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Fig. 1 - Diffusione della pratica delle mutilazioni femminili |
19 Febbraio 2009
Il quadro di riferimento
Nel 2000 la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite ha posto degli importanti obiettivi di sviluppo che hanno impegnato la comunità internazionale al raggiungimento di traguardi concreti, quali lo sviluppo e la riduzione della povertà entro il 2015.
Tra questi obiettivi, fondamentale è quello che si prefigge di promuovere l’uguaglianza di genere e l’empowerment delle donne, essendo questo un prerequisito essenziale per la realizzazione della giustizia sociale, dello sviluppo e della pace e, quindi, per il conseguimento degli altri obiettivi.
Anche un altro obiettivo (che tutti i bambini possano completare un intero ciclo di scuola primaria entro il 2015) è un diritto in particolare negato più alle bambine le quali - in condizioni gravemente disagiate - vengono spesso costrette - fin dalla loro tenera età - a svolgere mansioni all’interno della famiglia di origine che le priva di poter avere l’educazione loro necessaria per affrontare un futuro più consapevole.
Nonostante gli importanti progressi compiuti in questo campo, infatti, la disuguaglianza tra i sessi continua ad esistere. Le donne sono fortemente discriminate a tutti i livelli e hanno limitate possibilità di accesso all’istruzione, all’informazione, alle risorse e ai servizi, subendo, spesso, violenze e abusi di ogni tipo.
Alla luce di ciò, la presente riflessione si è proposta di analizzare sinteticamente in prima battuta lo status economico, sociale e politico della donna in Africa, continente in cui la condizione di inferiorità della donna assume toni particolarmente drammatici; e in seconda analisi fornire un quadro dei principali strumenti giuridici sui diritti umani del continente africano con riferimento alla tutela da questi prevista per i diritti della donna: Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, Carta araba dei diritti dell’uomo e Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, documenti molto diversi tra loro per origine, natura e forza vincolante.
Infine, vengono presi in considerazione alcuni casi di studio per confrontare realtà diverse, per storia e tradizioni, di Paesi dell’Africa sub-sahariana, ma accomunate da importanti progressi nella strada verso l’emancipazione femminile.
Donne e disuguaglianze di genere
Parlare della condizione della donna in Africa non è certo questione da poco, non lo è mai parlare della donna e l’argomento si fa ancor più complesso quando le realtà da considerare e trattare sono tanto frammentate e diversificate.
Condizione della donna, lavoro della donna: le due cose non possono essere prese separatamente. Se in occidente lavoro significa spesso emancipazione, realizzazione personale e autonomia, nei Paesi africani la questione diventa vitale, parlare di lavoro porta il discorso sulla vita stessa delle donne, il loro valore e la loro sopravvivenza. A questo proposito si è parlato di mani invisibili che silenziosamente, da sempre, costruiscono l'Africa, ne strutturano la stessa società.
Donna come lavoratrice, dunque, comunque e sempre; non esiste, in Africa, donna che non lavori, la sua è una forza doppiamente produttiva, come donna madre-nutrice e come donna produttrice. La situazione non cambia molto se si vogliono considerare le particolarità di ogni diverso paese, le singolarità delle più varie tradizioni.
Cambiano i ruoli, forse, cambiano i rapporti familiari (in parte), la religione e il suo peso all’interno della comunità, ma ciò che resta invariata è l’importanza e il significato del ruolo femminile.
Per quanto un diverso peso possano avere le leggi consuetudinarie e religiose dei diversi Stati, va subito detto che il ruolo della donna africana è, ovunque e comunque, insostituibile: è responsabile della casa e della famiglia, dell’educazione dei figli e così come la parte del lavoro di sussistenza che ha luogo entro il territorio domestico (in campagna, ad esempio, gli animali da cortile sono regolarmente alimentati e seguiti dalle donne).
In merito andrebbe fatta una decisa distinzione fra la condizione delle donne di città e quelle di campagna, ricordando che in linea di massima, per quanto sembri contraddittorio, la donna tende a godere di un benessere maggiore (almeno per quanto riguarda l’importanza e il riconoscimento del suo ruolo) negli ambienti rurali. Il suo spostamento nelle città porta spesso all’annullamento di tradizioni e di valori che ancora sopravvivono nelle campagne e di conseguenza ad un peggioramento, in alcuni casi, del suo status sociale. A ciò si contrappone l'importante fatto che nelle campagne la donna affronta la gestione quotidiana della famiglia e dell'abitazione, impegni che sono notevolmente più duri e pesanti che nelle situazioni urbane. La madre (ma anche le figlie o le altre donne del nucleo familiare) avrà il compito quotidiano e pesantissimo di andare tutti i giorni a procurare la legna da ardere (impresa questa spesso gravosa, vista la scarsità di legna da ardere a causa del disboscamento intensivo avvenuto in molti Paesi o perché altri sono nella vasta area del Sahel) e prendere l'acqua al pozzo (solitamente lontano diversi chilometri dal villaggio) il compito di garantire acqua alla propria famiglia. In molte zone aride dell’Africa sub-sahariana la raccolta dell’acqua è un un’incombenza quotidiana che costringe le donne (mamme, figlie, giovani e bambine) a percorrere 2-3 ore di cammino per raggiungere una fonte e portare a casa una provvista giornaliera. La raccolta e il trasporto dell’acqua diventa un onere che ruba il tempo ad altre attività, ad esempio alla scuola dove le bambine sono discriminate rispetto ai bambini nell’accesso all’istruzione proprio perché molti compiti domestici sottraggono loro molto tempo della giornata. Con l'inurbamento (e la dominazione coloniale) la donna ha subito il passaggio, avvenuto negli ultimi due secoli, dalle leggi consuetudinarie alle legislazioni moderne, che, invece di migliorarne le sorti, talvolta le ha addirittura peggiorate. Si prenda ad esempio il Senegal, dove la legge sulle comunità rurali mostra come una legislazione, in prima analisi sessualmente neutrale, possa ritorcersi contro le donne. Qui un consigliere rurale su tre deve essere il rappresentante di una cooperativa, e ciò ha portato i gruppi più diffusi, cioè le comunità di donne, a trovarsi di fatto escluse dalle istanze decisionali.
Negli ultimi anni, sempre nel consolidato rispetto delle tradizioni familiari e comunitarie, lo spirito di intraprendenza che contraddistingue le donne africane ha prodotto diverse soluzioni per contrastare l’inefficienza dei poteri pubblici e i risultati spesso solo teorici delle politiche di sostegno. Per prima la solidarietà e l’aggregazione di gruppo. Ad esempio nella stessa struttura poligamica le diverse mogli trovano tra di loro sostegno e aiuto nelle innumerevoli mansioni familiari, così all'interno della più estesa società le donne trovano il modo di sostenersi anche economicamente. Ecco allora il crearsi delle mutue e di “tontine” (associazioni molto antiche in cui i partecipanti pagano una quota e alimentano una cassa comune di cui ciclicamente dispongono per portare a termine i loro progetti. Nel Camerun, ancora oggi la tontina è il pretesto per un modo di associarsi ed aiutarsi a vicenda che viene chiamato “la società degli amici”. Il denaro motiva le persone a riunirsi, ma l'obiettivo non è quello. Peraltro la quota può essere molto esigua ed essere versata in natura. La priorità è data alla qualità dei legami sociali e di amicizia che si creano. Si forma così una società reale, fuori dall’economia e fuori dallo Stato, che funziona con le sue proprie regole, e che ha quindi anche inventato dei sistemi di regolazione dei conflitti e dei litigi; un ingegnoso metodo di risparmio gestito all’interno di un gruppo di pari). Non è un caso infatti se oggi le giovani donne africane si appassionano per tutti i corsi di formazione che riguardano i meccanismi bancari e le strutture di finanziamento. Dalle numerose ricerche sociali condotte sulla popolazione femminile è poi emerso come l'istruzione sia vista come una delle esigenze più fortemente sentite: purtroppo in molti Paesi i corsi rivolti alle ragazze sono ancora prevalentemente di economia domestica o discipline simili che ben poco possono offrire in termini di sviluppo lavorativo e di affrancamento sociale. Si deve, poi, aggiungere che spesso gli uomini impediscono la strada di accesso all’università, difficoltà a cui, solo negli ultimi tempi, le donne hanno risposto formando dei gruppi di risparmio per mantenere agli studi le ragazze più povere del loro villaggio come è accaduto ad esempio in Camerun e in Ghana.
Tabella 1 – La Road Map per l’uguaglianza di genere (Fonte: UNICEF, 2007; rielaborazione)
Interventi
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Azioni
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Istruzione
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Abolire le tasse scolastiche e incoraggiare genitori e comunità locali a investire nell'istruzione delle bambine
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Finanziamenti
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Gli investimenti per l'eliminazione della discriminazione di genere devono essere integrati nei bilanci e nei piani governativi per conseguire l'obiettivo della parità di genere e del potenziamento del ruolo delle donne.
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Legislazione
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Le legislazioni nazionali in materia di diritto di proprietà e di successione dovrebbero garantire eque opportunità per le donne, oltre a misure atte a prevenire e contrastare la violenza domestica e le violenze di genere perpetrate anche durante i conflitti armati
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Quote di rappresentanza
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Le quote sono un sistema di provata efficacia per assicurare la partecipazione delle donne alla politica. Dei 20 Paesi con il maggior numero di donne in parlamento 17 adottano qualche sistema di quote
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Movimenti femminili
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I movimenti femminili di base hanno dato una grande risonanza all'uguaglianza e al potenziamento del ruolo delle donne e dovrebbero essere coinvolti fin dalle fasi preliminari dell'elaborazione politica, in modo che i programmi siano strutturati tenendo conto delle esigenze di donne e bambini
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Coinvolgimento
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Educare gli uomini e i bambini, così come le donne e le bambine, sui benefici dell'uguaglianza di genere e della condivisione delle decisioni, può contribuire ad alimentare rapporti improntati a una maggiore cooperazione
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Ricerche e Statistiche di qualità
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Sono fondamentali dati più precisi e analisi accurate, specialmente su temi come la mortalità materna, la violenza contro le donne, l'istruzione, il lavoro, il salario, il lavoro non pagato e l'impiego del tempo, la partecipazione in politica
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La condizione economico sociale della donna africana
Per quanto solo raramente e difficilmente riconosciute oltre il loro ruolo di mogli e madri, resta il fatto che l’Africa sub-sahariana è una delle regioni al mondo in cui le donne, indipendentemente dall’età, lavorano di più e, elemento da non sottovalutare, a tale forza economica non corrisponde, se non in parte minima, un potere sociale e politico. Le ore di lavoro di una donna senegalese che vive nelle zone agricole possono arrivare a diciotto e la situazione non cambia di molto per chi vive nei Paesi vicini.
Per fornire un’idea più precisa, che cosa fanno, le donne, e quali sono i molti lavori in cui il loro apporto è praticamente indispensabile basti pensare alle zone rurali dove la giornata lavorativa inizia all'alba e non termina finché ogni membro della famiglia non è stato nutrito e curato. Per quanto concerne il lavoro nei campi ad esempio la risicultura in Africa occidentale è una delle attività che talvolta vede impegnate solo le donne, mentre nelle terre Peul è loro affidato l'allevamento; in generale le donne rappresentano l'80% della forza lavoro utilizzata nella produzione alimentare. A fronte di questo impegno si ricordi che, salvo rare eccezioni in cui è femminile anche la proprietà di terre e bestiame (la Namibia per il bestiame o i Paesi Zulu per campi e granai), la donna non può né possedere né controllare la terra che lavora.
Nel contesto lavorativo della donna africana non va tralasciato un altro importante aspetto: per molte comunità l'uomo col matrimonio (e con la dote che consegna alla famiglia della sposa) acquista il lavoro della moglie, la quale avrà come uniche alleate e aiuti le eventuali altre mogli dello sposo e i figli. All'uomo spetta tradizionalmente il lavoro cosiddetto pesante, (la caccia, la pesca, la costruzione delle capanne, l'abbattimento degli alberi...) ma alla donna spetta in genere l'intera gestione del lavoro all'interno della casa e, in caso, della campagna. Oltre alla preparazione dei cibi (che impegna numerose ore al giorno) e, come già detto, la ricerca e raccolta di legna e trasporto dell'acqua, non è raro che la donna si impegni nella vendita e in altre attività il cui reddito servirà totalmente ai fabbisogni della famiglia, mentre i guadagni dell'uomo spesso non sono messi a disposizione dei bisogni comuni. Le donne si trovano quindi a non poter gestire autonomamente le proprie entrate. Sempre nelle campagne, la tecnica, quando interviene in forma di attrezzi e strumentazioni moderne, è considerata un bene unicamente degli uomini, mentre le donne devono continuare a lavorare con mezzi arcaici e inadeguati.
La situazione nelle città è ancor peggiore: la mancanza di formazione spinge in massa verso il lavoro nero e la crisi, la miseria è aggravata dalla competizione con l'uomo.
Così, nelle città, decine di migliaia di disoccupati fanno concorrenza alle piccole commercianti e altre lavoratrici, contendendo loro le attività più retribuite. Se sono le prime ad essere colpite, le donne si dimostrano però anche le prime ad arrangiarsi e a trovare soluzioni per risollevarsi. Negli anni Ottanta, ad esempio, quando i tagli drastici hanno gettato sul lastrico migliaia di dipendenti statali congolesi, sono state le donne ad andare al mercato per mantenere la famiglia.
Grande capacità di organizzazione e immensa energia, dunque, ma la possibilità di ottenere un credito per una donna resta ancora un'impresa ardua: per accedere a un prestito, infatti, bisogna poter dare un bene in pegno e possedere fondi sufficienti, condizioni entrambe che escludono le donne dal farne ricorso.
Nonostante questo, però, ci sono casi, alcuni veramente eclatanti, in cui le donne sono riuscite ad aggirare la dura legge locale e a ricoprire ruoli importanti nelle reti commerciali. È questo il caso delle cosiddette Nanas-Benz, un gruppo di donne che, più di trent'anni fa, in Togo, ha capito come il denaro sia alla base della guerra dei sessi. Queste donne, nubili, vedove o divorziate, hanno fatto fortuna concludendo accordi in esclusiva con le grandi imprese europee di import-export per la vendita di accessori nel settore del tessile per poi svilupparsi in altri settori.
Anche nei settori come l'agroalimentare le donne sono molto presenti. In Nigeria, ad esempio, le commercianti yoruba utilizzano i loro contatti nel villaggio (se necessario facendo ricorso anche ai vincoli di solidarietà familiare) per ottenere informazioni sui futuri raccolti. In Burkina creano campi collettivi mentre a Lomé i grandi commercianti di pesce sono donne e possiedono due terzi dei pescherecci del porto. Come si vede, là dove la tradizione e la legge crea barriere e limiti, l'intraprendenza e intelligenza delle donne riesce, comunque, a spuntarla grazie allo spirito di solidarietà e quindi all'unione.
Queste realtà restano, però, delle eccezioni in una situazione diffusa in cui il peso enorme del mantenimento di una famiglia e del rispetto delle leggi consuetudinarie impedisce alle capacità femminili di avere la giusta espressione e ricompensa.
Sono ancora troppe le donne soffocate, e rese invisibili da una società consuetudinaria di impronta maschile o, se sole, stritolate dalle prime necessità vitali e costrette ai lavori meno dignitosi anche e soprattutto a causa del bassissimo livello di istruzione che vieta loro l'accesso agli impieghi meglio retribuiti
Ancora è importante sottolineare che il valore primo di una donna, quello per cui essa viene data in sposa e per la quale la sua famiglia riceve una dote dal marito, è, oltre alla sua forza lavoro, la sua fertilità; a queste condizioni di vita si può ben capire come tale capitale divenga un bene perennemente a rischio e, nel contempo, quanto le gravidanze e i parti siano a loro volta un pericolo sempre più grave per queste vite già rese deboli dalle fatiche quotidiane. La maggior parte delle donne che vivono nelle campagne (ma non solo) sono date in spose a una età giovanissima e cominciano a far figli quando sono poco più che delle bambine (e come noto la salute delle ragazze è minata, fin dalla più tenera età, dalle pratiche ancora molto diffuse dell'escissione e dell'infibulazione); questo, aggiunto alla frequenza delle gravidanze e al fatto che non esista riposo per la donne gravida (che continua a faticare fino alle ultime settimane prima del parto) porta a un tasso altissimo di mortalità. Una cifra per tutte, fornita dal rapporto UNICEF (2007): oltre 160.000 donne africane muoiono ogni anno durante il parto o nelle settimane successive (nell’Africa sub-sahariana una donna su 16 muore durante la gravidanza o il parto) o dopo aborti clandestini ad alto rischio. Questo per non parlare delle complicazioni che possono seguire il parto, le infezioni e le malattie che una pressoché assente o comunque scadente copertura sanitaria non riesce a prevenire e curare. È abbastanza semplice comprendere che le cause di questo dramma sono da attribuirsi sì a una tradizione e una religione locale che mette la salute e la vita stessa della donna in secondo piano rispetto alla sua “funzione” di genitrice, ma anche alla mancanza di una corretta educazione sanitaria e una diffusa azione preventive. Il vedere la donna sempre come riproduttrice, conduce, poi, al paradosso che le cure e le campagne di prevenzione la sfiorano solo indirettamente, portandola così a non essere mai studiata per se stessa ma solo come madre‚ dai grandi progetti internazionali e dalle autorità nazionali.
Anche i progetti di sensibilizzazione delle donne africane compiuti dalle Nazioni Unite al fine di porre un freno all'eccessiva natalità in queste zone non hanno quasi mai colto a segno l'obiettivo; non si può, infatti, parlare di libertà di scelta della donna per quanto riguarda la sua fertilità o addirittura di scelta di non procreare. Nell’Africa sub-sahariana la sterilità può portare una donna ad essere messa al bando nella sua società, è quindi impensabile partire dalla limitazione delle nascite.
Il problema da risolvere in prima emergenza è, invece, quello delle malattie e della morte per parto. Le cause sono, come si è visto, molteplici e complesse, ma le più importanti vanno senza dubbio attribuite alla fatica dei ritmi di lavoro, cui si uniscono numerose carenze nutrizionali, soprattutto di ferro (da cui il rischio di anemie responsabili del 20% delle morti al momento del parto), vitamina A, zinco e iodio. Molte donne giungono al termine della gestazione in gravi condizioni di denutrizione, col risultato di non essere in grado di sostenere la fatica del parto e le frequenti complicazioni che in tali condizioni facilmente si presentano. La malaria rappresenta un pericolo particolarmente grave: il 75% delle donne africane vive in zone malariche malattia che ha avuto una forte recrudescenza negli ultimi anni) il che provoca frequenti crisi di paludismo con distruzione dei globuli rossi; si accentua così il rischio di anemia per le gravide, particolarmente vulnerabili alla malattia.
Come se ciò non bastasse, le donne sono, da sempre, le vittime più esposte all'infezione del virus dell'HIV: per quanto la conoscenza sui rischi sia relativamente diffusa, le donne in Africa subiscono, una volta di più, la loro scarsissima facoltà decisionale all'interno dei rapporti familiari e di coppia. Pochissima prevenzione per quanto riguarda l'Aids, dunque, e il discorso non migliora se si considerano le donne più anziane.
Come si vede, dunque, la situazione di vita, prima ancora che lavorativa (anche se i confini si fanno sempre più sfumati) delle donne è una realtà dura e difficilmente risolvibile poiché anche quando si rendono conto di quali sono i propri bisogni in termini medici e nutrizionali, le donne spesso non possono fare nulla per provvedere, perché le loro primarie necessità ( cibo e cure) sono sempre secondarie rispetto a quelle del resto della famiglia.
Volendo trarre delle conclusioni, è fin troppo evidente come la responsabilità di tanti problemi, dalla nutrizione alla salute, l'istruzione e il lavoro, non possa essere banalmente attribuita a leggi e regole consuetudinarie troppo dure da scalfire.
Lavoratrici invisibili, senza retribuzione, senza diritto alla terra, alla proprietà, al credito, all'eredità. Sfruttate a piacimento su terre che non gli appartengono e che, in caso di divorzio o di morte del marito, gli saranno subito tolte dalla famiglia acquisita.
Anche le donne delle città assolvono ai lavori più faticosi e meno retribuiti. La mancanza di formazione le ha spinte in massa verso il lavoro nero: nell'Africa sub-sahariana il 60% delle donne che lavora lo fa in proprio (il tasso più alto del mondo): piccole venditrici di frutta e verdura, di medicinali più o meno adulterati, distillatrici di alcol di manioca, venditrici di acqua. In Africa lavorare non è una questione di scelta, e ancor meno di soddisfazione personale o di emancipazione, è una questione di sopravvivenza. Dai pochi spiccioli racimolati ogni sera dipende la vita della famiglia: spesso il minimo indispensabile per sfuggire alla miseria .
La crisi è aggravata dalla competizione tra uomini e donne. Nell'agricoltura, dove i programmi di aggiustamento hanno colpito duramente le contadine, privilegiando le coltivazioni di rendita e l'appropriazione privata delle terre. Nel mondo del lavoro ufficiale, dove sono state le prime a essere licenziate (in proporzione le donne hanno sofferto per le restrizioni di bilancio più degli uomini). Nel lavoro nero, dove i programmi di aggiustamento hanno colpito duramente anche le piccole commercianti delle città, riducendo il potere d'acquisto dei loro clienti e gettando sul
lastrico decine di migliaia di disoccupati che oggi fanno loro concorrenza e gli contendono le attività più retribuite. La crisi ha messo in luce e ha aggravato la precarietà del lavoro delle donne e inoltre ha rivelato il loro ruolo centrale nell'economia africana.
Diritti umani violati: la violenza fisica
Diritti umani, pace e sicurezza sono obiettivi universali. Si potrebbe quindi pensare che siano termini neutrali per le donne, ma non è così. Per una donna, la sicurezza è qualcosa di diverso che per un uomo e come segnala l’UNIFEM, nonostante il gran numero di accordi internazionali e di convenzioni delle Nazioni Unite contro la discriminazione nei confronti delle donne (Tab. 2), la disuguaglianza di genere è ancora molto diffusa e profondamente radicata in molte culture.
E al momento attuale sono intervenute nuove “variabili”, che compromettono le azioni e le risorse da investire in questo campo, come la sopraggiunta crisi finanziaria internazionale che sta spostando l’attenzione verso quelle che ora vengono viste come “sfide dello sviluppo” molto più importanti dell’uguaglianza di genere.
Tabella 2 – La condizione della donna nella legislazione internazionale e nei documenti dei diritti umani dell’Africa
Anno
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Tipologia
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Titolo/Contenuto
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Organizzazione
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1975
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E
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Anno Internazionale delle Donne
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Nazioni Unite
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1975
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C
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I Conferenza sulle Donne (Città del Messico)
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1975/1985
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E
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Decennio delle Donne
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Nazioni Unite
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1979
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D
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Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne - Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women (CEDAW)
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Assemblea Generale delle Nazioni Unite
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1980
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C
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II Conferenza Mondiale sulle Donne (Copenaghen)
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1984
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Comitato interafricano sulle pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute delle donne e dei bambini (IAC).
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ONU
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1985
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C
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III Conferenza Mondiale sulle Donne (Nairobi)
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1993
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D
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I Diritti delle Donne nella Dichiarazione e nel Programma di azione della Conferenza Mondiale sui Diritti Umani (Vienna)
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1994
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D
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Piano di azione per eliminare le pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute della donna e delle bambine
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ONU ONG
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1995
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C
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IV Conferenza Mondiale sulle Donne (Pechino)
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Nazioni Unite
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1995
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D
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Piattaforma d’azione di Pechino
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1997
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D
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Carta di Addis Abeba. Si richiede a tutti i governi africani di adoperarsi per sradicare (o drasticamente ridurre) le mutilazioni genitali femminili entro il 2005.
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1998
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D
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Protocollo della Carta Africana sui diritti umani e dei popoli.
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Banjul, Gambia
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2000
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C
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Conferenza Internazione “Bejing+5”
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Nazioni Unite
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2000
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D
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“Donne Uguaglianza di genere, sviluppo e pace” - 23° Sessione Speciale dell’Assemblea dell’Onu
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Nazioni Unite
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2000
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E
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Dichiarazione del Millennio. Millennium Goal
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Nazioni Unite
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2002
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C
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Conferenza Internazionale “Rio+10” a Johannesburg
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Nazioni Unite
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2005
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D
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Protocollo sui diritti delle Donne
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Maputo
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2008
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E
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VI Forum sullo Sviluppo dell’Africa (ADF-VI)
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Addis Abeba , Etiopia
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C: conferenza; E: evento; D: documento.
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La legislazione internazionale vieta ogni forma di discriminazione contro donne e bambine. I principi sanciti dalla Dichiarazione Universale sono stati ripresi, infatti, da tutta una articolata documentazione internazionale (convenzioni, protocolli, dichiarazioni, carte, ecc.) tra cui per citare i più recenti il documento finale del “Donne 2000. Uguaglianza di genere, sviluppo e pace” della 23ª Sessione Speciale dell’Assemblea dell’Onu del 10 giugno 2000, gli Obiettivi del Millennio (di cui 3 su 8 riguardano direttamente e/o indirettamente la condizione della donna), o ancora l’incisiva campagna internazionale “Dite NO alla violenza contro le donne” lanciata nel 2007 dall’UNIFEM (il Fondo ONU di sviluppo per le donne) che ha avuto l’adesione di oltre 5 milioni di persone nel mondo che si sono unite all’appello in cui si chiede che lo stop alle violenze diventi una priorità dei Governi. E alla quale hanno aderito 29 capi di stato o di governo e 188 ministri rappresentanti di 60 governi, e oltre 600 parlamentari di oltre 70 Paesi.
Secondo molti attivisti, impegnati in programmi internazionali e regionali, per porre fine alla violenza sulle donne, non è sufficiente una migliore legislazione per porre fine a questo fenomeno poiché la cultura rappresenta ancora un forte ostacolo a cambiare o modificare certe “usanze”. La convinzione ancora diffusa che le donne africane siano proprietà degli uomini e che perciò devono essere maltrattate è solo una delle “norme culturali” riconosciute come dannose per le donne.
Tra queste pratiche, matrimoni tra minori, mutilazione genitale femminile, violenza sulle donne, delitti d’onore, e disuguaglianza di genere diffusa. In molti Paesi, queste pratiche sono illegali - vanno contro la legge - eppure persistono perché sono profondamente radicate nella cultura o addirittura sono accettate come norme culturali in alcune società.
Tra le altre pratiche che promuovono la violenza contro le donne, l’eredità sulla moglie, ancora profondamente radicata in diverse società africane. Una vedova viene “ereditata” dal cognato o da un pretendente scelto dagli anziani del villaggio, dopo la morte del marito. In alcuni casi, le vedove vengono ereditate con la forza; se rifiutano, vengono maltrattate fisicamente oppure cacciate dal nucleo familiare.
Queste tradizioni e pratiche culturali si sono dimostrate difficili da spezzare, nella lotta contro la violenza sulle donne. È facile dire che la cultura rappresenta una grande sfida alla lotta contro questo tipo di violenza; quanto alle risposte effettive nella cultura, il cammino non è ancora neanche iniziato. Tanto che in molti Paesi dell’Africa sub-sahariana ( ma anche in molti altri Paesi del mondo) le tradizioni culturali e le credenze sono spesso più forti delle leggi.
È quindi importantissimo cominciare a guardare seriamente quali tipi di intervento sono necessari per affrontare il problema culturale, poiché è nella cultura che si scrive il copione del conflitto di genere.
Secondo il rapporto dell’UNFPA, il potere culturale opera attraverso la coercizione. La coercizione può essere visibile, nascosta all’interno delle strutture di governo e delle leggi, oppure radicata nella percezione che le persone hanno di sé. Lo studio osserva come i progressi nella parità di genere non sono mai venuti senza una battaglia culturale e al contempo sottolinea come possa essere rischioso generalizzare sul tema delle culture perché può risultare particolarmente pericoloso giudicare una cultura in base alle norme e ai valori di un’altra. Anche all’interno di una stessa cultura, prosegue lo studio, non tutti concordano sulle stesse norme e valori - in realtà, il cambiamento avviene quando c’è una qualche resistenza alle pressioni culturali.
Inoltre nel rapporto viene fatto l’esempio di come le organizzazioni di donne che si battono contro la violenza sulle donne e la diffusione dell’Hiv/Aids non sono “molto amate” tanto che . non ricevono gli stessi fondi di quanti ne vengono concessi ad organizzazioni che fanno capo a uomini.
La violenza contro le donne è stato uno dei temi centrali del VI Forum sullo sviluppo dell’Africa (ADF-VI) tenutosi nel novembre 2008 ad Addis Abeba in Etiopia, il cui tema era l’Azione sulla parità di genere, l’empowerment femminile e porre fine alla violenza contro le donne in Africa, Organizzato da Unione Africana, Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa e Banca di sviluppo africana. Tra gli obiettivi dell’ADF - VI:
- la creazione di un piano d’azione per stabilire tra le altre cose una rigida attuazione delle legislazioni nazionali ed internazionali sulla violenza contro le donne, e i successivi controlli;
- interventi pratici e immediati che dovrebbero cominciare a livello del nucleo famigliare dove spesso inizia la discriminazione di genere, poiché molto spesso sono i genitori che non educano allo stesso modo maschi e femmine nel fare una netta distinzione tra il ruolo dei maschi e le funzioni che spettano solo alle femmine.
L’impegno del Forum è stato quello di impegnarsi di fronte al fallimento nell’attuazione delle dichiarazioni internazionali per porre fine alla violenza contro le donne. Tra le dichiarazioni citate all’incontro, e firmate dai leader del Continente, il Protocollo della Carta Africana sui diritti umani e dei popoli: adottato nel 1998 a Banjul, Gambia, in cui si assumono specifici impegni alla lotta contro la violenza sulle donne.
I leader hanno poi aderito alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, del 1979; un accordo che prevedeva già quasi vent’anni fa la creazione di strutture specifiche per combattere la violenza sulle donne.
Questi esempi dimostrano i ritardi che esistono in diversi Paesi sulle effettive applicazioni della legislazione. E gli esempi sono molti altri ancora. In Kenya, la legge sulla violenza domestica (di tutela della famiglia) è ancora sospesa, dopo essere stata introdotta in parlamento otto anni fa. In Uganda, la analoga legge sulle relazioni domestiche langue in parlamento da circa dieci anni.
E ancora la legge sui reati sessuali del Kenya approvata nel 2006 contiene una clausola che molti ritengono possa penalizzare le donne che denunciano i colpevoli degli abusi sessuali, pregiudicando l’efficacia stessa della legge. Per di più, la legge è stata criticata perché prevede una pena massima per stupro - l’ergastolo - ma non stabilisce la sentenza minima, che è lasciata alla discrezione del giudice. Questa ambiguità sminuisce la gravità del reato ed è un ulteriore esempio di come gli abusi contro le donne siano ancora un fenomeno ancora molto diffuso in Africa proprio grazie alle “scappatoie” offerte dalle stesse legislazioni nazionali.
Kacinta Muteshi, ex presidente della “Commissione di genere” del Kenya ha dichiarato che le donne possono essere imputate di falsa accusa di stupro, per la mancanza di prove da presentare. Infatti, accade che la violenza non viene denunciata subito e nel momento in cui viene fatto molto spesso “potrebbero” non esserci più le prove.
Ci sono poi, in alcuni Paesi in cui imperversano i conflitti, taciti consensi governativi sugli abusi commessi contro donne e minori perché vengono ritenuti un modo per placare combattenti e soldati, e per fornire loro servizi sessuali. È questa in sintesi la dichiarazione rilasciata al Forum di Addis Abeba da Marie Nyombo Zaina, coordinatrice della Rete nazionale di Ong per lo sviluppo delle donne (Renadef) della Repubblica Democratica del Congo (RDC).
Sulla violenza delle donne in Africa è entrato ufficialmente in vigore (8 ottobre 2005) il Protocollo sui diritti delle donne in Africa (documento aggiuntivo alla Carta Africana dei Diritti Umani e dei Popoli sui Diritti delle Donne in Africa). Documento di estrema importanza sia perché sarà uno strumento per aiutare le donne africane a conoscere ed utilizzare i propri diritti sia per l’articolo n. 5 in cui il Protocollo sancisce l’illiceità della pratica delle mutilazioni dei genitali femminili sia civilmente che penalmente, considerandole una violazione dei diritti fondamentali della persona.
Si tratta probabilmente della forma più pervasiva di violazione dei diritti umani conosciuta oggi, che devasta vite, disgrega comunità e ostacola lo sviluppo, e secondo il rapporto UNIFEM «è un problema di proporzioni pandemiche».
I motivi che portano a praticare le mutilazioni sessuali possono suddividersi in cinque gruppi.
Identità culturale: in alcune società, la mutilazione stabilisce chi fa parte del gruppo sociale e la sua pratica viene mantenuta per salvaguardare l’identità culturale del gruppo.
Identità sessuale: la mutilazione viene ritenuta necessaria perché una ragazza diventi una donna completa.
Controllo della sessualità: in molte società vi è la convinzione che le mutilazioni riducano il desiderio della donna per il sesso, riducendo quindi il rischio di rapporti sessuali al di fuori del matrimonio.
Credenze sull’igiene, estetica e salute: le ragioni igieniche portano a ritenere che i genitali femminili esterni siano “sporchi”...
Religione: la pratica delle mutilazioni genitali femminili è antecedente all’Islam e la maggior parte dei mussulmani non la usano. Tuttavia nel corso dei secoli questa consuetudine ha acquisito una dimensione religiosa e le popolazioni di fede islamica che la applicano adducano come motivo la religione.
Gli sforzi internazionali per sradicare la mutilazione genitale femminile hanno una lunga storia, ma è solo in questo secolo, grazie anche alla crescente pressione delle organizzazioni femminili africane, che si sono raggiunti risultati concreti.
Finalmente nel 1984 l’ONU creò a Dakar, un “Comitato interafricano sulle pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute delle donne e dei bambini” (IAC). L’obiettivo principale dello IAC era dar vita a campagne di sensibilizzazione e formazione per attivisti locali, levatrici e membri autorevoli delle comunità locali. A partire dagli anni Novanta le mutilazioni genitali femminili vennero riconosciute dalla comunità internazionale come una grave violazione dei diritti delle donne e delle bambine.
Nella Dichiarazione sulla violenza contro le donne del 1993, le MGF vennero dichiarate una forma di violenza nei confronti della donna e nel 1994 la collaborazione tra le agenzie dell’ONU e le ONG portò al varo di un Piano di azione per eliminare le pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute della donna e delle bambine. Questa intenzione venne poi riaffermata con la Conferenza di Pechino nel 1995. Nel settembre 1997 lo IAC tenne un convegno per giuristi nella sede dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) ad Addis Abeba che elaborò la Carta di Addis Abeba, un documento che chiede a tutti i governi africani di adoperarsi per sradicare (o drasticamente ridurre) le mutilazioni genitali femminili entro il 2005. Le mutilazioni vengono vietate anche dall’art.21 della Carta Africana sui diritti e il benessere del fanciullo.
I Paesi africani in cui le mutilazioni sono vietate per legge (in ordine di entrata in vigore)sono: Guinea, Repubblica Centro Africana, Ghana, Etiopia, Djbouti, Uganda, Egitto, Burkina Faso, Costa d'Avorio, Tanzania, Togo, Senegal.
Fig. 1 – Diffusione della pratica delle mutilazioni femminili (fonte: OMS, UNICEF)
(nell'immagine di copertina, ndr)
Qual è la condizione della donna in Africa oggi?
La strada da percorrere è ancora molto lunga e difficile e gli ostacoli sono numerosi ma pian piano le donne stanno opponendo resistenza per ottenere un ruolo all’interno della società.
Tuttavia l’apertura di molte associazioni a livello mondiale e l’interessamento di figure femminili di elevato livello culturale che ricoprono cariche importanti in campo scientifico e politico-economico hanno dato l’input anche a questa parte femminile del mondo africano.
Dalle informazioni relative all’occupazione lavorativa delle donne del continente africano fornite dall’ILO (International Labour Organisation), emerge che «quando le donne hanno accesso a finanze, credito, tecnologie e mercato, sono in grado di espandere i loro affari e di contribuire efficacemente alla crescita economica sostenibile e allo sviluppo ricordando il successo del microcredito che si è dimostrata la sola via d’uscita dalla povertà» per molte donne.
Sempre secondo il Rapporto ILO 2007, complessivamente, la tendenza all’aumento dei tassi di partecipazione alla forza lavoro tra le donne registrato negli anni Ottanta e primi anni Novanta si è arrestata in regioni come il sud-est asiatico e l’Asia del Sud si è invertita invece nell’Europa dell’Est e Centrale (non UE), e nell’Africa sub-sahariana. Tuttavia le donne continuano a costituire solo il 40% della forza lavoro e «restare fuori dalla forza lavoro spesso non è una scelta ma un’imposizione».
La diversità culturale, religiosa e più ampiamente antropologica evidenzia come ancor oggi nonostante cambiamenti socio-politici-economici la donna africana vive in una condizione di schiavitù, pur essendo una forza trainante dell’economia, soprattutto primaria, è ancora sfruttata ed emarginata umanamente ed intellettualmente.
La condizione della donna africana dipende dalla dimensione sociale in cui è inserita. Oggi in Africa ci sono due livelli di donna: c’è la donna della famiglia tradizionale che ha una condizione a sé, è madre e custode del focolare domestico e il più delle volte non ha avuto la possibilità di studiare. La donna che vive in città invece ha la possibilità di andare a scuola e rivestire in futuro incarichi con maggiori responsabilità nel campo delle cariche istituzionali, del commercio, della giustizia e dell’insegnamento. Le cose, però, stanno cambiando e la donna del focolare domestico sta cercando di partecipare attivamente alla vita pubblica, di essere indipendente, di pensare anche a se stessa e vivere la propria vita, di donna in modo autonomo.
Solo alcuni esempi estrapolati da relazioni di campagne di ONG, ricerche di Organizzazioni Internazionali, letture di vite vissute sono significativi per avere la percezione di un cambiamento che sta avvenendo.
In Camerun le Bayam Sallam percorrono tutto il Paese per comprare i prodotti in eccedenza degli agricoltori e assumono giovani contadini come guardie del corpo. In Burkina creano campi collettivi. In Senegal alcune commercianti donne trattano direttamente con i produttori alimentari e talvolta possiedono i loro appezzamenti di terra. Allo stesso modo a Lomé i grandi commercianti di pesce sono donne e possiedono due terzi dei pescherecci del porto.
A Ibadan le donne si sono raggruppate in un'associazione, la Cowad (Committee On Women And Development, Comitato sulle donne e lo sviluppo) per raggruppare i loro acquisti e ottenere prezzi più vantaggiosi.
L’emancipazione di queste donne è un cammino ancora in salita: esiste, certo, una tradizione che pesa e peserà a lungo sulla mentalità africana ma tanto può essere ancora fatto per quella che da sempre è l'invisibile spina dorsale del continente.
È necessaria una maggiore sensibilizzazione e capacità d’intervento da parte dell’intera comunità mondiale per aiutare l’Africa femminile verso un’emancipazione innanzitutto umana ed intellettuale.
Un grande storico africano Joseph Ki-Zerbo in una sua opera (Storia dell’Africa nera), si chiedeva “A quando l’Africa?”. Poco prima di morire è Joseph Ki-Zerbo che fa questa domanda nel suo ultimo lavoro: “A quando l’Africa?”. A quando l’Africa della donna? E attraverso un’attenta riflessione sostiene che l’Africa di oggi comincia già ad essere l’Africa di alcune donne che faranno l’Africa delle donne.
Nell’Africa di oggi è in crescita la partecipazione istituzionale delle donne. Una donna presidente di uno stato africano. Ellen Johnson Sirleaf, 63enne, presidente della Liberia, politica di professione, si è laureata ad Harvard (carcerata durante la dittatura di Samuel Doe e successivamente condannata a morte dal regime di Taylor), è stata Direttrice dell‘Ufficio regionale del programma di sviluppo delle Nazioni Unite per l'Africa e funzionaria della Banca Mondiale.
Il Rwanda vanta il primato mondiale di parlamentari donne con il 49% di presenze; in Burundi, Mozambico e Sud Africa la presenza in Parlamento è intorno al 30%, seguita da altri Paesi con una media di parlamentari donne più alta di quella Europea ( Rapporto Unicef, 2008).
Nicoletta Varani
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