Diario di bordo
Il ministro Alfano conferma: quella di carceri e giustizia è la vera grande emergenza italiana
16 Ottobre 2008
 

La conferma è autorevole, viene dal ministro della Giustizia Angelino Alfano: quella delle carceri e della giustizia è la vera, grande emergenza di questo paese.

«Questa notte», ha detto il ministro, «hanno dormito nelle nostre carceri 57.187 detenuti». La maggior parte sono in attesa di giudizio: 16.179 di primo grado; 9.782 quelli che hanno presentato appello alla decisione di primo grado; 3.544 i ricorrenti; 1.699 i detenuti che hanno una posizione “mista” e non sono ancora stati condannati in via definitiva. Secondo le cifre fornite l’altro giorno dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, attualmente nelle 205 carceri italiane ci sono 14mila detenuti in più della regolare capienza.

Oltre la metà delle strutture, ha aggiunto il ministro nella sua relazione dinanzi alla Commissione Giustizia di Montecitorio, accusa il peso degli anni: «Sono indispensabili interventi di manutenzione straordinaria, di ristrutturazione e di realizzazione di nuovi padiglioni e di nuove strutture carcerarie». Il ministro ha poi reso noto che «con le iniziative adottate nei mesi passati» sono stati recuperati 485 posti, e che dalla ristrutturazione di altri padiglioni si pensa di renderne disponibili nel prossimo futuro altri 1.270. Secondo i progetti del ministro, entro il prossimo triennio ne saranno disponibili altri 2.100: «Nuove carceri, ma soprattutto la realizzazione di nuovi padiglioni in complessi penitenziari già esistenti. Costruire una nuova struttura penitenziaria da 200 posti costa 40 milioni di euro; realizzare un padiglione della stessa capienza impegna le casse dello stato per 10 milioni di euro…».

Potrebbe andare tutto bene, se poi quelle nuove strutture, quei nuovi padiglioni potessero andare a regime; ma già oggi, per esempio, nel carcere di Perugia-Capanne in uno solo dei due padiglioni pur perfettamente attrezzati ci sono detenuti; quello che non viene utilizzato non lo è per carenze di organico della polizia penitenziaria. È lo stesso ministro, del resto, a riconoscere il problema: 45.121 è il numero delle unità della polizia penitenziaria necessarie, il “buco” di organico è di 4.171 unità; quanto al personale dei ministeri interessati è di 2.535 unità, e 16 sono le figure dirigenziali in meno, rispetto alle 300 necessarie: «Insufficienze che rendono critica l’operatività di tutte le realtà penitenziarie presenti sul territorio».

 

Le cause del sovraffollamento delle carceri (che ha raggiunto se non superato la situazione pre-indulto) vanno imputate da una parte all’uso indiscriminato e massiccio delle misure di custodia cautelare in carcere; l’ordinamento penitenziario e la legge x Cirielli sulla recidiva limitano fortemente il meccanismo della sospensione dell’ordine di carcerazione e la possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione; la legge Bossi-Fini (che prevede la detenzione per gli extracomunitari soggetti ad espulsione), e la legge Fini-Giovanardi sugli stupefacenti (che consente l’arresto anche per chi detiene sostanze stupefacenti “leggere”), hanno fatto il resto.

Intanto nelle carceri italiane si continua a morire. Anzi, rispetto agli anni passati, si muore di più. Nell’anno in corso, sono 91 i detenuti morti in cella. Rispetto al 2007 siamo già a un buon 5 per cento in più.

«La situazione del sovraffollamento è grave», dice Rita Bernardini, «è senz’altro una delle cause dell’aumento dei decessi di detenuti rispetto allo stesso periodo del 2007». Un buon 33 per cento di questi decessi è, ufficialmente, causato da suicidi.

E a proposito di decessi in carcere. È morto nel carcere di Viterbo mentre i medici tentavano invano di rianimarlo. Vincenzo M. era un detenuto romano di 39 anni, da meno di 15 giorni “ospite” a Viterbo. Vincenzo è il quattordicesimo morto accertato (tredici detenuti, e un agente di polizia penitenziaria) nelle carceri del Lazio dall’inizio dell’anno, contro gli undici dell’intero 2007 e i dieci del 2006. Sei i suicidi, quattro le morti per malattia, gli altri per cause non accertate.

È un giallo la morte di un altro detenuto, Niki Aprile Gatti, un ragazzo di 26 anni morto il 24 giugno a Sollicciano (Firenze). Dopo l’opposizione alla richiesta di archiviazione dell’inchiesta che doveva stabilire se il giovane si fosse suicidato, la madre Ornella Gemini chiede che fine abbiano fatto gli arredi, gli effetti personali e i cinque computer (tra cui due portatili) che erano custoditi nell’appartamento del ragazzo, a San Marino.

Gatti era stato arrestato il 19 giugno a Cattolica, per una frode informativa. Il 24 dello stesso mese è stato trovato senza vita nel bagno della sua cella, impiccato alle sbarre della finestra con i jeans e i lacci delle scarpe. La madre ha presentato una denuncia-querela contro ignoti per violazione di domicilio per fini di trafugamento, sottrazione e appropriazione indebita. Gatti ufficialmente risiedeva a Londra, ma era domiciliato a San Marino dove aveva preso in affitto un appartamento. I genitori, dopo la morte del figlio dicono di aver tentato inutilmente di rientrare in possesso dei beni del ragazzo. L’appartamento, dice la madre, nel momento in cui è stato per loro accessibile, era già stato svuotato anche dei computer che potrebbero essere utili all’indagine complessiva. Nella denuncia, i genitori di Gatti chiedono di conoscere chi è entrato nell’appartamento, portando via tutto (oltre ai computer anche i vestiti e le suppellettili), poiché la procura della Repubblica che ne aveva disposto l’arresto non ha potuto effettuare alcuna perquisizione, in un appartamento situato in uno stato straniero. «L’utilizzo di un solo laccio è di per sé idoneo a causare la morte per strangolamento di una persona», sostengono i legali della famiglia Gatti. «Ma certamente non idoneo a sorreggere il corpo di Niki, del peso di 92 chili. Inoltre non si comprende come possa essere stata consumata l’impiccagione quando nel bagno non vi era sufficiente altezza tra i jeans e il piano di calpestio del pavimento tale da poter garantire il sollevamento e il penzolamento del corpo. In tal caso, il decesso è più riconducibile a uno strangolamento con successiva simulazione di impiccagione».

 

Valter Vecellio

(da Notizie radicali, 15 ottobre 2008)


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