Rimeditazioni
Sono un ammiratore del Presidente Ciampi, ma sull’inno non sono d’accordo  
Del povero Giovanni Paolo ci sarà tempo di parlare con maggiore pacatezza quando cominceranno a ritirarsi le acque del maremoto mediatico
03 Marzo 2006
 
Anch’io “voglio bene al Papa” vorrei dire con il grande don Primo Mazzolari, dopo aver sopportato con crescente fastidio la grancassa mediatica che ha accompagnato – e direi sopraffatto - l’agonia e poi la morte di Giovanni Paolo II. Fastidio è dir poco. Si è superato ogni limite. Un quotidiano, quello fondato, ma poi rinnegato da Montanelli, è arrivato a scrivere, in morte di Giovanni Paolo II: «Papa nostro che sei nel cieli» così parafrasando la più bella e più cara delle preghiere, uscita dalla bocca stessa di Gesù e tramandataci dal Vangelo. Quasi come a dire al Padre eterno, titolare del posto: “fatti in là, perché arriva uno più importante”.
Si è distinto sopra tutti quel ciambellano di corte che risponde al nome di Bruno Vespa. Se fosse possibile inviterei innanzitutto gli oppositori, ma anche i suoi, a non cadere nelle sue panie. È toccato agli organi più direttamente e intimamente interessati, quali L’Avvenire e, niente meno, L’Osservatore Romano, di fornire un esempio di moderazione che si traduce anche in un invito al senso della misura.
Di lui, del povero Giovanni Paolo, ci sarà tempo di parlare con maggiore pacatezza quando cominceranno a ritirarsi le acque del maremoto mediatico momentaneo.
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Sono un ammiratore del nostro Presidente della Repubblica, il toscano Carlo Azeglio Ciampi. Lo ammiro anche per le difficoltà crescenti in cui si trova a svolgere il suo alto compito. Apparteniamo oltretutto alla stessa trafila generazionale. Su un punto tuttavia non mi trovo d’accordo: la sua passione per l’inno nazionale, quel “Fratelli d’Italia” di Goffredo Mameli. Ne capisco le ragioni: far vibrare le corde di un maggiore sentimento patriottico e di unità, ora a rischio, fra gli italiani. Un’impresa generosa ma improba. A parte il fatto che le diversità possono costituire una ricchezza se prese nel giusto modo (le disuguaglianze se mai sono da combattere), il guaio è che l’inno è brutto, così saltabeccante e privo di solennità, soprattutto se paragonato agli altri inni nazionali, almeno a quelli del mondo occidentale (degli altri non posso dire niente perché non li conosco).
Io mi ricordo bene di quando, caduta con il re di maggio Umberto II la monarchia, e divenuta improponibile la Marcia Reale, ci trovammo senza inno nazionale e si ripiegò provvisoriamente sul Mameli, in attesa di porre mano a un inno degno del nome e della storia anche musicale di un paese come il nostro, che, dopo tutto, non comincia e non finisce col Risorgimento.
Se poi andiamo a vedere il testo, poveri noi: quel “elmo di Scipio” di cui la povera Italia eroicomicamente “si cinge la testa”, quel “dov’è la vittoria, le porga la chioma” quel “schiava di Roma”.
A queste critiche è opportuno far seguire una considerazione di carattere più generale: noi italiani siamo incapaci di nutrire per il nostro paese un amore, per così dire, normale, naturale. Siamo continuamente o alternativamente sballottati tra lo sprezzo (porca Italia era un’interiezione frequente sulle labbra dei nostri nonni) e l’esaltazione nazionalistica.
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Queste note vedono la luce a celebrazione ormai trascorsa del 25 aprile. Una data a me, e a padre David Maria Turoldo, molto cara avendo vissuto dall’interno e giocato una certa parte nelle vicende che l’hanno preparata. Vicende durante le quali il convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo a Milano, dove eravamo approdati nel 1941, aveva finito per diventare un centro di attività legate alla Resistenza. La fuga, dopo i grandi bombardamenti dell’estate del ’43, dei nostri confratelli più anziani, ci aveva lasciati liberi di decidere a nostro piacimento.
Il ricordo è reso amaro da ciò che l’ha di poco preceduta: il voto al Senato che ha maciullato la nostra Costituzione. Anche di questo si dovrà riparlare. Per intanto ho aderito al movimento per la difesa della Costituzione. Con una precisazione: difesa non vuol dire irriformabilità delle parti rese caduche dal trascorrere degli anni e dalle grandi trasformazioni intervenute nella nostra società.
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In queste ultime settimane è venuto in primo piano il tema dell’accanimento terapeutico: staccare o no la spina e, di conseguenza, a chi tocca deciderlo. Sembrerebbe a prima vista ragionevole l’affermazione di chi dice che in questo campo non dovrebbero metter mano gli organi del potere pubblico: parlamento, governo, ma il fatto è che in questo genere di cose non possono non entrare in gioco le fedi, le appartenenze ideologiche, le visioni del mondo, i modi di concepire la vita e la morte. Mi piace ricordare, a questo proposito, il caso di un eminente sacerdote della nostra diocesi che chiese e ottenne la fine dell’accanimento terapeutico sulla propria persona e poco dopo si spense in pace.
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Nella prima puntata, in gennaio, di queste rimeditazioni, riferendomi ad uno scritto dove Aldo Bonomi, al rientro dalla sua trasvolata sulla Città infinità, scopriva, o riscopriva, il quartiere, il tutto all’insegna del “bisogno di comunità”, gli indicavo la realtà molteplice delle parrocchie, quelle milanesi innanzitutto, tornate a una nuova vitalità dopo il relativo oscuramento dovuto agli anni da una parte della contestazione e dall’altra dello sviluppo abnorme della città (infinita appunto).
Quale realtà più rispondente al concetto di comunità di una parrocchia, forse il comune, forse i partiti, forse le corporazioni, forse i sindacati?
Da una di queste parrocchie, quella di S. Giovanni in Laterano, una parrocchia a me cara per ragioni familiari, ci viene ora per i tipi delle edizioni Servitium, una Via Crucis di straordinaria originalità e bellezza (quante riscoperte ci riserva il mondo religioso): testo di uno dei protagonisti della vita pastorale milanese, grande allievo di Martini e notevole poeta, don Angelo Casati e immagini del nostro Valerio Righini. Ci tenevo a segnalarla.
 
Camillo de Piaz
(da Tirano & dintorni, maggio 2005)

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