NOI CI RIFIUTIAMO! È questo il grido che dovrebbe levarsi dal cuore di tutti i popoli per spegnere la follia della guerra.
Proponiamo un percorso tra artisti che hanno descritto e raffigurato i disastri che la guerra ha prodotto e che produce sui popoli, sui territori e sull’uomo. Testimonianze dirette di chi tale orrore lo ha vissuto sulla propria pelle.
Il concetto di guerra come distruzione è un concetto comune senza confini e senza colori. La guerra è morte, la guerra è violenza inaudita, la guerra è follia di insane utopie di chi insegue chimere di potere.
«Io mi rifiuto!
La nostra volontà è più forte della violenza, della baionetta e del fucile!
Ripetete queste parole: “Io mi rifiuto!”.
Mettetele in pratica, e in futuro la guerra sarà impossibile. Tutto il capitale del mondo, i re e i presidenti non possono nulla contro tutti i popoli che insieme gridano: NOI CI RIFIUTIAMO!».
(Ernst Friedrich, Guerra alla guerra, 1924)
Quanti popoli hanno risposto all’invito? Pochi o nessuno. Anzi, mai come in questi anni, il ricorso alla guerra ha annullato qualsiasi invito alla ragionevolezza. E basta guardarsi intorno per vedere come il mondo si copre di sangue, di sangue innocente che chiede soltanto di poter vivere.
Se solo si potesse riflettere! Se solo si parlasse e si ascoltasse, se solo si potessero educare le menti a dire NOI CI RIFIUTIAMO! Con quali mezzi trasmettere il messaggio se non attraverso la cultura che parla ai popoli di popoli? Attraverso scritti e artisti capaci di narrare e filtrare attraverso le proprie espressioni verità atte a suscitare emozioni, quel sentimento di rispetto per noi e per gli altri che forse abbiamo un giorno inconsapevolmente abbandonato. Sono gli intellettuali, gli artisti che in comunanza con altri hanno il compito di educare le nuove generazioni. È la testimonianza di chi ha vissuto la terribile esperienza della guerra a farci riflettere, a educare il nostro pensiero a farci dire NOI CI RIFIUTIAMO!, a farci capire, a staccarci da tutto ciò che di torbido può inquinare il nostro pensiero e con esso il futuro nostro ma essenzialmente dei nostri figli. Non possiamo, non dobbiamo violare ciò che di diritto spetta alle nuove generazioni. La guerra è un fango malsano che inghiotte la speranza di vita e con essa il concetto di Pace. La Pace non è postuma alla guerra, la Pace è nella nostra ragione a dire: Io mi rifiuto!
Iniziamo il percorso con la testimonianza di chi la guerra l’ha patita sulla propria pelle, affinché i giovani ne capiscano le conseguenze e chiaro appare in quest’ottica il messaggio della guerra come distruzione in un ricordo dell’artista George Grosz che come tanti suoi coetanei, travolti da un’onda irrazionale di nazionalismo, era partito volontario nel novembre del 1914, ma senza alcun entusiasmo:
Cosa c’è da dire della prima guerra mondiale? D’una guerra che non mi era mai piaciuta dall’inizio e nella quale non avevo mai trovato alcuna identificazione? M’interessava la politica, ma ero cresciuto nello spirito dell’umanesimo. La guerra significò orrore, mutilazione, devastazione. Non la pensano allo stesso modo molte sagge persone? Certo al principio vi fu una sorta di entusiasmo di massa. Ed era sentito. Ma subentrò ben presto l’intossicazione e rimase un gran vuoto. I fiori sugli elmetti e nelle canne dei fucili presto si dissolsero. La guerra allora significò tutt’altro che entusiasmo; era diventata sinonimo di sozzura, pidocchi, malattia e mutilazione. […] Allora, quando tutto si sfasciò nella disfatta, qualche anno dopo, quando crollò ogni cosa, nulla rimase a me e ai miei amici se non il disgusto, l’orrore. Dopo tutto il destino aveva fatto di me un artista, non un soldato. L’effetto che su di me ebbe la guerra fu totalmente negativo. Non era mai stata la “liberazione” come l’aveva sentita qualcuno. […]
Un credo? Ah! Credere in che cosa? Nell’industria pesante tedesca, nei grossi pescecani? Nei nostri illustri generali? O nella nostra diletta Madrepatria? Almeno avevo il coraggio di urlare ciò che molti pensavano. Probabilmente era follia, più che coraggio. […] Nel 1916 venni congedato dal servizio militare, ma non del tutto. Mi era stato detto che si trattava di una specie di licenza, e che sarei stato richiamato. […] Era cominciata la catastrofe. La tempesta della guerra, tanto recentemente apprezzata per il suo effetto ripulitore, era cessata, le belle frasi erano diventate stantio inchiostro da stampa su carta economica, abbrunita… […] Ero stato nuovamente richiamato, verso la metà del 1917. Questa volta dovevo addestrare reclute, e custodire e trasportare prigionieri di guerra. Ma, semplicemente, non ne potevo più. Mi trovarono una notte, quasi privo di sensi, con la testa nella latrina. […]
“George Grosz: una autobiografia”, Milano 1984, pp. 110-121
(dal Catalogo La grande guerra degli artisti pp. 66-67).
Grosz, nell’opera: Silenzio (Cristo con la maschera antigas), 1935-1936; esprime la propria polemica contro ogni nuovo militarismo.
Il disegno, di grande efficacia espressiva, mostra un Cristo in croce che indossa stivali militari e una maschera antigas. L’espressione macabra, la figura sofferta, accasciata, quasi a penzolare dalla croce, è l’espressione di un sacrificio inutile, di una salvezza non realizzata. Il corpo dolente sulla croce mostra chiari i chiodi del martirio e l’uomo distrugge ogni futuro, ponendo sul volto del Cristo la maschera antigas. Il Cristo si mescola all’uomo in un annientamento reciproco di identità. Fortemente incisivi sono gli strumenti di morte con cui l’artista rimarca, implacabile, la stupidità umana e diventano in Cristo un monito per l’umanità.
George Grosz, pittore, incisore e grafico tedesco (Berlino 1893-1959), studiò all'Accademia di Dresda e a Berlino. Il periodo tra il 1914 e il 1917, in cui prestò servizio di leva, contribuì ad alimentare in lui il sentimento antimilitarista, antiborghese, anticapitalista che aveva caratterizzato le sue vignette satiriche nel periodo di collaborazione con alcuni giornali berlinesi e che divenne una costante della sua attività.
Il suo linguaggio figurativo che risente di elementi cubisti, futuristi e di deformazione espressionista, divenne fortemente incisivo e grottesco (Metropolis, 1917, Le colonne della società, 1926) e diventava sempre più evidente il suo impegno politico. All’avvento del nazionalsocialismo (1933) si rifugiò in America.
I soggetti prediletti da Grosz erano: i reduci mutilati, gli approfittatori, i personaggi ambigui nel torbido politico e sociale degli anni di Weimar che mostravano chiaramente l’abiezione e l’avidità di potere.
Anna Lanzetta