Jacobo Machover
Cuba - Totalitarismo tropicale
Ipermedium libri, pagg. 140, € 12,50
Jacobo Machover è nato all’Avana nel 1954 ed è tra quelli che non può farci ritorno, magari è più fortunato di altri perché vive in Francia dal 1963, è professore universitario, scrittore, giornalista e traduttore. Sente la nostalgia dell’esule, ma impiega il tempo scrivendo per Libération e Le Magazine littéraire, ma pure per Diario 16 e Cambio 16. Il giornalista Guido Vitiello introduce un’opera importante tradotta da Giovanni Giglio mettendo in evidenza quanto sia difficile in Italia far conoscere il vero volto di Cuba, perché l’informazione è monopolizzata da chi diffonde solo veline di regime. Tutto vero, al punto che Vitiello non cita neppure uno dei miei libri su Cuba, scritti per dire le stesse cose che afferma Machover e per contrastare una pubblicistica monopolizzata da Gianni Minà e Frei Betto. I volumi editi dai piccoli editori non sfondano il muro di gomma e non serve a niente vendere cinquemila copie di un libro sincero, se dall’altra parte si diffondono menzogne in centomila copie.
Spero che a Machover non accada la stessa cosa e che il pubblico italiano legga in massa Totalitarismo tropicale, un libro che ricostruisce in sintesi la vera storia della rivoluzione cubana spingendosi fino al periodo speciale. Leggendo alcuni passi ho trovato considerazioni che sottoscrivo come fossero mie e affermazioni importanti sul futuro di Cuba. Machover parla del dopo Castro, definisce Raúl soltanto un clown intrigante e poi rincara la dose: Raúl non ha l’abilità né l’autorità del fratello maggiore. Tutti sanno che è alcolista e gravemente malato, ma è l’unico in grado di assicurare la continuità all’interno di una famiglia profondamente spaccata dall’esercizio del potere e dalle divergenze politiche. In ogni caso è proprio lui che vorrebbe un socialismo più democratico, ma non ha la forza per realizzare nessuna transizione verso il futuro. Ce ne sono anche per il resto della corte dei miracoli fidelistici. Felipe Pérez Roque è colui che sa interpretare meglio il pensiero di Fidel, un personaggio insipido e volgare, conosce a menadito il linguaggio del regime e ha una capacità smisurata di attribuire tutti i mali della società cubana all’imperialismo. Carlos Lage è il meno peggio, una persona più brillante che si è fatta una posizione con la legalizzazione del dollaro e lo sviluppo del turismo. Carlos Lage è l’uomo che ha salvato Cuba dalla distruzione dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica. Ricardo Alarcón è l’uomo degli eterni ritorni, uno della vecchia generazione.
Sulla vera storia della rivoluzione cubana Machover dice cose per me risapute, come le barbare esecuzioni alla Cavaña capitanate da Che Guevara, ma credo che i lettori italiani non abbiano avuto modo di leggere spesso certe considerazioni. Non è tutto oro quel che luccica e forse a Cuba l’oro non c’è mai stato, perché la rivoluzione non è degenerata in un momento preciso della storia, ma fin dall’inizio il frutto era bacato. Il castrismo non è solo una variante sui generis del sistema comunista, né il prodotto della megalomania tirannica di un solo uomo. È soprattutto il laboratorio di un totalitarismo tropicale, che si è mantenuto così a lungo al potere grazie all’indulgenza complice di intellettuali, politici, creatori d’opinione: di tutti quelli che non hanno mai voluto vedere che dietro l’illusione romantica si nascondeva la tragedia di un popolo intero. Machover distrugge anche i miti gianniminaistici di istruzione e sanità, perché la prima è indottrinamento e la seconda non è egualitaria. L’università può essere frequentata solo da chi dimostra una provata fede rivoluzionaria, gli ospedali per poveri sono sporchi e fatiscenti, la sanità funziona solo per i ricchi stranieri che si curano a Cuba. Machover parla del progetto Varela, di una richiesta sacrosanta di libere elezioni, della primavera nera del 2003 con arresti in massa di scrittori e giornalisti colpevoli solo di manifestare il proprio pensiero. Verrebbe da riassumere tutto il libro per quanto mi è piaciuto e per come lo considero utile alla causa cubana. Machover cita l’intimazione di Fidel agli intellettuali di muoversi solo all’interno del solco rivoluzionario, parla delle Umap per antisociali, del caso Ochoa, condannato con la scusa della droga ma in realtà tolto di mezzo perché insidiava il potere del caudillo e per simpatie gorbacioviane. Machover racconta il caso Elian, le feroci esecuzioni dei disperati che scapparono a bordo della lancita di Regla, le fughe dei ventisettemila balseros nel 1994 e i troppi morti per naufragio. Gli esuli cubani nel mondo sono oltre due milioni e in quarantacinque anni di castrismo il popolo cubano è diventato un popolo errante.
Si conclude con il pericolo Chávez, per il momento fermato dal suo popolo sulla via della costruzione di un socialismo del ventunesimo secolo, ma sicuro erede del castrismo. «A Cuba chi si oppone alla dittatura è in carcere o al camposanto», sostiene Oscar Arias, presidente del Costa Rica e Premio Nobel per la pace. Per questo, nel 2006, Arias ha rifiutato di ricevere Carlos Lage rincarando la dose: «La dittatura cubana è come quella di Pinochet, anche Fidel Castro sin dal primo momento ha avuto i suoi plotoni di esecuzione per giustiziare dissidenti e nemici politici».
Totalitarismo tropicale è un libro da leggere e meditare.
Va da sé che per Latinoamerica non è mai uscito.
Gordiano Lupi