Il senatore Riccardo Villari è stato rimosso dalla sua carica di presidente della Commissione di Vigilanza sulla Rai. La vicenda è istruttiva e trascende ampiamente la persona dell’interessato e la dubbia importanza della Commissione che ha presieduto per poco più di due mesi. E una vicenda che ci dimostra come la difesa di un’errore conduca a compierne altri ancora più gravi; che ci insegna che i partiti «leggeri» - ridotti, sul modello americano, al rango di comitati elettorali in tempo di elezioni e a comitati d’affari nel resto della legislatura non sono meno pervasivi nell’esercizio del potere di quanto lo fossero i partiti «strutturati» della cosiddetta prima Repubblica; ci mostra, infine, quanto scadente sia il nostro personale politico e quanto miserabile sia la sua concezione della politica.
Tutto ha inizio dall’errore di Veltroni di impuntarsi, per la Presidenza della Commissione, sul nome di un candidato che la maggioranza ha subito dichiarato che non avrebbe votato. Qualunque politico meno scriteriato di Veltroni avrebbe rapidamente trovato un candidato gradito anche alla maggioranza, cioè a dire quello che sarà prossimamente eletto dalla nuova commissione al posto di Villari. Ma l’Obama di casa nostra non sente ragioni, con la conseguenza che la maggioranza elegge, con i voti propri e quelli di due rappresentanti dell’opposizione, Villari,che del Pd è parlamentare e socio fondatore.
Qualunque politico meno arrogante di Veltroni avrebbe preso atto dell’errore compiuto e avrebbe assicurato alla Commissione un funzionamento che non gli sarebbe stato politicamente sfavorevole. Lui no, lui gioca allo scasso: espelle dal partito il povero Villari, lo cancella dal novero dei fondatori del partito (perché i post-comunisti hanno mandato alla malora tutte le buone cose del vecchio Pci ed hanno conservato solo le brutte abitudini?) e impone ai suoi commissari di dimettersi dalla Commissione. Ed essi - veri campioni delle libertà parlamentari – obbediscono.
A questo punto entrano in campo i massimi geni del Pdl e decidono di trovare un modo per liberarsi di Villari, il quale, seduto sul suo buon diritto, non ci pensa neppure a farsi da parte per soddisfare i capricci di leader pasticcioni o, peggio, di essere sacrificato a qualche infame accordo sottobanco. Così, anche i commissari della maggioranza si dimettono dalla Commissione per costringere alle dimissioni quel presidente che essi stessi avevano eletto pochi giorni prima. A questo punto, non si può non volgere un pensiero affettuoso e solidale ai figli dei commissari del Pdl i quali hanno scoperto che il loro babbo - del quale andavano tanto fieri – è un imbecille, incapace di esprimere un voto libero e di assumersene la responsabilità.
Davanti a questa follia, il senatore Villari non fa una piega perché sa benissimo che, in caso di dimissioni, la legge prevede che i gruppi parlamentari procedano alla designazione dei sostituti.
La mossa successiva degli strateghi di Pd e Pdl - che in tutto si contrastano fuor che nell’ordire piani scellerati – ha dell’incredibile: i gruppi parlamentari dichiarano che non intendono procedere alla sostituzione dei dimissionari. Manca solo l’ultimo atto. Si riuniscono le Giunte per il Regolamento di Camera e Senato, le quali partoriscono un addomesticato parere con il quale si accerta «la permanente e irreversibile impossibilità» di funzionamento della Commissione e, per l’effetto, conferiscono ai Presidenti di Camera e Senato (al secolo, Fini Gianfranco e Schifani Renato) il potere di procedere al rinnovo integrale dell’organo attraverso la revoca di tutti i suoi componenti e la nomina dei nuovi membri». Si tratta del gioco-delle-tre-carte che si pensava attività riservata ai truffatori di strada. Ciò che rende impossibile il funzionamento della Commissione non sono, infatti, le dimissioni di 37 dei suoi 40 componenti, bensì l’ingiustificato rifiuto dei gruppi parlamentari di procedere alla loro sostituzione. E l’impossibilità di funzionamento è tutt’altro che irreversibile, dal momento che basta provvedere alla sostituzione a termini di legge. Infine, a fronte del rifiuto dei gruppi parlamentari di esercitare il diritto/dovere di nomina si può ben ipotizzare il potere sussidiario dei Presidenti di Camera e Senato a effettuare le nomine in loro vece, ma non anche quello di «revocare» dall’incarico i tre componenti regolarmente eletti che non si sono dimessi.
Ciò che inquieta è vedere come questa classe politica non abbia esitato a calpestare la legalità, la libertà del Parlamento, la dignità dei parlamentari e l’intelligenza dei cittadini per una poltrona che vale quasi nulla. Ciò che allarma è constatare come non una voce si sia levata, trai sacerdoti e le prefiche della legalità repubblicana (a partire dal silenzio del Quirinale, solitamente così loquace), per protestare contro il rozzo sopruso messo in atto da una banda di «bravi» al servizio di una dozzina di don Rodrigo da strapazzo. A parte il vecchio Marco Pannella, naturalmente.
Marco Saverio Bobbio
(da Finanza&Mercati, 27 gennaio 2009)