Alessandro Spadari predilige una certa inclinazione romantica, cioè un modo di leggere la realtà in modo trasognato eppure ad occhi aperti, attraverso i sentimenti. E questi appartengono alla reverie, al fantasticare al limite del baratro notturno, ma rimanendo sempre un pò al di qua, non facendosi portare mai completamente oltre. Non si fa trascinare dal Maelstrom della notte, si sentono i vortici dell’oceano ma non si vedono i poveri sciagurati in procinto di essere trascinati negli abissi. Spadari sente particolarmente l’opera di Caspar David Friedrich con quei personaggi che sostano davanti alle rovine gotiche o davanti all’infinito del mare o al silenzio delle montagne. Così è, se le Muse vi soffiano sugli occhi, riuscite anche a vedere cose che normalmente sono immateriali, appunto come l’eternità, il sublime, la finitudine, il tempo. Spadari si muove in uno spazio liquido, dipinge con una tendenza al monocromo perché la visionarietà non ha bisogno di tanti colori, quelli sono arrivati dopo con la psichedelia o le droghe. La pittura visionaria (Fuessli, Moreau, Redon) non ha mai avuto bisogno di accendere le luci, si è sempre accontentata della penombra e di giorno il sole non riesce a perforare gli stati di nuvole, le nebbie di Avalon possono sollevarsi come una cortina teatrale.
L’artista negli ultimi anni ha lavorato spesso sul tema del paesaggio molto atmosferico, un paesaggio senza punti di riferimento in cui la neve, le stelle o il mare sono tracce perdute di un linguaggio scomparso. Quando poi decide di dipingere un “oggetto” vi pone poca attenzione, non ne cerca i contorni, i dettagli. Però li colloca sempre al centro dei quadri, sono punti d’ equilibrio provvisori, qualcosa che deve ancora definirsi. Sono navi, per esempio, in mezzo ad un mare procelloso o al silenzio della bonaccia. Quello che viene fuori dai suoi quadri è una sottile vertigine, un brivido perché la tela non annuncia che una possibilità, un timore, un’incertezza esistenziale, uno stato di sottile malessere. Posso scomodare il sublime kantiano con poca fatica: l’arte è timore, paura di fronte alla natura, all’infinito. Siamo piccoli e non cresceremo mai abbastanza da occupare l’intero quadro. Siamo noi dentro i quadri di Alessandro Spadari, siamo noi e non sappiamo come uscirne. E nemmeno l’artista lo sa perché lui non deve fornire soluzioni, deve accarezzare il bello nascondendo l’abisso, che c’è ed è pronto a prendersi i nostri occhi.
Con Gabriele Talarico le atmosfere ritornano ad essere più normali, ma fino ad un certo punto. Riconosciamo quello che vediamo perché sono delle istantanee di grandi città che magari abbiamo visitato o che abbiamo visto in fotografia o al cinema. Questa rassicurazione però è in parte attenuata dal fatto che le immagini le vediamo dipinte come se fossero in negativo. Praticamente è come se Talarico dipingesse il negativo delle cose che vede, come una pellicola stampata senza l’ inversione cromatica, direttamente a contatto. Allora lo stato di alterazione è ben presente non solo e non tanto per la negatività che viene proposta, ma soprattutto perché si innesca un meccanismo di visionarietà in cui il daylight va a ramengo e non ci resta che la notte. Ma questa è artificiale, è un effetto di luci e ombre, ogni dato naturalistico è perduto, cancellato dalla memoria.
In questo “opus incertum” ritornano parole che abbiamo già speso, ma non fino in fondo. La notte è il rovescio del giorno. La notte è fatta per tutto tranne che per vivere, chi lo fa accelera i suoi battiti vivendo in rapida successione le sue età, accelerando la ferita finale. Ma la notte è anche per la filosofia romantica, e per un poeta come Novalis, il luogo in cui gli spiriti s’incontrano, una sorta di convegno permanente sulla vita e la morte.
Anche Talarico corteggia la bellezza, come gli altri artisti, sa bene che il male può essere solo nascosto dall’abbagliante verità della forma. Ma ha scoperto che l’esattezza delle forme, la definizione della pittura può anche essere abbandonata a favore di un segno più libero, forte, espressionista: un segno che acquisisce la gestualità di chi scava dentro le immagini cercandone l’arché, l’origine. Non a caso il buio richiama la luce, è un altro aspetto di questa, un’altra finzione. Gabriele Talarico vuole arrivare al termine della notte, guardando il mondo al contrario, con la memoria di un paese perduto nella testa e la ricerca di un’attualità che ci allontanano dal “supplizio della speranza”.
Tutti gli artisti di questa mostra hanno qualcosa da dire sulla luce e sulla sua impossibilità reale a farci vedere il mondo. E’ meglio quindi l’ora incerta in cui le ombre si allungano, in cui la vita rallenta o scompare dentro i vicoli e dentro le mille fessure delle città. Una quiete apparente si diffonde e assorbe tutto attorno a sé. La Natura oppure la vita artificiale delle città non possono nulla nei confronti di questo silenzio, a cui si arrendono perfino le mie parole.
Valerio Dehò
Opus incertum
Alessandro Spadari – Gabriele Talarico – Alberto Zamboni
31 gennaio – 15 marzo 2009
a cura di Valerio Dehò
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