276.
La notizia è lì, in prima pagina, sotto all’altra che riguarda Roberto Rossellini. Due morti ben diverse. Lei è stata ammazzata in uno scontro a fuoco con la polizia. Lui è morto di malattia. Lei la si dipinge come una nappista irriducibile. Lui è il regista celebrato e da celebrare, osannato e da osannare. E’ l’autore di Roma, città aperta, Paisà, Francesco giullare di Dio, La presa del potere di Luigi XIV.
Arrivo a metà pomeriggio. Il custode mi dice che devo andare in fondo al corridoio e poi voltare a sinistra. “trova due poliziotti”.
I miei passi rimbombano nella solitudine. E’ un luogo incredibile. Ogni mattonella, ogni angolo sanno di disinfettante.
Li vedo, i due poliziotti.
Il più anziano mi chiede chi sono. Glielo dico, tirando fuori la carta d’identità. La prende l’altro poliziotto, più giovane, un po’ sgarbato. Guarda la foto, mi guarda. Fa il confronto. Lì, nella foto, sono più giovane, eccome se sono più giovane, ma si vede bene che sono io. Lì, al tempo della foto, ero pieno d’illusioni. Ero convinto che il mondo fosse in procinto di cambiare in meglio. Lo pensavo ogni giorno.
“venga”, dice il poliziotto anziano.
Spero una porta a vetri e ho un brivido.
C’è freddo, in quella stanza.
L’altro poliziotto raggiunge una cella frigorifero, controlla un cartellino e apre.
Sono turbato.
Il corpo viene fuori piano piano. E’ un corpo che conosco, che ho conosciuto bene. Non avrei mai pensato di vederlo così, all’obitorio.
“E’ stata colpita più volte”, dice il poliziotto anziano.
Le vedo, le ferite.
Povera Rebecca.
“E’ un parente?”, chiede il giovane.
“No. Un conoscente. Ha lavorato con me a lungo”.
“Sa se ha parenti?”
“No, non ne ha. Sennò non sarei qui. Era rimasta sola”.
“Ci pensa lei ai funerali?”
“Ci penso io”.
“Sapeva che era una terrorista?”
“L’ho scoperto leggendo i giornali”. E’ l’unica risposta possibile.
“Le dispiace firmare qui?”
Firmo.
Poco dopo arriva un uomo alto e magro. Si presenta. E’ un commissario di polizia. “Dopo che ha organizzato i funerali, vorrei parlarle”.
“Senz’altro”\
“Era un’aderente ai Nap. Lo sapeva?”
“No. Ho letto i giornali. Era un po’ che non la vedevo”.
“Perché è venuto?”
“Perché non le era rimasto nessuno. Deve aver lasciato scritto da qualche parte che ero io il riferimento. Non potevo lasciarla qui. Abbandonarla? Figuriamoci”.
Ai funerali, soltanto io dietro il carro, qualche fotografo e qualche operatore tv e molti poliziotti con cinepresa. A riprendere che?
Rito veloce nella chiesa deserta. All’omelia, il sacerdote – uno di mezza età – pronuncia due parole sulla pietà. Poi salgo in macchina e mi metto dietro il carro funebre.
Andiamo al paese di Rebecca. Ho trovato una tomba accanto a quella della figlia.
Tra le cose di Rebecca, consegnatemi dalla polizia, c’era un mazzo di chiavi. Non so cosa aprano. Che ne faccio?
Il paese è piccolo, su una collina.
La tumulazione avviene sotto nuvole minacciose.
Mi rivolgo al becchino. Gli chiedo se conosceva Rebecca.
“Come no. Una vita sfortunata”.
“Sa dirmi dove abitava?”
“In piazza, accanto al bar. La prima porta che trova”.
L’individuo con facilità. Non faccio fatica a trovare la chiave.
Un ingessino porta a una rampa di scale strette, che dànno su un pianerottolo. A destra, la camera. Al centro, un bagno. Sulla sinistra, la cucina. C’è un secondo piano, raggiungibile con un’altra rampa di scale, più piccola. A destra, uno studio ampio. A sinistra, una cameretta. Più su, la soffitta ben tenuta.
Odore di rinchiuso dappertutto.
Mi soffermo nello studio. E’ pieno di libri d’ogni genere. Sulla scrivania manifestini vecchi. E una busta gialla, chiusa. C’è il mio nome. L’apro. M’informa che dal notaio locale c’è un testamento, il suo, che m’indica erede unico del poco che ha, in pratica della casa. Che la tenga o ne faccia quel che voglio. Mi ringrazia. Mi ringrazia per le belle ore passate insieme. Avrebbe voluto darmi di più, ma la morte della figlia l’ha sprofondata in un’altra dimensione, l’ha incattivita, le ha fatto venire voglia di vendetta in qualsiasi modo. Anche il peggiore.
Metto la lettera in tasca.
Passo da una stanza all’altra, guardando disattento. Combattuto. Dovrò parlare con il commissario, che m’è parso sospettoso.
277.
Hanno sterilizzato la scala mobile. Sono riusciti a convincere anche il Pci. Che errore.
Gambizzano Vittorio Bruno, vicedirettore del Secolo XIX, quotidiano di Genova.
Il commissario è insinuante, cerca di farmi dire quel che non so. Possibile che non sapessi nulla? Possibile. E ricomincia. E io non cedo di un millimetro. Per alleggerire la pressione, gli allungo la lettera di Rebecca. La legge. Chiede se può tenerla. Che ne faccia una copia, rispondo. Non hanno la fotocopiatrice. O meglio, l’hanno ma non funziona. La faccia ricopiare e io ci metto sotto la firma, dico, per autenticarla.
Facciamo così, dice. E chiama un agente, che c’impiega una vita a ricopiarla a macchina.
“Che ne farà della casa?”, chiede.
“Forse la donerò al Comune, affinché la metta a disposizione di chi ne ha bisogno”.
“Ha toccato niente?”
“Il meno possibile”.
“Andremo a dare un’occhiata. Per scrupolo. Poi gli ridaremo la chiave.
278.
Torino è invivibile. Barbara me lo dice dalla Cna. Il direttore le telefona quasi tutti i giorni, per metterla al corrente. Le ha telefonato anche Carlo Casalegno, il vicedirettore, una persona ammodo, un signor giornalista, con il pelo sullo stomaco. Un partigiano nelle formazioni di Giustizia e Libertà.
Torino sembra prigioniera delle Brigate Rosse.
Non solo Torino, mi dico, di fronte ad altri morti.
Ma non agiscono soltanto le Brigate Rosse. Ci sono altre sigle. Nap. Azione rivoluzionaria. Unità combattenti comuniste.
E a destra il quadro non è meno variegato e inquietante.
Scrivo, la notte. Ho abbandonato il ciclostile. Continuo a scrivere raccontini. Mi sforzo in storie di solitudine. L’uomo solo in momenti decisivi. Le sue reazioni.
Oggi ci si sente sempre più soli. Si tende a stare rintanati nel guscio. Fuori c’è l’insicurezza. C’è l’insidia. C’è l’odio. Non è più possibile il dialogo. Il sospetto è ovunque.
Che fa La Pira? E’ una voce flebile, ormai. Mi dicono che la sua salute è peggiorata.
Firenze è il mio fardello, la mia ferita.
E’ l’ora dei giornalisti. Le Br li gambizzano. A Milano, Indro Montanelli, direttore del Giornale. A Roma, Emilio Rossi, direttore del TG1
279.
Antonio Muscio, capo dei Nap, è stato ammazzato a Roma dai carabinieri. Nel conflitto a fuoco sono rimaste ferite le nappiste Maria Pia Pianale e Franca Salerno.
Sempre a Roma, ammazzano Mauro Amati, ventuno anni appena compiuti. E’ a cena con amici, in un ristorante. Sembra che ci sia uno scambio di persona. Sembra che l’obiettivo fosse Domenico Velluto, agente di custodia, accusato d’avere ammazzato Mario Salvi durante una manifestazione di autonomi.
Lo stesso giorno, Bigo, alias Francesco Berardi, è arrestato a Parigi.
Un arresto che suscita un vespaio. Si mobilitano Sartre, Barthes, Delenze, Foucaul, Guattari. Ci ha pensato Maria Antonietta Macciocchi, ex deputata del Pci, a mobilitarli. Denunciano la repressione che si sta abbattendo sui militanti operai e sui dissidenti in lotta contro il compromesso storico. Accusano il Pci d’essere la nuova polizia.
Leonardo Sciascia, l’autore del Giorno della civetta, si schiera con loro. Sulla Stampa scrive che in Italia non esiste uno stato di diritto.
Barbara mi telefona dalla Cina. Mi chiede se è vero che il suo giornale ha pubblicato una porcheria del genere.
“Non te l’hanno detto, i tuoi?”
“Stento a crederci”.
“Credici. Non è che un tassello”.
“Che vuoi dire?”
“Voglio dire che l’Italia mi fa pena. E’ a pezzi. Si becca botte incredibili da tutte le parti”.
“Pensi che vada a finire male?”
“Di questo passo, chi la salva?”
“La destra va al potere?”
“No, non penso si arrivi a tanto”.
“Allora?”
“Possiamo fare passi indietro. Possiamo tornare agli anni di Scelba. Possiamo dimenticare tante conquiste”.
“E i comunisti?”
“Si stanno fottendo con il compromesso storico. I democristiani li stanno imbrigliando. Contribuiscono – senza apparire – alla loro lacerazione”.
“Colpa di Berlinguer?”
“Non è il Pci di Togliatti. Nel bene e nel male. E’ un’altra cosa”.
280.
Sono in ferie in Versilia. Ci sono da solo. Ormai è una costante.
Dagli Stati Uniti arriva la notizia della morte di Elvis Presley, il re del rock.
Leggo svogliatamente il giornale. Leggo di un’altra crepa. Herber Kappler, tenente colonnello delle SS, responsabile dei trecentotrentacinque morti ammazzati alle Fosse Ardeatine, ricoverato nell’ospedale militare del Celio, a Roma, uno che dovrebbe essere guardato a vista, è riuscito a squagliarsela. Non mi si dica che non ha avuto complici. Come si fa a non essere indignati?
Il ministero della difesa Vito Lattanzio finisce nel mirino di comunisti e repubblicani. Lo accusano di ignavia. Lui si difende accusando i carabinieri.
Lascio la Versilia a malincuore. Alla Versilia mi legano ricordi. Eppoi ci sto bene.
Faccio un salto a Firenze. La Pira sta male. Ormai ne parlano tutti apertamente. Vorrei vederlo. Non è possibile.
Sosto a lungo in piazza della Signoria. Mi chiedo dov’è finito il Claudio che l’attraversava, diretto in Palazzo Vecchio, per avere notizie di prima mano.
La parola pace era la più pronunciata, seguita da dialogo. Oggi c’è chi si riempie la bocca di parole come espropriazione e spesa proletaria.
Ieri si guardava a gente come La Pira, oggi a chi si guarda?
Ieri si diceva che La Pira era fuori di testa, oggi si dice che Berlinguer è un matto, perché sta provocando fratture nel Pci, che gli fa perdere il rapporto con le masse.
Qualcuno mi chiama. Mi volto. E’ un collega. Eravamo insieme al Nuovo Corriere.
“Che sorpresa”.
“Che ci fai qui?”
“Visita sull’onda dei ricordi”.
“Mamma mia. Quando mi lascio andare ai ricordi, mi si spacca il cuore”.
Sorridiamo.
“Ti va un caffè?”
“Certo”
Raggiungiamo un bar, lì vicino.
Parliamo di tutto e di più. Poi finiamo sul Pci. Lui s’è allontanato. Non gli va la strada che ha preso Berlinguer. “Si sta illudendo – dice – Pensa di forzare la Dc, d’indurla a rinnovarsi, di più: a cambiare, a modificare metodi e politica. E te da che parti stai?”.
“Nel limbo”, rispondo sconsolato.
281.
Rumor ancora. Questa volta l’accusa è di reticenza. Al processo di Catanzaro sulla strage di piazza Fontana ha risposto alle domande con troppi non ricordo.
Ma quanto marcio c’è in questa storia? Una montagna di contraddizioni. Le mettono insieme anche le deposizioni di Andreotti, Tanassi, Mario Zagari e Vito Miceli.
Chi non dice la verità? Il procuratore generale Giuseppe Chiliberti vuole vederci chiaro. Nel mirino, soprattutto, Rumor, Tanassi e tutti i dirigenti del Sid.
282.
Nino Ferrero, redattore dell’Unità, a Torino, rientra a casa tranquillo. Gli si parano davanti elementi di Azione rivoluzionaria. Lui non si rende conto. Uno gli spara alle gambe.
Perché?
La notizia si mischia al caso Kappler.
Si sostiene che Kappler è fuggito con il benestare di tutti. I carabinieri accusati, e puniti, continuano a difendersi sostenendo che Kappler non era un detenuto, ma un ospite di lusso.
Ospite di lusso un criminale del genere.
283.
Barbato mi chiama. “C’è un convegno importante a Bologna”.
Lo so. Vogliono mettere sotto processo il Pci e vogliono farlo nella città più rossa d’Italia. Vogliono andare nella tana del lupo.
“Il convegno è sulla repressione”, precisa Barbato. “Vai a dare un’occhiata”, aggiunge.
Un convegno con un fiume di gente, giovani che scandiscono numerosi slogan. Siamo tanti siamo belli, siamo tutti untorelli. Creare e organizzare contropotere. Brigate Rosse e brigate di quartiere.
Al Palazzotto dello sport, parlano gli autonomi. Gli altri non ci riescono. Gli autonomi parlano. E straparlano. E diffondono giornali come Rosso, Senza Tregua, Quaderni Rossi, Classe Operaia. Il Quotidiano dei Lavoratori va per la maggiore. Qualcuno sbandiera Il dominio e il sabotaggio di Toni Negri.
Ascolto tante parole, tante espressioni che annoto, e mi sembrano sopra le righe. Propaganda armata. Attacco contro il cuore dello stato. Strategia dell’annientamento. Partito comunista combattente. Antagonismo guerresco. Antagonismo guerrigliero. Antagonismo terroristico.
C’è tanta gente per la strada, nelle piazze. Si parla. S’urla. C’è chi vuole intavolare un dialogo. Ma le parole dividono. Più se ne pronuncia, più aumentano le divisioni.
“In quanti sono, secondo te?”, chiede un collega che si muove come se volesse sapere tutto.
Gli riferisco quanto va dicendo la polizia: venticinquemila.
Il Quotidiano dei Lavoratori parla di settantacinquemila untorelli arrivati per sviluppare un’opposizione di classe al sistema.
Due giorni. Consuntivo? Confusione. Pericolosa.
Lo dico a Barbato, che conviene.
Aggiungo: “Quel che mi riesce difficile digerire è che ce l’hanno più con il Pci che con la Dc e i fascisti”.
“Gli rimproverano d’averli abbandonati”.
“Esagerano”.
284.
Le mie notti sono sempre più inquiete.
La mattina esco di casa chiedendomi: oggi a chi tocca?
Faccio fatica. Faccio fatica in tutto. Anche a scrivere. Mi pesano le parole. Mi pesano perché non hanno più il significato originario.
Cade Walter Rossi, aderente a Lotta Continua.
La sua morte dà il via a manifestazioni antifasciste in numerose città.
A Torino, mille studenti, forse più che meno, vanno all’università. In trenta entrano di prepotenza nel bar Angelo Azzurro, frequentato dall’estrema destra. Si fanno largo a suon di molotov. Roberto Crescenzio, ventidue anni, studente lavoratore, rimane intrappolato nel gabinetto. Lo portano all’ospedale, ma non c’è più nulla da fare.
Cambio della guardia al Corrierone. Se ne va Piero Ottone, il grande nemico di Montanelli. Al suo posto arriva Franco Di Bella, chiacchierato. Dicono che sia massone. Che è arrivato lì perché massone.
295.
Arriva Barbara. E’ più magra. Ha i capelli bianchi. Non poche rughe.
Arriva il giorno che viene annunciata la riforma dei servizi segreti. Nascono il servizio per le informazioni e la sicurezza militare (Sismi), e il servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (Sisde).
“Andiamo via da Roma. Andiamo al tuo paese”, dice Barbara.
“Non posso. Non posso muovermi”.
“Neanche due giorni?”.
“Neanche uno”.
Mi lascia imbronciata. Mi telefona dalla stazione. Sta partendo per Torino.
“Avremmo potuto…”.
“No. Meglio così”, dice.
Poi arriva la notizia: è morto La Pira. Decido di partire per Firenze. Non posso non partire.
296.
Un brivido mi scuote da capo a piedi.
Sono fradicio.
Devo andare.
Ma dove vado?
Devo tornare a Roma.
C’è bisogno di me a Roma?
Esco dal cimitero di Rifredi. Cerco un taxi. Lo trovo.
“Dove?”
“Alla stazione… No, aspetti”.
Gli dò l’indirizzo. E’ una follia. Mi rendo conto che è una follia.
Suono. Suono più volte. Mi vede una vicina, che non ho mai visto prima. E’ vecchia e curiosa.
“Chi cerca?”
“La signora Lucia”.
“La signorina Lucia? Ma non sta più qui da un anno”.
“Chi ci sta?”
“Nessuno”.
“Nessuno? E’ sempre suo l’appartamento?”
“Non lo so”.
“Sa dove abita ora?”
“No. So che s’è sposata”.
“Sposata?”
“L’ho sentito dire. Non mi ha mai detto niente”.
Che pretendevo?
Scendo le scale, sacco vuoto, lentamente.
Non mi rimane che raggiungere la stazione.
Piove.
Non cerco riparo.
Non cerco un taxi.
Non vado alla stazione.
Raggiungo piazza Indipendenza a piedi.
Entro nella clinica.
“Vorrei parlare con la signora Lucia”.
La ragazza dietro il bancone guada se è in servizio.
“C’è. La chiamo”.
Dico di sì, il cuore in gola.
Mi metto da una parte. Sono stato lì altre volte. Quante volte? Ma era un’altra storia.
Ora sono di fronte a una verità che mi fa male.
Arriva. Mi vede. Ristà un secondo.
Vado verso di lei.
E’ seria.
“Ciao”, dice.
“Ciao”, dico.
“Sei venuto per La Pira?”
“Sì”.
“Quell’uomo è stato importante per te”.
“Non solo per me”. La fisso. “Volevo vederti”.
“Ti ringrazio”.
“So che ti sei sposata”.
Lei abbassa lo sguardo. “Sì”, sussurra.
“Da quanto?”
“Dopo la telefonata”
“Una bella telefonata”.
“Ho detto tutto quello che avevo dentro, che ho tenuto dentro anni, gli errori che ho commesso. M’aspettavo una reazione da parte tua. Non c’è stata”.
“M’hai detto, ricordo, è troppo tardi”.
“Volevo la tua reazione. Sapevo che avevi un ‘altra donna. Volevo l’impossibile: che lasciassi tutto e venissi da me”.
“M’hai detto t’amo”.
“Sì”.
“Eppoi ti sei sposata”.
“Per disperazione. Per rabbia. Per farmi male”. Poi: “Devo tornare al lavoro”. Ha gli occhi lucidi.
“Sì, hai ragione. Spero tu stia bene”.
“Ipocrita. Ipocrita”.
Si volta e, correndo, raggiunge il reparto.
297.
“Bravo, bisogna dirlo”. Il redattore capo scorre alcuni lanci Ansa. Arrivano da Mosca. Enrico Berlinguer è intervenuto al sessantesimo anniversario della rivoluzione d’ottobre. Ha difeso – nel suo intervento – l’autonomia del Pci. “La democrazia – ha detto – è oggi non soltanto il terreno su cui l’avversario di classe è costretto a retrocedere, ma è anche il valore storicamente universale su cui fondare un’originale società socialista”.
“Il Pci – ha aggiunto – intende realizzare una società nuova, socialista, che garantisca tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose, il carattere non ideologico dello stato, la possibilità dell’esistenza di diversi partiti, il pluralismo della vita sociale, culturale e ideale”.
Non gli hanno detto bravo, i dirigenti sovietici. In Italia, La Malfa dichiara ai giornalisti che il discorso di Berlinguer è una svolta politica nettissima. Il Pci può entrare nel governo.
298.
Barbara è sempre a Torino. E’ agitata. “Hanno lanciato una molotov contro il giornale. Ci sono minacce. Ci dicono di stare attenti a come e cosa si scrive. Hanno intenzione d’alzare il tiro. Il direttore Arrigo Levi è imbufalito. Ha scritto un editoriale pieno di denunce. E chiama in causa Lotta Continua. Sostiene che fiancheggia le Br. L’articolo non è stato preso bene da alcuni colleghi. Questi colleghi hanno preparato un documento che censura il direttore. In pratica, anche il vice Casalegno. Da tempo lui sostiene che ci sono complicità. Se non ci fossero, il partito armato non potrebbe agire come agisce. M’hanno fatto leggere il documento chiedendomi di firmarlo. Lo sai come la penso. Lo sai che sono un po’ anarchica, ma non mi sento di mettermi contro Levi e Casalegno. Mi sono consultata anche con Riccardo Chiaberge, che è collega che stimo. Lui firma. Anche se non mi sembra molto convinto. Certo, c’è gente, tra i colleghi, che mi sembrano sopra le righe. Quasi simpatizzano con il partito armato. Non so se per essere contro la direzione, si possa arrivare fino a questo punto. C’è un clima, a Torino, che non mi piace. A dire il vero, non mi piace nulla dell’Italia di questi tempi. Non so, non riesco a capire. Mi sembra che tutti stiano andando oltre”.
299.
Barbara mi ritelefona. E’ ancora a Torino. Urla. “Gli hanno sparato. Gli hanno sparato”. Si riferisce a Carlo Casalegno. L’hanno bloccato sul portone di casa.
Per le Brigate Rosse era un servitore dello stato.
Ha avuto il coraggio di criticarle.
Lo ricoverano in gravi condizioni. S’adoperano, i medici. Giorni d’agonia. Poi la morte. E’ il 29 novembre.
Se n’è andato un galantuomo.
Io non amo questo stato. Però non è con la lotta armata che si cambia.
La lotta armata ottiene l’effetto contrario. Fa arroccare. Fa arroccare la Dc, spiazza i sindacati, i partiti della sinistra.
Barbara urla. Ce l’ha con i colleghi che hanno presentato il documento di sfiducia nei confronti della direzione
Violenza chiama violenza.
Carmine De Rosa.
Stefano Dionisi.
Gianfranco Spighi.
Riccardo Palma.
Francesco Ciovatta.
Franco Brigonzetti.
Franco Battagliarini.
Stefano Recchioni.
E’ l’elenco degli ultimi morti. Morti inutili di una guerra senza speranza.
Andreotti si dimette. Ma tre giorni dopo è di nuovo a cavallo per il suo quarto governo. Aldo Moro se n’esce con una proposta, che i parlamentari dc accolgono favorevolmente: costituiamo una maggioranza programmatica e non politica comprendente anche il Pci. E’ la risposta alle Br.
Non la prendono bene gli Stati Uniti. “I leader democratici devono dimostrare fermezza nel resistere alla tentazione si trovare soluzioni tra le forze non democratiche.
A Roma, si fa orecchi da mercante. Dc, Pci, Psi, Psdi e Pri si trovano d’accordo su programma e composizione di governo. La conclusione è un monocolore Dc sostenuto da Pci, Psi, Psdi e Pri. Presidente del consiglio Giulio Andreotti.
300.
Ho problemi. Ho problemi di salute.
Sono aumentate le extrasistoli.
I medici sostengono che sono sotto stress. Che devo staccare per un po’.
Mi ribello. Se m’impedite di lavorare, se mi costringete a stare a casa, voi non sapete che danno mi fate. Sono solo. Volete capire che sono solo, che la mia casa è maledettamente vuota, che torno a casa e non trovo nessuno, che la donna, la donna che ho portato dentro di me sempre, s’è sposata, che non so dove battere la testa, che questa società è uno schifo, fatta di morti ammazzati, di falsi rivoluzionari, di poteri occulti, che non ho àncore di salvezza? Sono alla deriva. Il mio passato è un macigno nella solitudine d’ogni giorno.
301.
“Claudio, - dice il redattore capo – cerca i comunisti. Berlinguer sarebbe il massimo”.
“Che c’è?”
“M’arrivano voci strane”.
Berlinguer non si nega. Non gli va giù quel che ha combinato Andreotti. “La struttura del governo – dice categorico – non ci piace. Non siamo sicuri di votarlo, questo governo”.
La notizia meyte in agitazione Moro. Ha lavorato sodo per togliere il Pci dall’opposizione. Va dicendo che Andreotti ha giocato sporco. Andreotti non è l’uomo giusto per portare avanti un’operazione così importante. E’ uno che rema contro i comunisti, ha sempre remato contro i comunisti, fa parte di quel potere che teme i comunisti, che non gliene importa un fico secco della posizione assunta da Berlinguer anche a Mosca. Andreotti sta con gli americani. C’è chi lo chiama l’amerikano.
Si muove Moro cercando di rimettere ordine.
”Che ne pensi?”, mi chiede il redattore capo.
“Non si mette bene”.
A Torino, è iniziato il processo alle Brigate Rosse. Alla sbarra Renato Curcio, Pietro Bassi, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari, Giorgio Seteria, Roberto Ognibene, Mario Moretti, Marco Pisetta, Nadia Mantovani.
Il redattore capo mi consiglia di non mollare Moro.
Non lo mollo. So che è in affanno. Andreotti si sta mettendo di traverso. Non si rende conto. Non si rende conto cosa vorrebbe dire ricacciare i comunisti all’opposizione. Con le Br che incalzano. Con il malumore che serpeggia nel mondo del lavoro, alle prese con la crisi economica, costretto a sacrifici.
302.
Barbara è tornata in Cina.
Mi telefona Alina. E’ morta anche sua madre.
Le faccio le condoglianze. Anche questa volta non posso muovermi.
“Sono rimasta sola”, dice. “E’ terribile. Non voglio pensarci”.
Moro sembra più triste. Mi raccontano che si sta muovendo come una ruspa. Non vuole che tutto il suo lavoro finisca a carte quarantotto. Per la cecità di alcuni.
Il redattore capo scuote la testa. “Non caoisce che c’è gente più forte di lui”.
“Gente – aggiungo – che agisce nell’ombra. E’ una vecchia storia. Succedeva così anche a Firenze, al tempo di La Pira. Certi personaggi, certe idee spaventano. C’è chi fa o vorrebbe fare il gattopardo”.
303.
La notizia m’arriva dalla tv accesa nel bar che frequento prima d’andare al giornale. Come al solito sono entrato per un caffè. Lo prendo e scambio due parole con il proprietario e sua figlia – due persone simpatiche, originarie di Sinalunga.
La notizia è di quelle che ti prendono allo stomaco e al cuore. Le Brigate Rosse hanno rapito Moro dopo aver massacrato la sua scorta.
E’ il 16 marzo. Siamo agli sgoccioli dell’inverno. La giornata è mite.
I commenti sono sussurrati. Non si vogliono perdere le parole dell’annunciatore e dei cronisti.
Fra poco spetterà anche a me.
M’affretto.
C’è gran fermento in redazione. Si parla a voce alta in maniera concitata.
M’assumo l’incarico di mettere ordine nei lanci Ansa. L’Italia si mobilita. Cgil, Cisl e Uil indicono uno sciopero generale a difesa della democrazia repubblicana.
Non c’è località che non organizzi una manifestazione. Non ci sono divisioni.
Le Br hanno puntato in alto. Troppo. Mi chiedono se abbiano valutato fino in fondo le conseguenze d’un gesto simile.
“Vogliono costringere lo stato a trattare con loro”, dice il redattore capo.
“Voglio il riconoscimento politico”, dice un altro.
“Ora vediamo se abbiamo un governo con gli attributi”.
“Secondo te, cosa dovrebbe fare?”
“Non cedere, qualsiasi cosa vogliano”.
“Sotterri Moro”.
“O Moro o lo stato. Io dico meglio Moro”.
Altri sostengono che si può trattare senza perdere la faccia. Sono della stessa opinione.
Fermezza e trattativa. Due partiti. Le posizioni della redazione sono le stesse che emergono a livello politico.
“Il patteggiamento di fronte al ricatto delle Br significa il loro riconoscimento politico, una resa dello stato di fronte al terrorismo”.
“Primo dovere dello stato è di salvare la vita di Aldo Moro”.
Tocca a me recuperare un documento delle Br, lasciato in una cabina telefonica.
Devo leggere un paio di volte quelle frasi chilometriche, contorte, zeppe di aggettivi, luoghi comuni, slogan ridondanti.
Un comunicato che rimanda, poi, a un altro, dov’è una richiesta precisa: la libertà di Moro in cambio della liberazione di tredici brigatisti, da qualche tempo in carcere con l’accusa di terrorismo.
Parlo con socialisti e democristiani. I primi non hanno dubbi. Esistono spazi per trattare. Anche Moro, nelle sue lettere che i brigatisti provvedono a spedire a destra e a manca, sostiene che ce ne sono. Fanfani è dello stesso avviso. Ma gli altri? Che ne pensa Andreotti? Si sostiene che non abbia alcuna intenzione di cedere. Non si schioderebbe dal no iniziale.
Mi sembra di vivere con la febbre addosso, ogni giorno.
Una strada, anche se piccola e stretta – sostengono il Psi e Fanfani – potrebbe essere il riesame delle carceri speciali e la scarcerazione di un brigatista malato da tempo. “ Non è il riconoscimento delle Br, però può consentire la liberazione di Moro”
Voci nel deserto.
Cerco di riprendere fiato infilandomi in un cinema. Ecce bombo di Nanni Moretti. E’ un giovane – è nato nel 1953 – che sa il fatto suo, m’hanno detto. Un tipo geniale. Francamente, mi lascia indifferente. Trovo entusiasmante, invece, L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi.
Paolo VI si rivolge alle Brigate Rosse: “Uomini delle Brigate Rosse liberate Aldo Moro. Semplicemente, senza condizioni”. Anche il segretario dell’Onu, Kurt Waldheim, chiede la liberazione dell’uomo politico democristiano. Lo fa in modo tale che il partito della fermezza protesta. Le sue parole sono parse favorevoli alla trattativa.
Le Br non si limitano a tenere l’Italia con il fiato sospeso. Fanno altre azioni. A Torino, ammazzano Lorenzo Cutugno, agente di custodia. A Milano, Francesco De Castaldo, maresciallo degli agenti di custodia di San Vittore.
Altre morti inutili.
304.
Barbara mi telefona da Pechino. Mi venisse mai la voglia d’alzare il telefono per primo. Non ci penso. Non ci ho mai pensato.
Dice: “Hanno ferito Giovanni Picco, l’ex sindaco democristiano di Torino”.
“Sono giorni terribili”, dico.
“Dove vogliono arrivare?”
“Per me, sono atti dettati dalla disperazione”.
“O non piuttosto prove di forza?”
“Dettate dalla disperazione. Si sono resi conto che od ottengono il riconoscimento politico o possono chiudere bottega. Non possono continuare sulla strada dell’eliminazione dei nemici del popolo, degli imperialisti, dei servi dello stato. Sono morti che li mettono ancor più in cattiva luce agli occhi di chi vorrebbero, invece, conquistare. Gli operai”.
“E’ una lotta insensata. Ma vorrei capire. Vorrei capire se agiscono da soli, o se dietro ci sono menti, geni del male, uno o più d’un vecchio. Burattinai,. E questi qui sono allocchi. Gente che è in trappola e non se ne rende conto”.
“Non riesco a togliermi dalla testa che siano strumentalizzati. Leggo i documenti. E’ il linguaggio di chi s’è riempito la testa di libri fasulli, e li scimmiotta. Un misto di politica, filosofia, economia. Paroloni, aggettivi buttati giù senza riflessione, senza la preoccupazione di farsi capire dalla classe operaia, che vorrebbero dalla loro parte. Ma quando non ti fai capire, sei fottuto in partenza”.
“Ho l’impressione che tu soffra questa situazione”.
“Anche fisicamente. Sai che mi succede? Sempre più spesso cerco d’immaginare la posizione di La Pira in questa situazione”.
“Vai sicuro: sarebbe per la trattativa”.
“Sì, penso di sì. E si sarebbe mosso. Non so come, ma si sarebbe mosso, insieme con l’amico Fanfani. Che ora sta con Craxi”.
“Vogliono trattare a ogni costo?”
“Non demordono”.
“Sono gli unici”.
“ Sì, sono gli unici”.
“Neanche il Pci si muove”.
“Non sono propenso a giurarlo. Ufficialmente, è per la fermezza, ma non escludo che – sotto sotto – stia trattando”.
“Facciamo le ferie insieme, quest’anno?”
“Sei proprio convinta che valga la pena vivere accanto a me?”
305.
Le Brigate Rosse stanno processando Aldo Moro, “il gerarca più autorevole, il teorico, lo stratega indiscusso della controrivoluzione imperialista, di cui la Dc è stata artefice”.
Non sono contro la Dc, questi. Per me, è tutto fasullo. Questi sono contro il Pci. Questi non vogliono il Pci al governo. Fanno di tutto per tenerlo lontano dal governo.
Chi c’è dietro di loro? Quelle non sono brigate rosse. S’illudono d’esserlo.
“Di questo passo, non so dove si va a finire”, dice il redattore capo. E’ una delle sue giornate no. La sera prima ci ha lasciati dicendo: “Ci sono troppi misteri in questa storia”.
Un collega entra in redazione con un altro – l’ennesimo – volantino delle Br. E’ autentico, dice.
Afferma, il volantino, che il processo a Moro è terminato e che viene eseguita la sentenza. Aldo Moro – conclude – è stato condannato.
Sono parole pesanti.
Ci mettiamo in movimento. Che fanno? Che fanno Craxi e Fanfani? Non nascondono che si stanno muovendo. E gli altri? Non si spostano di un millimetro. Andreotti è sempre più sfinge. Attendono l’irreparabile?
Dal 16 marzo sono passati cinquanta giorni. Cinquanta giorni terribili.
Non abbiamo pensato ad altro.
Io non ho pensato ad altro.
Mi sono sentito sempre più piccino. Insignificante.
E vecchio. Ho passato in solitudine il mio cinquantatreesimo compleanno. Non l’ho ricordato a nessuno. Non è un’età da festeggiare.
Il redattore capo risponde al telefono.
“Dicono che l’hanno trovato”.
“Vivo?”
“No. Non lo so. C’è un comunicato delle Br che invita ad andare a cercarlo al Lago della Duchessa, in Abruzzo”.
“L’hanno ammazzato”.
“E’ in atto una grande mobilitazione delle forze dell’ordine. Vai anche tu, Claudio. Prenditi Luigi. Mi raccomando, un bel servizio. Riprendete tutto”
306.
Ci tengono lontani. Luigi non è uno che si dà per vinto. Era preparato al diniego.
Il Lago della Duchessa brulica di poliziotti. Non saltano un centimetro.
I sommozzatori fanno il resto sott’acqua.
Più passa il tempo, più si ha la sensazione che si sia trattato d’una bufala.
“Non riesco a capire”, dice Luigi. Poi: “C’è un comunicato delle Br. Tutto si può dire di loro, tranne che facciano scherzi”.
Mi metto in comunicazione con la redazione quando m’accorgo che i poliziotti stanno lasciando il lago.
Il redattore capo mi dice di rientrare. Le Br hanno fatto sapere che quel comunicato non è farina del loro sacco.
Chi ha giocato sporco? Chi gioca sporco?
307.
E’ il 9 maggio. Ore 13.50. Via Caetani.
La notizia sconquassa. Paralizza l’Italia.
Cerco di farmi largo tra i curiosi.
Il corpo di Aldo Moro è nel bagagliaio di una Renault rossa.
L’Italia è un pianto. Lungo. Forte. Quanti sono sinceri?
Quali parole posso usare per un fatto del genere?
Non ho mai amato Moro. Probabilmente sono stato ingiusto, tradito dal suo linguaggio.
E’ morto il politico della strategia dell’attenzione nei confronti del Pci. Secondo me, è stato condannato il giorno in cui ha cominciato a parlarne.
Ha ragione il redattore capo: troppi misteri in questa storia.
Ogni giorno se ne aggiunge uno. Perché non è stato perquisito il covo di via Gradoli, base logistica (non la sola) delle Br, se è vero che la polizia l’avrebbe individuato quasi subito? E la storia del Lago della Duchessa, chi l’ha impancata e perché? E i servizi segreti? Possibile che i servizi segreti non si siano accorti di nulla, che nulla abbiano visto?
“Non lo sai? – dice il redattore capo – E’ gente legata alla massoneria. Massoni sono. Gente contro il Pci, contro il suo ingresso nel governo”.
“Cosa vuoi dire?”
“Non voglio dire niente. Constato”.
“Contro il Pci e contro Moro. Due più due fa quattro.
“Oggi, non so se veramente fa quattro”.
L’addio a Moro, in San Giovanni in Laterano, è imponente. Celebra il rito il papa. Ci sono tutti – le massime autorità dello stato, i segretari dei partiti, i parlamentari. Ci sono quelli del partito della trattativa e quelli del partito della fermezza.
Fermezza respinta dalla famiglia. Non l’ha digerita e, per protesta, non partecipa. Se ne sta a casa.
“Il nostro familiare chiedeva la trattativa nelle numerose lettere scritte. Lettere che non si sono volute prendere in considerazione. In nome dello stato, della sua credibilità”.
Non aggiungono altro. Accusa terribile. Lo avete ammazzato.
Lo stato è salvo.
Ma che stato è?
Dove sono i comunisti?
La sera crollo. Sono sfinito. Non ho altro in mente, ora: ferie.
E in ferie apprendo che Leone ha deciso di dimettersi. Non l’hanno mai mollato dallo scandalo Lockheed. Assurdo. Sì, per me è assurdo. L’hanno messo in croce per salvare chissà quanti barabba.
Nessuno che abbia il coraggio di dirlo. Stravedono per Camilla Cederna, per il suo libro pieno d’accuse non documentate. Ma lei è la Cederna, la signorina snob, quella che si può permettere tutto, che anima i salotti milanesi, che fa tanto radical chic. Vanno matti per Pannella, teatrante stucchevole.
Hanno chiesto le dimissioni i radicali e i repubblicani. S’è accodato il Pci. La Dc non s’è opposta.
Andreotti continua a fare la sfinge.
Possibile che abbia un potere così grande?
Dove trova l’appoggio necessario?
Mi metto davanti alla tv. L’Italia gioca contro il Brasile nel campionato del mondo di calcio in Argentina. E’ in palio il terzo posto. Che sarebbe dignitoso. Perde due a uno.
La casa dei miei sa di vecchio. E’ una gabbia di ricordi insopportabile.
Tutto è insopportabile.
Non ci sono certezze.
Io non ne ho più.
In me domina una sola parola, una sola volontà: basta.
Le parole, le migliaia che ho scritto, sono andate a cozzare contro il muro dell’indifferenza o sono state manipolate, usate con un altro significato.
Basta. Me lo ripeto. Davanti alla tv, che è in gran spolvero per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Prime battute. Si parla d’una candidatura di sinistra. Si fa il nome di Pertini. Ma Pertini vuole essere espressione di tutto l’arco costituzionale.
La prima votazione fa emergere un nome che non so se mettermi a ridere o urlare stronzi. Guido Gonella, democristiano. Il Pci gli contrappone Giorgio Amendola, che è persona di rispetto. Risuonano nell’aula anche i nomi di Nenni e Parri.
Spengo la tv.
Basta.
Conclusione
Tutto è cominciato con un biglietto. Con questo biglietto: “ Lascio questi fogli sparsi, una sorta di diario, al collega Riccardo Cardellicchio, che giudico molto curioso, con l’impegno – da parte sua – di pubblicarli dieci anni dopo la mia morte. In fede, Claudio Franchini”.
Impiego due giorni a leggere tutti quei fogli. Alla fine, rimango interdetto. Non c’è un finale. Mi lasciano a bocca asciutta, la voglia di sapere la conclusione. Se c’è.
Confesso: non mi metto in cerca subito. Causa impegni.
I fogli rimangono lì un po’ di tempo. Molto tempo. Ci vuole una broncopolmonite per farmeli riprendere in mano e dar loro un ordine, con l’aggiunta della numerazione e l’accantonamento di quelli insignificanti, con una parola (soffro) o con giudizi e citazioni presi da libri e giornali. Niente di utile.
Poi, di fronte nuovamente al non finito, mi torna la voglia di sapere, di dare un finale alla storia.
Al primo impulso segue un riflessione: è giusto che vada oltre quei fogli?
Alla fine, opto per il sì. E, guarito, mi metto in movimento.
Non è facile.
Comincio dal paese di Claudio.
Individuo la casa grazie alla proprietaria d’un generi alimentari non distante. La casa è vuota. Sa nulla di lui? No. Sa, però, perché l’ha vista e perché ne ha parlato con altri, che ogni tanto viene una donna. Una bella donna non più giovane.
Poi giro per le strade medievali. Poi cerco, e trovo, la trattoria in cui Claudio era solito andare da solo o con le sue donne.
Ora è condotta da una coppia di giovani sposi affabili.
Mangio bene. Secondo tradizione toscana.
Lascio il paese a pomeriggio inoltrato.
Due giorni dopo cerco Barbara.
La trovo in una casetta sul Montalbano, proprio sopra Vinci, la città di Leonardo. In pensione, ha fatto quella scelta soltanto per pura combinazione. Ha approfittato d’un buon prezzo. Dopo tanti anni per il mondo, ha sentito il desiderio di tornare in Toscana, nella sua Toscana.
Quella casa su quel monte, tra gli ulivi, nella terra di Leonardo, le è parsa una bella scelta. In tutti i sensi.
“Più visto o sentito?”
“Più visto né sentito. Sparito. Non me ne feci. Era fatto così. D’altra parte, ero sempre fuori d’Italia. Dopo la Cina, l’India, dove conobbi Terzani. Grand’uomo. Grande giornalista. Poi in America Latina. Ho finito lì, scrivendo di colpi di stato e narcotraffico. Ora passo le mie giornate leggendo, passeggiando e, la sera, cerco di mettere ordine in tutto quel che ho scritto per farne un libro. Una cosa semplice, più per me che per gli altri. Comunque, se vuole saperlo, gli ho voluto bene, gliene ho voluto assai, a Claudio. Nonostante i suoi problemi. Avrebbe meritato di più, professionalmente. Ma, forse, è stato bloccato più che dal carattere, dalle sue idee. Era uno che soffriva ogni volta che doveva cedere a un compromesso”.
Cerco Lucia. Ne trovo tracce a Fiesole. Al telefono, mi risponde il marito. “Mia moglie è morta da due anni. Cancro al seno. Ha sofferto. Ha sofferto troppo”.
Trovo Alina a Greve in Chianti. Ci arrivo nei primi giorni di un bel settembre.
Anche lei è in pensione. Si mantiene bene. Elegante. Molto femminile.
“E’ lei che ogni tanto va a casa di Claudio?”
“Sì. Lì c’è l’urna con le sue ceneri”.
“Lì?”
“Lì. Quella casa ora è mia. Me l’ha lasciata nel testamento. Essere cremato era il suo desiderio. L’ho rispettato”.
“Tenere l’urna in quella casa è una sua scelta?”
“No, di Claudio”.
“Ha passato gli ultimi anni con lui?”
“No”.
“No?”
“Chiamò all’inizio del 1979. Mi disse che la sua vita di giornalista non aveva più senso, se mai l’aveva avuta. Si sentiva testimone di una piccola, troppo piccola realtà, di quella che gli altri, i potenti, volevano che emergesse. Gli avevano dato un brutto colpo la morte di Moro e le dimissioni di Leone. Senza dimenticare il comportamento del Pci in quegli anni. Era il partito cui lui si sentiva più vicino, anche se gli aveva dato il benservito, senza riguardi, al tempo del Nuovo Corriere”.
“Che fece?”
”Andò avanti ancora un po’, tra alti e bassi. Arrivò fino al 1980”.
“Eppoi?”
“Poi sparì. Nessuno ne seppe più niente. Inutile cercarlo. Aveva lasciato la Rai e a casa sua non andava più. Poi m’arrivò una telefonata”.
“Da dove? Da chi?”
“Dal Grossetano, da Nomadelfia, dalla comunità di don Zeno. Una sorpresa. Pensavo che avesse scelto la solitudine, un convento. Invece, no. Aveva deciso d’impegnarsi in una comunità particolare, al servizio degli altri, dei giovani in particolare. Mi comunicarono che era morto per un infarto mentre stava parlando, con alcuni ragazzi, di giornalismo. C’era un testamento. Ero io la beneficiaria. C’erano soldi e la casa. Adoperai i soldi per la cremazione e detti il resto a Nomadelfia, come da lui indicato. La casa, l’ho tenuta. La tengo. Ci sono le sue ceneri. E’ l’unico uomo che ho amato davvero. Anche se lui non ha fatto nulla per farsi amare”.
Fine