ODE AL VENTO MARINO NEL TEMPIO
DI NETTUNO A PAESTUM
Che luogo è questo? Quale Dio lo fa sacro?
Dall’Edipo a Colono, di Sofocle
Dov’è più quell’arcana presenza per cui fosti eretta,
dimora dalle molte colonne possenti, perfetta?
Nell’aperto silenzio, da rade cicale intaccato,
trasvolano immensi cirri… Del nume è il possente fiato
che a radere ritorna da ondosi orizzonti le antiche
soglie dove arroganti spuntano sterpaglie ed ortiche,
o è un vento moderno, la cui voce di scordata cetra
atei lamenti effonde in un vacuo teorema di pietra?
Mutano la vita, anima mia, luoghi come questo...
Non specchiarti in un secolo ad ogni grandezza funesto,
ma guàrdati intorno: è un prodigio che, dall’eterno cielo
disceso in terra, agli occhi della mente toglie quel velo
di abitudini stanche, di frasi ridette, di affanni
per stringere un pugno di cenere ai precipiti anni.
Guarda! Non fu illusione agognare una sacra bellezza,
credere vita vera non quella che crolla in vecchiezza,
ma l’inno che disgorga dal cuore granito di astri,
e che un cerchio non è, nostra sorte, di lutti e disastri
se arrivare può a tanto, tocca!, la tua mortale mano,
come sui piedi ergendosi a sforzo il semidio tebano
colse l’esperide pomo più alto, più luminoso.
Dentro di te respiro il sublime, o sacrario corroso:
ecco, assoluto è il silenzio, ed è come un canto inaudito
che trascorre per queste colonne, vivente, infinito.
L’anima ali m’involano a plaghe altissime, ebbre
di luce che penetra il cuore come un soffio di febbre, e
poi che beata è l’iperbole a inattingibili forme,
si ripiega, ed esangue ritorna alle terrene orme,
nella crisalide assorta di un cristallino sgomento:
immobili le nubi, né oscilla più l’erba, e c’è il vento!
SEGESTA
A Lucio Zinna
Tra le agavi spade (cicale! cicale!)
saliamo a Segesta la brulla collina
spalancata alla perpendicolare
potenza del Sole, che l’agire umano,
quando innalza la testa,
azzera in questo cranio di rocce.
E appare, sepolcro di secoli,
il tempio, non rotto, interrotto,
gli enormi cilindri calcarei
mai più scanalati in colonne,
i gradi con bozze o bubboni
che mai non tranciò lo scalpello.
O Forma discesa da gloria mentale
e mai dalla mano qua resa perfetta,
le tue pietre sovrapposte sorreggono
un cielo pesantissimo d’oblio,
troppo azzurro, inesausto di luce
che abbacina e opprime le ciglia.
E al vuoto varchiamo d’intatto silenzio,
percossi dal fulgore meridiano
che d’ombre titaniche sbarra
lo spazio ov’ebbe mai dimora un Dio,
per quella fraterna ferocia
che un sogno infranse di sacra bellezza.
O forse è ancora da compiersi il Fato
qua dove tutto è assenza
che feroce luce impiaga d’attesa?
L’opera eretta e troncata
è recinto preistorico al silenzio,
grida: divinità! divinità!
Tra illese rovine si aggirano
babelici pellegrini di memorie,
e si mettono in posa, flaccide statue,
sulla tua cariata eternità,
in uno stordimento di cicale,
tra le ossa della Storia erette al nulla.