Diario di bordo
Sergio Paronetto. Tribalismo padano e religione guerriera. Una riflessione da Verona
12 Marzo 2009
 

Molti non lo sanno. Chi le pronuncia forse non lo sa ma è bene rendersene conto. Tante frasi dure e aggressive ripetute a sostegno di ordinanze, di provvedimenti o di proposte legislative a favore dei “padani doc”, assomigliano a quelle che hanno preparato il clima politico e culturale delle leggi razziali in Germania (1935) e in Italia (1938). Senza abbondare in citazioni (la bibliografia al riguardo è immensa), mi limito a ricordare il programma del Partito nazionalsocialista, redatto da Hitler nel 1920, dove si afferma (dal n. 4 al n. 8) la famigerata teoria della “comunità di popolo” basata sul concetto di Volksgenosse che significa “membro della comunità popolare”, di “razza tedesca”, l'unico a godere dei diritti di cittadinanza. Tutti gli altri sono “ospiti” sottomessi a una “legislazione per stranieri”. È questo che si vuole?

Chi ritiene esagerato il giudizio di imminente o diluito nazifascismo può almeno riflettere sulla logica tribale in cui stiamo cadendo. Vari esponenti politici di governo (nazionale e locale) sembrano pensare solo all'indiano padano perennemente assediato o minacciato. Vogliamo vivere come tribù separate o parallele? Tribù significa sia gruppo etnico che organismo sociale determinato e omogeneo che occupa una regione sulla quale afferma diritti tradizionali.

Moltissimi rom, sinti o islamici sono italiani-padani da anni, eppure si cercano impronte e foto, si invoca la difesa della “comunità di popolo”, si moltiplicano controlli esasperati del tutto controproducenti, mai pensati, ad esempio, per i sospettati di criminalità mafiosa o di finanza nera (analizzata dal Financial Crimes Enforcement Network), per gli autori (in gran parte familiari o conoscenti) di violenza contro donne, bambini e bambine o per i responsabili di grandi evasioni fiscali o di vittime del lavoro.

Giorni fa, un gruppo di antropologi ha diffuso un appello dal titolo “La civiltà violata. Contro il ripiegamento autoritario e razzista che mina le basi della coesistenza”. Le loro argomentazioni assomigliano a quelle di molte organizzazioni sostenitrici della campagna “Siamo medici, non spie” o ai firmatari della recente lettera aperta riguardante l'inutile odiosa schedatura di persone (italiane e veronesi), avvenuta il 5 marzo scorso presso le piazzole di sosta di strada La Rizza, presso Verona.

Gli imprenditori delle paure aprono ferite e alimentano divisioni. La cultura del nemico ci rende tutti più infelici e insicuri. Il linguaggio volgare e violento che spesso ci avvolge tende a produrre inevitabilmente azioni volgari e violente. La vera sicurezza può essere solo costruita assieme come un bene comune. Ultima osservazione. I sostenitori del binomio “sangue e suolo” sono pronti a brandire la croce come simbolo di un “cristianesimo senza Cristo” che mi sembra simile a quello propugnato dall'Action française, il movimento di Charles Maurras sostenitore di un “cattolicesimo anticristiano”, condannato da Pio X (1914) e da Pio XI (1926). Ogni progetto autoritario o totalitario ha bisogno di una religione civile settaria o guerriera.

Non è questa la cultura veronese in cui sono cresciuto. Non è questa la fede cristiana espressa dal recente Sinodo diocesano. Esiste una Verona ricca di risorse democratiche e di esperienze libere e solidali che forse si è assopita ma può risvegliare la sua identità relazionale e cosmopolita.

Qualcosa si muove. Per qualche mese alcuni autobus porteranno per Verona la scritta “Nella mia città nessuno è straniero”.

 

Sergio Paronetto

(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, 12 marzo 2009)


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