Ogni anno oltre mezzo milione di donne
muore di parto. Record in Africa e Asia
Per circa mezzo milione di donne ogni anno (536mila, si è calcolato), il parto e la gravidanza, sono causa di morte, e per il 99 per cento dei casi nei paesi in via di sviluppo. È il drammatico dato che emerge dal rapporto “Progressi per l’infanzia sulla mortalità materna”, presentato dall’UNICEF. Vincenzo Spadafora, presidente di UNICEF-Italia sottolinea come «il 99 per cento dei casi di mortalità materna avviene nei paesi in via di sviluppo. L’84 per cento in Africa sub-sahariana e Asia meridionale, con l’India che detiene il record negativo del 22 per cento di casi sul totale mondiale».
All’origine di molti decessi materni, la mancanza di accesso a un’adeguata assistenza sanitaria, la generale condizione di salute delle donne, la povertà, e atteggiamenti culturali che spesso costituiscono un ostacolo insormontabile per le donne che vogliono accedere all’assistenza pre e post parto. Il rapporto pone l’accento anche sulle conseguenze in seguito al parto o alla gravidanza per oltre dieci milioni di donne: vittime di lesioni, malattie e infezioni spesso permanenti. I due terzi dei decessi materni avvengono in dieci paesi, con l’India che registra un record: 117mila decessi, pari al 22 per cento del totale mondiale.
Il Niger appare il paese dove è più pericoloso partorire: il rischio di mortalità materna è pari a 1 su 7. Tra i paesi industrializzati, il più alto tasso di rischio si registra in Estonia (1 su 2.900), seguita dagli Stati Uniti (1 su 4.800).
A livello di aree geografiche, circa il 30 per cento di tutti i decessi materni, avviene in Africa occidentale e centrale, dove nel 2005 sono morte 162mila donne per cause legate alla gravidanza o al parto; 103mila donne (20 per cento circa) muoiono in Africa orientale e meridionale; mentre più di un terzo dei decessi materni avviene in Asia meridionale (187mila).
Notizie dal carcere che non sono,
evidentemente, ritenute “notiziabili”
Il numero dei suicidi nelle carceri italiane è 24 volte superiore a quello della popolazione libera. Nelle carceri italiane si suicidano 11,1 detenuti ogni 10mila. Il fenomeno riguarda anche il personale della polizia penitenziaria, il cui tasso di suicidi è di 1,3 ogni 10mila addetti, contro una media nazionale dello 0,6. La percentuale dei detenuti italiani che si suicidano, è maggiore rispetto a quella degli immigrati. Il dato è emerso nel corso del convegno “Novità e progetti di salute per le persone detenute” che si è svolto l’altro giorno a Viterbo. Secondo i medici della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, «i dati forniti dall’OMS, dal Consiglio d’Europa e dal ministero della Giustizia italiano, dimostrano che nelle carceri italiane si suicidano 11,1 detenuti ogni 10mila. In Europa il tasso sale al 12,4 per cento. Va tuttavia tenuto conto che in Italia il tasso dei suicidi nella popolazione libera è di 0,6 ogni 10mila abitanti, mentre nel resto del mondo sale a 1,6. Quindi il dato va valutato tenendo conto della minore propensione degli italiani a togliersi la vita».
Sempre dai lavori del citato convegno, ovviamente ignorato in quanto non “notiziabile”: in quasi tutte le carceri italiane il numero dei detenuti è tornato oltre la capienza regolarmente, anche se resta ancora al di sotto della tollerabilità massima. In sintesi, non sarebbe ancora emergenza da sovraffollamento, ma ci si sta avviando a grandi passi. La capienza complessiva delle carceri italiane è di 42.974, mentre la “tollerabilità” massima è stata fissata in 63.406 presenze, circa un terzo in più rispetto ai posti disponibili. Attualmente i reclusi sono 55.960, e il loro numero cresce di giorno in giorno. Nei prossimi mesi la situazione sarà identica a quella pre-indulto con un sovraffollamento insopportabile da tutti i punti di vista, a cominciare dall’assistenza sanitaria e della tutela del diritto alla salute per le persone detenute.
Le donne recluse nelle carceri italiane sono 2.536; oltre un terzo si trova nel Lazio (435) e in Lombardia (570). Una sola regione italiana, la Valle d’Aosta, non ha donne nelle proprie carceri. I bambini al di sotto di tre anni che vivono negli istituti di pena con le madri oscillano tra i 70 e gli 80. La maggior parte è costituita da figli di immigrate. Tra le donne, la diffusione delle malattie infettive è meno allarmante che tra gli uomini. Tuttavia, anche a causa della presenza dei bambini nei reparti, il tasso di vigilanza, dicono gli esperti, va innalzato.
«Essere donna non è facile, mai! Ancor più quando si è donne detenute! Nonostante tutto, l’altra metà del cielo ci appartiene…». Sono le prime parole che si leggono sulla controcopertina di Lisistrata incatenata. Da Le Mantellate ai giorni nostri. Mezzo secolo di sopravvivenza carceraria al femminile, libro curato da Francesco Ceraudo, presidente dell’AMAPI, l’associazione che riunisce i medici penitenziari italiani, con prefazione di Adriano Sofri e interventi del garante dei detenuti di Firenze Franco Corleone e dell’assessore alla Salute della Toscana Enrico Rossi (Archimedia communication). 157 pagine, molte fotografie sulla vita carceraria della dona nel decennio 1950-60, Lisistrata incatenata affronta le tante problematiche nel quotidiano della detenzione al femminile: dati sulle caratteristiche delle detenute, sul loro grado di cultura, la situazione familiare, testimonianze di donne in gran parte detenute nel carcere veneziano della Giudecca.
«Il Centro clinico di Buoncammino di Cagliari, contrariamente a quanto sostengono i medici della struttura, può accogliere adeguatamente un detenuto, ammalato in fase terminale, al quale non sono praticabili cure. L’ordinanza dei giudici della sezione penale feriale della Corte d’Appello di Cagliari è di quelle che fanno riflettere e lasciano perplessi». È quanto sostiene il consigliere socialista Maria Grazia Caligaris, componente della commissione diritti civili, dopo aver letto le motivazioni con cui è stata rigettata l’istanza dell’avvocato Fernando Vignes per il ricovero, in adeguata struttura sanitaria esterna, di Antonino Loddo, affetto dalla malattia di Charcot-Marie Tooth, che ha raggiunto «uno stadio avanzato irreversibile».
Prosegue Caligaris: «È possibile che gli aspetti relativi alla ‘pericolosità’ sociale di un cittadino ancora in attesa di sentenza definitiva, siano elemento esclusivo nella valutazione di una vicenda umana che travalica il tipo di reato, per quanto grave possa essere? Non siamo di fronte a una richiesta di scarcerazione facile con il presunto reo che possa reiterare i reati di traffico, detenzione e spaccio di ingenti quantità di sostanze stupefacenti che gli vengono addebitati. È possibile che non si tenga conto che il detenuto in fase terminale è padre di un bimbo in lotta per sopravvivere dopo il trapianto di midollo e che la vicinanza dei familiari in una struttura sanitaria può essere più assidua ed efficace che non le visite in carcere con i disagi che comportano?»
Il carcere di Pianosa diverrà la prima struttura detentiva italiana destinata alla sperimentazione delle cosiddette “stanze dell’affettività”, ovvero luoghi dove i detenuti potranno avere momenti di intimità con i propri partner. Lo fa sapere Maria Pia Giuffrida, dirigente regionale del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. «Il problema della sessualità in carcere, già affrontato in molti paesi occidentali, vede l’Italia in forte ritardo dopo che, circa dieci anni or sono, l’allora direttore generale del DAP Michele Coiro, dette disposizione a tutti i direttori dei penitenziari di predisporre spazi destinati a questa funzione. Il carcere di Pianosa ospita, attualmente, solo detenuti in regime di semi-libertà».
Valter Vecellio
(da Notizie radicali, 24 settembre 2008)