a metà della vita offeso dal paese che aveva contribuito sostanzialmente a far conoscere, affidato alla memoria di altri poeti (clandestini), ricordato da pochi amici? La speranza con cui si chiudeva il libro non si è avverata. Aveva scritto: «Andrò a Praga, al cabaret Viola, a recitare i miei versi. Vi porterò i miei nipoti, i miei figli, le donne che ho amato, i miei amici, i miei genitori risorti, tutti i miei morti». Oltre l’ingiustizia, fatale in certe circostanze – finché il mondo sarà diviso ancora in blocchi – io credo possa essere chiamata in causa l’esemplare natura di uno scrittore, a suo modo unico, diviso fra stravolgimenti della fantasia e sussulti del cuore, in cerca sempre di un teatrino da cui far rimbalzare quelle che egli chiamava le sue «favole», il suo «bowling di parole», stralunato clown dei nostri tristi tempi privi di favole, di prodigi, di stregonerie. Ed è questa condizione che stanno a testimoniare le sue poesie, da Non un giorno ma adesso (1960) a La fortezza di Alvernia (1967), che ebbi la sorte di tenere a battesimo presso Rizzoli dopo un immotivato rifiuto di Einaudi, il suo editore privilegiato; da Notizie dal diluvio (1969) a Sinfonietta, da Lo splendido violino verde (1969) al ricordato Autunnale barocco.
In Ripellino poeta c'è la storia e l'antistoria. La prima dipende dal calore con cui egli aderisce agli avvenimenti di ieri e di oggi, evocando i fantasmi più vicini al suo cuore, e soprattutto il fantasma della libertà come ipotesi sovrana di vita, che ha bisogno della sua festa, del suo carnevale, soprattutto quando questi gli sono negati dai portatori di menzogne, alfieri di un parallelo regno dell’ordine ingrandito e deformato in nome di certi ideali. In una delle poesie della prima parte di questa raccolta (Molti leggono ancora «Mein Kampf») colpisce il riconoscimento del valore di quanti, come eroi «si schiantano/ sotto i loro tacchi di ghisa», e infine il ricordo disperato della dignità umana, che invano si tenterà di strappare nel Nuovo Diluvio capace di ogni promessa, e ogni inganno.
C’è poi, come si è accennato, il bisogno da parte di Ripellino di ridurre la storia a farsa, anzi ad evento misterioso, babelico, dove tutte le carte sono confuse e l’unica realtà che conta è il bisbiglio, o il gemito, ancora umano, di chi spegne nella «giocoleria da baraccone» ogni residua illusione di vita. Questa condizione minimale che per la città che il poeta ha più amato «scaturisce dall’amarezza per il tracollo della Montagna Bianca», si risolve in via privata in un balletto di allusioni, di nonsense, di bisticci semantici, una diavoleria che mette in moto un meccanismo di rifiuto del reale. Così i personaggi evocati assumono talvolta il loro ruolo perfetto non esistendo, in virtù di fonemi che si danno come risposta al generale camuffamento della comunicazione. «Spaurito come Kafka/ allegro come un giullare», non è solo per Ripellino un modo di definirsi, ma il sistema più pratico, di cui egli è estremamente consapevole, di evitare gli insulti, di schivare la porta dell’ospizio («molti pagliacci vi sono finiti»), attendendo soave momento in cui potrà vedere forse il suo Majakovskij suonare su una pianola, all’Hotel de Russie. Il momento vero, dunque, consiste nella sua sparizione come entità pubblica, nella volontà dichiarata di diventare oggetto:
Sono il tuo accendino
ti guardo con occhi azzurri,
e vorrei finire
tra le cose dimenticate...
Un altro sogno è quello, come dice una delle sue ultime poesie, di «correre da pagliaccio/ attraverso la bianca notte invernale». E ancora: «Viaggiare il mondo/ più allegri che in un cartello pubblicitario». Tutte le ipotesi e i sogni sono possibili, tranne quello di portare un nome con sé (e sappiamo da Sinfonietta che egli trae dalla sua fantasia varianti come Vanellino, Gobelino, Rivelino, Abellino). A monte di questo orrore di identificazione c’è un sentimento di colpa (come nella 54ª lirica di Sinfonietta. «E noi che non sapemmo vegliare nell’abbagliante/ Getsemani senza baluardi né spalti né valli») o la coscienza di aver perduto l’ora giusta, di non esser mai stato fedele ad un'autentica Passione: di aver esercitato un mestiere assurdo, il voyerismo verbale, invece di credere nella lingua di tutti. Così nell’autoritratto in veste clownesca «Danzava la vita come un cavallo ammaestrato» (Sinfonietta, 36) osserviamo la difficoltà di reggere ad un proposito, la stanchezza e la tristezza di chi ha lasciato la vita a metà, anzi «in bilico».
Le poesie qui raccolte, per la gran parte inedite – tranne la minima antologia di Autunnale barocco, che da vivo il poeta raccolse dalla mia voce – rappresentano l’eredità poetica di questo grande scrittore, del quale sarà ora giusto fornire la lettura senza ulteriore commento.
Vanno distinte le liriche più elaborate, scritte durante le soste del male implacabile che doveva riuscire vittorioso, da quelle lasciate in forma di appunti, da me riunite sotto il titolo di «Osservazioni», per essere – come il lettore vedrà – talvolta pure e semplici constatazioni di fatto. L’ultima sezione del volume che ho intitolato Retrospettiva, comprende, invece, poesie di datazione più remota, all’incirca agli inizi degli anni Sessanta, con qualche prova addirittura anteriore, non fosse che per il modello tra simbolista e cubofuturista da cui l’autore prende le mosse. Nell’insieme possono testimoniare tanto della coerenza stilistica di Ripellino, quanto delle sue matrici culturali che vanno ricercate nell’area della grande avanguardia primonovecentesca russa mitteleuropea. I nomi e i temi sono quelli che egli stesso ha fatto nella presentazione editoriale di Sinfonietta: «ombre jiddisch, immagini di Klee e di Magritte, motivi di Mahler e di Janáček, splendori barocchi, truculenze boeme».
Vale la pena, per ultimo, soffermarsi sul saggio autobiografico «Di me, delle mie sinfoniette», che l’autore scrisse su mia richiesta nel 1975, in vista di un'edizione del tutto rinnovata della mia Poesia italiana contemporanea, edita da Guanda, che – nonostante un lavoro di anni – non poté più essere presentata al pubblico per l’ostinata preclusione di Mondadori, inteso ad impedire che antologie di poeti italiani moderni escano sotto altre sigle editoriali. Avevo chiesto a tutti i poeti viventi, allora, un saggio di poetica, perché fosse data ai lettori ampia possibilità di confronto fra esperienze diverse, nel vario intrecciarsi delle tecniche espressive del nostro tempo. E Ripellino fu subito pronto ad affidarmi queste pagine che meglio di tutto quanto di lui si possa dire conducono al cuore della sua creazione.
La recita, o meglio l’esecuzione delle sue «sinfoniette», spesso indica nel «poeta» il destinatario dell’ebbra, palpitante, richiesta dello stesso Ripellino, «stralunato, bramoso di cantilene e di Kitsch, e così appassionato di metafisica, da sembrar filisteo, come un archivista di Hoffmann». Ma dietro questo autoritratto c’è, come il lettore noterà, il ritratto della nostra epoca che «ha fame di poesia» proprio perché chi si nutre di poesia «è sempre in dissidio con la società e coi giorni in cui vive». Chi s’appiglia alla poesia come ultima spiaggia vuol «difendere la sempre insidiata libertà dell’uomo».
Questo proposito aveva mantenuto per decenni impavido, nonostante i mali crescenti che dovevano distruggerlo, l’orfico cantore che per ogni amico resterà un ANGELO.
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