Qualcuno, timidamente, l’aveva sussurrato nei cofee break dei convegni internazionali di alta finanza, qualcun altro osava di più, dicendolo fra le righe dei suoi saggi paludati, altri ancora lo pensavano ma se ne vergognavano quasi.
Finché due premi Nobel per l’economia, Amartya Sen e Joseph Stigiltz, hanno detto chiaramente che non si tratta di un dogma: «una riduzione del PIL del 5 o del 10% non è certo una calamità, se fa seguito a decenni di analoghi tassi di crescita annuali» (Sen, 2002); «il PIL si è trasformato in una autentica fissazione per gli economisti» (Stigiltz, 2001). Già si era consapevoli da tempo del fatto che crescita continua non significa di per sé benessere, né garanzia di stabilità né qualità superiore della democrazia. Ma la novità è che anche dal punto di vista della teoria economica e delle scelte di mercato si comincia a mettere in discussione la divinità del PIL.
Tra coloro che in Italia hanno approfondito il problema della conciliazione di economia e giustizia è da ricordare il Prof. Renato Briganti, docente di Diritto della cooperazione e di tutela dei diritti umani presso l’Università di Napoli (da ultimo in una relazione al 2° incontro della Scuola di Pace di Senigallia, “Per una economia di giustizia”, 18 gennaio 2008), ma anche una larga parte del mondo associativo ed artigiano, delle attività no profit, dei produttori ‘di nicchia’, sperimenta ogni giorno la necessità di un approccio allo sviluppo meno competitivo, meno legato ai budget e al profitto.
Credo che alla fine i mercati si troveranno a reagire in modo diverso dall’attuale alle notizie di rallentamento dell’economia. Succederà quando sarà accettato, anche psicologicamente, il vincolo rappresentato dalle stime definitive delle riserve petrolifere; quando gli stili di vita terranno stabilmente conto dei vincoli di solidarietà e di risparmio energetico; quando il problema della salute (individuale e ambientale) sarà talmente centrale che influenzerà in modo determinante anche il rapporto fiduciario della rappresentanza politica. L’opinione pubblica, e gli stessi mercati, chiederanno allora una produzione più coerente con il contesto dei valori e delle priorità appena accennati ed una spesa pubblica più orientata al welfare e al controllo degli sprechi; diventeranno strategiche molte attività oggi marginali o ausiliarie, si metteranno in moto giganteschi meccanismi di riconversione industriale e commerciale, si creeranno nuove abitudini e nuove garanzie nei consumi di massa.
Allora, in un tale scenario, non ci meraviglieremo più se alla notizia di un decremento della crescita del PIL gli indici delle Borse, anziché afflosciarsi, saliranno.
Antonio Fiori