[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per averci messo a disposizione il testo di questo suo intervento a un incontro di presentazione svoltosi nel settembre 2007 del suo romanzo Il giudizio di Morna, Stelle Cadenti, 2007.]
Il libro in questione, un romanzo breve, è una fiaba con tracce di tecnologia, science-fantasy direi, perché le atmosfere ricordano più la fantasy che la fantascienza, ma quando ci sono alieni, altri pianeti, eccetera la classificazione usuale è fantascienza. Qualcuno pensa sempre che scrivere all'interno di un genere sia più facile rispetto a quella che viene definita “vera” (virgolette) letteratura, ma onestamente io non ho mai trovato nulla di quel che ho letto che non potesse essere classificato in un genere o un altro. Dal romanzo storico a quello d'azione, dal giallo al rosa, dal saggio al libello, si tratta solo di che scatola di attrezzi decidi di usare: se poi li userai bene o male quello è un altro discorso.
Nessuno si sognerebbe di dire che Mary Shelley, la creatrice di Frankenstein, o George Orwell, o Verne, o Butler, o Vonnegut o Tolkien siano autori da poco perché hanno prodotto le loro opere migliori all'interno dei generi fantasy e fantascienza.
Allora, questa classificazione, le convenzioni relative a questo genere, sono, per me che scrivo, semplicemente l'attrezzatura che sto usando per dare forma a quel particolare tipo di storia. Ho qualcosa da costruire e decido che quella scatola di attrezzi è per me il modo migliore di farlo. Inoltre, personalmente, per me sarebbe molto più facile scrivere nel tempo presente della situazione presente: dello scenario non sarei costretta a spiegare quasi nulla al lettore, mentre, se decido di inventare un paio di altri mondi, devo inserire nella narrazione tutte le informazioni utili affinché il lettore vi si trovi a proprio agio, e devo farlo senza intaccare il ritmo della storia, presentandole in modo che non appesantiscano la narrazione, eccetera.
Quello che intendevo costruire, sei anni fa (perché il libro ha sei anni) con Il giudizio di Morna era una doppia riflessione: sull'incontro con le differenze e sul linguaggio, che sono due temi che mi interessano molto. La questione della differenza è un punto cruciale in molte delle situazioni di crisi che ci troviamo a vivere, nel mondo reale, ma dal punto di vista della scrittura ciò a cui io sono interessata è quella che definirei “crisi cognitiva”, e che si presenta spesso nell'incontro con l'alterità.
I due personaggi principali hanno questo problema: appartengono letteralmente a due mondi diversi, quindi le loro lingue sono diverse (e difatti entrambi spesso non hanno le parole per dire quel che intendono) e sono diverse le metafore attraverso cui interpretano e leggono il mondo. E qui devo fare una piccola digressione dal racconto per spiegarmi meglio.
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Come sapete, il cervello umano funziona in due modi: per pensiero logico, categorizzazione, valutazione, e per pensiero analogico, connessione, analogia, metafora. Un buon numero di ricerche hanno confermato che siamo molto veloci e bravi ad usare il secondo tipo di pensiero, spesso più di quanto lo siamo nel pensiero logico. Questo nostro pensiero duale, diciamo così, è inserito in cornici culturali: storiche, linguistiche, e così via, e lavora all'interno di schemi. Uno schema è un codice mentale utile a fornire la rappresentazione delle esperienze, e include regole e categorie che danno “significato” al flusso dei dati sensori. Lo schema non è la memoria di una specifica esperienza, ma il riassunto e il distillato di molteplici esperienze. Anche non nostre. Alle nostre si sommano quelle che ci sono state raccontate, o che abbiamo visto in tv o letto in un racconto. Gli schemi ci aiutano ad interpretare il mondo in cui viviamo, a dare una nostra teoria sulla natura della realtà. Ogni schema ovviamente enfatizza dei tratti e ne sminuisce altri, costruendo metafore che interpretano la realtà in cui viviamo. In questo processo, la nostra mente, di fronte alla situazione nuova, cerca dapprima un'esperienza identica: se non la trova, ne cercherà qualcuna che contenga alcuni tratti similari. Se non trova neppure un'esperienza di questo tipo, inventa, ma quest'ultima situazione è più rara. C'è sempre qualcosa con cui possiamo fare delle analogie. Quando trova l'idea che cerca, la mente la connette alla nuova situazione, e se lo schema suggerisce dei responsi alla situazione, li applicherà quasi istantaneamente, e in modo che diremo “istintivo”, anche se è largamente appreso.
Il primo responso nei confronti di ogni cosa nuova che ci troviamo davanti è in effetti un pre-giudizio, un'opinione priva di conoscenza reale dei fatti. In lingua italiana la parola “"pregiudizio” ha una connotazione ampiamente negativa, e viene usata quasi esclusivamente per delineare un'opinione non favorevole. In realtà, positivo e negativo sono solo due degli attributi che un pregiudizio può presentare, e noi pre-giudichiamo (giudichiamo prima di conoscere) in tutta una serie di situazioni senza che questo comporti necessariamente l'evoluzione del pregiudizio in discriminazione o ricerca del capro espiatorio e così via. Perché avvenga questo passaggio è necessaria la presenza di altri fattori, come la pressione sociale, l'adesione stretta ad un sistema ideologico, il timore di essere respinti da un gruppo o catalogati in un altro, eccetera. Il rischio di restare “chiusi” nei pregiudizi aumenta in situazioni di instabilità (economiche, politiche, sociali), quando perdiamo la fiducia nella nostra capacità di creare senso, significato, e tendiamo a non lasciare spazio a dati che potrebbero modificare la nostra percezione della realtà. Il giudizio prematuro, se vogliamo chiamarlo così, molto più spesso è solo una sorta di “tappa fluttuante” verso la conoscenza, un punto non fisso durante il viaggio che ci conduce all'incontro con l'Altro: qualcosa che crediamo di sapere ma di cui non siamo certi, qualcosa che sappiamo cambierà quando vi aggiungeremo altri dati.
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Nel mio racconto tutto questo è evidente a più livelli: nell'interazione fra i due personaggi principali, un umano e un'aliena che devono entrambi venire in qualche modo a patti con ciò che credono di sapere l'uno dell'altra e viceversa; nella crisi dell'assetto politico del mondo fantastico in cui essi si muovono, in cui svariati altri personaggi si aggrappano ciecamente a cio' che credono di sapere della situazione e precipitano nei propri pregiudizi, oppure accettano la possibilità di un'interazione con l'alterità, e quindi accettano la possibilità del cambiamento; ed è evidente nella stessa percezione del lettore, credo, perché le persone che io descrivo tendo a renderle il più possibile “vere”: perciò hanno dubbi, si dibattono in contraddizioni, non seguono percorsi lineari, fanno errori e così via. L'incontro con l'Altro porta inevitabilmente con sé un cambiamento, e accettare questo è lo scoglio principale oltre cui i miei personaggi devono andare. E credo sia un'esperienza che in molti abbiamo fatto. Solo che in realtà, se ci riflettete, il cambiamento è la chiave della nostra esistenza come esseri umani, e non dovrebbe comportare le overdose di paura che spesso comporta. Nessuno di noi resta uguale a se stesso, giorno dopo giorno, e tutti noi lavoriamo ogni giorno per conseguire dei cambiamenti nella nostra vita.
È anche vero che il cambiamento, anche il più desiderato, comporta sempre un certo grado di ansia, di insicurezza, che è in relazione diretta a quante informazioni abbiamo e a quanto le giudichiamo attendibili. Chiunque abbia avuto un figlio, per fare un esempio, sa di cosa parlo. Un bimbo può essere atteso con enorme affetto e desiderio, e in tale attesa però vi sono numerose preoccupazioni, dalla più banale (sarà sano, andrà tutto bene) alla più aleatoria, se volete, che è “che persona sarà” questa persona nuova, che rapporti avrà con me, e così via. Su questi aspetti noi non abbiamo certezze, e questo ci rende insicuri. La percezione della sicurezza è in realtà, per il nostro cervello, la percezione di un certo grado di “prevedibilità”: ti può piacere l'avventura, e incontrare persone nuove, ma vuoi anche sapere che domani il sole si alzerà come tutti i giorni e l'autobus sarà al suo posto alle 8 meno un quarto.
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Questa prevedibilità si sgretola progressivamente, per il protagonista del racconto, mano a mano che il suo viaggio con l'aliena prosegue. L'espediente che muove il racconto, il viaggio appunto, è uno dei più usati, e a me serviva non tanto, o non solo, per descrivere l'ambiente in cui i personaggi vivono, ma soprattutto come pretesto e contrappunto per il viaggio interiore del protagonista. Per narrare la storia, infatti, ho adottato il suo punto di vista. È il punto di vista di un giovane uomo nato e cresciuto in una società pesantemente basata sulla guerra e sull'appartenenza tribale, una società che dall'esercizio delle armi deriva gerarchie sociali, rituali, abitudini, modi di rappresentare il mondo. In questo contesto, la cosa più importante per lui è l'onore del guerriero, qualcosa che definisce il suo rango, e il suo posto nel mondo, e che gli è stato tolto a causa di un errore durante una battaglia. Nel momento in cui lo incontriamo, questo giovane non ha messo in discussione nessuno dei crismi su cui la sua società si regge: non ha dubbi, ha accettato persino la sentenza che lo ha ridotto ad uno schiavo, anche se temporaneamente, e spera di aver l'occasione di riguadagnare la propria posizione (giacché questa è una possibilità insita nella sentenza che ha subito). Il problema della comunicazione è il primo che gli si presenta nel suo incontro con questa persona diversa, totalmente, da lui. Una persona che viene da un altro mondo, la cui forma fisica è inquietante, ed il protagonista la registra visivamente come una mistura fra umano e animale, e per di più questa persona diversa, questa straniera, è gravata da leggende, miti, e persino da dati storici, che la descrivono come incommensurabilmente malvagia, una distruttrice crudele, un demonio.
Questo è ciò che il giovane uomo sa di lei. Le sue paure, durante l'incontro, sono del tutto giustificate. L'aliena, però, gli chiede di ascoltare altro. Gli dice più o meno: Tu credi di sapere delle cose su di me, ma io voglio darti altre informazioni, se intendi ascoltarle. Il primo passo di una comunicazione efficace, sostanzialmente, è l'ascolto. E l'aliena mette subito in chiaro anche qual e' il limite della conversazione che si sta dando fra loro, ovvero il fatto che lei si esprime in una lingua diversa dalla propria, quella del luogo in cui si trova, e quindi molti termini, dice, le mancano.
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Ora, chiunque fra voi abbia mai appreso un'altra lingua, oltre quella materna, e abbia tentato di tradurre dall'una all'altra, sa che la cosa è più complessa di quel che appare, anche quando le due lingue condividono molti elementi di base, o hanno una comune origine. Non si tratta semplicemente di sostituire delle parole con altre parole ad esse equivalenti, e magari di maneggiare un po' l'ordine degli elementi grammaticali che compongono una frase. Perché le lingue umane sono il prodotto del desiderio di comunicare all'interno di condizioni specifiche: riflettono sempre, oltre al tentativo di descrivere il mondo, una visione del mondo stesso. I linguisti dicono che il linguaggio umano è un attrezzo paradossale, ed hanno ragione, se ci pensate: è una cosa che forma i pensieri e le attitudini nel mentre viene usato per dar loro espressione. Ed è un attrezzo potente, perché è rivestito di enorme e plurima carica simbolica. Non a caso potete esaminare storicamente ogni vicenda che comporti l'occupazione di un territorio da parte di un popolo venuto da fuori, e vedrete che spessissimo una delle prime mosse degli occupanti è quella di sostituire la lingua locale con la propria. Per farvi un esempio europeo recente, fino agli anni '50 dello scorso secolo era ancora possibile vedere in Francia cartelli con su scritto “È vietato sputare per terra e parlare bretone”. O per andare più indietro i bardi gallesi, per quattro secoli a partire dal XV, furono soggetti a pene detentive e pecuniarie, da parte del governo inglese, solo perché componevano poesie nella propria lingua (e chiunque parlasse gallese era comunque escluso dalle cariche pubbliche). Quando non vogliamo che un soggetto, o un concetto, vengano rappresentati sulla scena pubblica, e quindi abbiano potere, una delle prime cose che facciamo e' cancellarli linguisticamente. Nel dialetto parlato dai talebani non esiste la parola “donna”: potete dire di che uomo è figlia o madre o sorella, e quindi definire questa persona a seconda delle relazioni che ha con un uomo, ma non potete definirla come persona a sé stante, come qualcuno che ha un posto al mondo per il semplice fatto di esistere.
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All'inizio vi ho citato Orwell, se ricordate.
La prima cosa che lessi di lui fu 1984, credo di aver avuto 15 anni, quindi era un secolo fa... Probabilmente conoscete la storia, che tratta di un futuro in cui sistemi oligarchici e tirannici usano la guerra come sistema per mantenere lo status quo: razionamenti e limitazioni, di risorse e di libertà individuali, ed una condizione perenne di timore e oppressione, vengono giustificati con il nemico esterno e le dure necessità del conflitto. 1984 è un'anti-utopia, un romanzo cupo che ha parecchie scene scioccanti, o “dure”, se volete, però la scena che all'epoca della mia prima lettura mi sconvolse non presentava aspetti di violenza clamorosa, tipo le scene di tortura del protagonista, che pure ci sono. No, quello che fece paura a me fu la descrizione di una conversazione fra Winston Smith, il protagonista, ed un suo conoscente, il cui lavoro consisteva nel rimodernare il vocabolario nazionale. Questo tizio dice al protagonista, in sostanza, che la sua occupazione è cancellare parole. Il vocabolario è più ristretto ogni anno che passa. Ma non si tratta solo di questo, aggiunge: anche i differenti concetti che una parola puo' suggerire sono sempre meno. Presto, conclude, la parola “libero” potrà essere usata solo in frasi del tipo “questo cane è libero da pulci”, ma non servirà più a definire “libero” un individuo.
Orwell era assai conscio, come scrittore, del potere della parola. E molto di quel che aveva individuato nel 1948, quando terminò il romanzo, sulle tendenze presenti nell'uso del linguaggio, lo abbiamo sotto gli occhi oggi. Senza fare paragoni irriverenti, perché il mio breve romanzo non ha com'è ovvio assolutamente la portata di questo, il problema dell'avere e del non avere le parole me lo sono posta anch'io. Diventa una questione centrale, per il mio personaggio principale, mano a mano che le sue convinzioni si modificano, che la sua lettura del mondo cambia. Può il suo onore essere definito dalla lealtà a dei principi di equanimità e giustizia, piuttosto che dall'attenersi alle convenzioni del guerriero, che gli dicono solo di chiamare “nemico” chi i capi tribali hanno definito tale? L'affetto che finisce per provare per l'aliena, una creatura così diversa da lui ha un nome, e quale? E qual e' il suo stesso nome, chi è lui, ora che le esperienze e l'ascolto lo hanno cambiato?
Ecco, dato che per dirvi tutto questo sarei costretta a parlare per un'altra mezz'ora, e io vi voglio bene, non lo farò. Se siete interessate e interessati a saperlo sarete costretti a leggervi il libro, che può essere letto senza minimamente far caso, se preferite, a quello che c'è fra le righe, e che io vi ho raccontato oggi. Potete leggerlo semplicemente come un racconto di viaggio, con i suoi colpi di scena e le sua corsa, perché ho inteso deliberatamente non porre freno all'azione, per tenere il lettore con me il più a lungo e nel modo piu' interessante possibile.
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Mi resta da dirvi, credo, perché faccio questo, perché racconto storie. In sintesi, è perché le storie che sappiamo raccontare contribuiscono a determinare che tipo di vite viviamo. Quando raccontiamo una storia costruiamo un'esperienza, a seconda delle convenzioni interpretative a noi disponibili, e degli incentivi interiori ed esteriori che ci spingono a farlo. Le forme che le storie prendono non sono casuali. I ruoli che assumiamo nelle nostre vite sono grandemente modellati su come gli altri ci hanno raccontato delle storie, e su come noi raccontiamo storie: a noi stessi e agli altri. Le storie contengono un sacco di suggerimenti: su cosa siamo, su cosa dovremmo fare in determinate situazioni, su cosa ci si aspetta da noi.
Questo piccolo libro è il mio umile suggerimento su cosa si può fare, invece di buttarsi da una finestra o di imbracciare un mitra, quando ci presentano al diavolo. Forse non è brutto come lo si dipinge. E forse neppure noi esseri umani siamo brutti come spesso crediamo di essere, così incapaci di maneggiare situazioni diverse o difficili. Forse dovremmo riflettere su chi ci ha detto questo di noi, e spesso scopriremo che si tratta di qualcuno che tramite le parole non vuole comunicare con noi, ma mantenere del potere su di noi.
Maria G. Di Rienzo
(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, 22 marzo 2008)