In tutta libertà
Alberto Figliolia. "Imago Mortis" di Stefano Bessoni
28 Gennaio 2009
 

Friedrich Wilhelm Murnau (ma il vero cognome era Plumpe), nato a Bielefeld nel 1888 e morto a Santa Barbara nel 1931: maestro del cinema espressionista e autore di Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens), pellicola-capolavoro del 1922. "F.W. Murnau" è la tetra accademia dove il giovane Bruno studia regia e arte cinematografica: un luogo fuori dal tempo e dallo spazio consueti. Fra pioggia, degrado architettonico, ambienti fatiscenti e di sinistro fascino, claustrofobia e misteri. Un terribile segreto aleggia tutt'intorno inquinando lo spirito. In realtà la vicenda prende le mosse da un tempo molto remoto, il tardo 1600, allorché Girolamo Fumagalli, uno scienziato gesuita, geniale e maledetto, aveva inventato, ossessionato dall'idea di riprodurre le immagini, il thanatografo, uno strumento che poteva catturare, fissandola su una lastra, l'ultima immagine impressa sulla retina di una sventurata vittima al cui scopo venivano staccati, contemporaneamente a una mortale frattura cervicale, i bulbi oculari. E, a quanto pare, un thanatografo esiste ancora... Non mancano le apparizioni paurose – alcune volte si sobbalza di brutto dalla poltrona, nel segno della miglior Ghost Story – né una sorta di visionarietà poetica, seppur agghiacciante, così come si sprecano le citazioni colte (oltre a Murnau, Caligari e certi temi polanskiani o burtoniani).

Se il finale non convince del tutto, con l'essere suo similrassicurante e un messaggio pseudosalvifico, la pellicola ha il gran merito di dissipare la cortina di silenzio calata ormai da tanti anni sul genere horror made in Italy. Il regista, nonché valentissimo illustratore, Stefano Bessoni, già aiutante di Pupi Avati, ha con questo suo primo lungometraggio costruito un buonissimo prodotto avvalendosi, colpo non da poco, della recitazione della figlia e della nipote di Charlie Chaplin, Geraldine e Oona, per la prima volta insieme sul set. Geraldine è una perfetta Contessa Orsini: spettrale eleganza e charme infinito, anche nelle pieghe dell'orrore psicologico che man mano si dipana.

Una fiaba nera... «Adoro le fiabe», spiega Stefano Bessoni. E volevo che il mio film non venisse contestualizzato in un periodo preciso. È anche per questo che nel racconto non esistono cellulari, computer e tutto quello che avrebbe rappresentato un mondo tecnologico che invece resta rigorosamente fuori campo. Mi piace la definizione di film analogico in cui il digitale resta fuori e si assiste al trionfo della vecchia pellicola».

«Quello che volevo riuscire ad esprimere», prosegue il regista, «era un senso di pericolo imminente».

Riguardo alla thanatografia... «La cattura delle immagini è senza dubbio uno dei mondi più affascinanti in cui mi sia imbattuto. Catturare la morte nell’occhio del cadavere è qualcosa che va al di là di ogni immaginazione, nonché un tema che ha a che fare direttamente con qualcosa di soprannaturale. Il cinema poco, ma in questi anni il fenomeno della persistenza retinica ha trovato spazio nella letteratura, in diversi fumetti e via dicendo. Al di là dell’interesse suscitato dal tema, ho trovato che fosse un formidabile veicolo per trattare il tema della morte. È da quando disegno che amo immaginare personaggi sempre in bilico fra le due dimensioni».

Bruno, il protagonista, interpretato da Alberto Amarilla, è molto bravo nella sua tormentosa, quasi liquida, emotività a disegnare il sottile e crudele disagio psichico che permea di sé ogni fotogramma della storia. E nulla è più cruento dell'attesa, foss'anche per una morte liberatoria. Cruenta imago.

 

Alberto Figliolia


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