Nuovi narratori italiani
NNI 9. Giulia Evolvi
30 Dicembre 2007
 

Giulia Evolvi nasce a Cantù nel 1985. Cultura classica. Laureata in Lingue e Culture dell’Asia Orientale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Frequenta per tre mesi la scuola Shibuya Gaigo Gakuin a Tokyo. Si sta specializzando in Scienze delle Religioni presso l’Università di Padova. Ama la lettura e si vede da come scrive. Adora gli scrittori francesi, da Dumas (sia padre che figlio) a Pennac, passando per Flaubert. Ama Isabel Allende e Paolo Coelho. Non condivido il secondo ma nessuno è perfetto. Tra gli autori italiani apprezza molto Alessandro Baricco. Io per niente… e quindi lo vedete che sono imparziale, no? Se trovo uno scrittore vero mica m’importa se le sue passioni sono Coelho e Baricco invece di Bianciardi e Cabrera Infante… Molto interessata alla letteratura giapponese: Natsume Soseki, Yukio Mishima e Haruki Murakami. Scrive la tesi di laurea sullo scrittore contemporaneo Ishida Ira. Appassionata di danza classica e moderna, teatro (specie le tragedie greche) e cinema (soprattutto i film di Tim Burton).

Il racconto che presento è scritto di getto, senza particolari ispirazioni. Mette in relazione la ciclicità delle stagioni con il ciclo del Samsara buddhista, e vuole usare come ambientazione la linea ferroviaria Yamanote, che attraversa Tokyo circolarmente e si chiude ad anello. Come lettore e presunto critico, c’ho trovato riferimenti al cinema di Tarantino, alle storie di samurai e Kung Fu, ma trovo il racconto interessante anche come esperimento di fantasy fantastico. Giulia Evolvi ha scritto un romanzo inedito (che stiamo valutando per le Edizioni Il Foglio) dal titolo provvisorio Tre metri sottoterra, con intento parodistico nei confronti del purtroppo noto Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia. Giulia ama Coelho e Baricco ma non sopporta Moccia. Per fortuna! Sta lavorando a uno spin off dal titolo provvisorio di Tokyo sake. Se lei sarà d’accordo, credo che il suo primo libro uscirà con le Edizioni Il Foglio. Secondo me è brava.

Voi cosa ne pensate?

 

Gordiano Lupi

 

 

YAMANOTE

 

Ikebukuro-mejiro-takadanobaba-shinokubo-shinjuku-yoyogi-harajuku-shibuya.

Ikebukuromejirotakadanobabashinokuboshinjukuyoyogiharajukushibuya.

Le stazioni mi saltavano nella testa come una cantilena.

Ikebukuro-ho sonno.

Entro schiacciata tra la folla, mossa dall’enorme massa umana che mi schiaccia dal dietro dal davanti e di lato. Gli omini della ferrovia impeccabili nei loro guanti candidi spingono con discrezione la gente dentro il vagone. Stipati come sardine. Non avrei mai immaginato che tutta questa gente potesse starci in un vagone così piccolo, mi dico mentre sto in piedi grazie ad un impiegato di mezz’età e una signora con una brutta pettinatura che loro malgrado mi fanno da sostegno. La mia borsa è schiacciata contro il mio fianco, sento lo spigolo di un libro battere fastidiosamente contro la mia anca.

Mejiro-ho voglia di un caffè

Un caffè vero, con magari un po’ di latte, e un cioccolatino di fianco. Stamattina ho mangiato riso e gamberetti. Ho voglia di un croissant con la marmellata, o meglio ancora, la nutella. Lasciarmi avvolgere piano dal profumo di pane tostato, e avere la certezza che dentro il pane tostato non troverò uova di pesce, e nemmeno alghe, e nemmeno cipolla. Ho voglia di formaggio che sia formaggio, e non plastica grattugiata.

Takadanobaba-ho freddo.

Maledetta aria condizionata, il bocchettone proprio sopra il mio collo e quello dell’impiegato che mi tiene in piedi. Di fronte a me si piazzano due ragazzine in divisa. La gonna cortissima, le gambe storte, le calze bianche cadenti. Scendono a Shibuya, lo so. Lo capisco dal fatto che hanno la pelle bruciata da troppe lampade, il trucco bianco sugli occhi e i capelli talmente decolorati da sembrare finti. Una delle due ha le unghie lunghe cinque centimetri con attaccate delle farfalle. Dev’essere una scuola molto poco severa la loro, se possono andarci conciate così.

Shinokubo-per oggi non ho studiato.

Cerco di ripassarmi mentalmente gli ideogrammi della lezione. Lo so che al test stamattina farò una terribile figura…mi concentro su due impiegati in equilibrio precario in fondo al vagone. Avranno la mia età. Sono impeccabili in giacca e cravatta, e hanno entrambi una molletta sulla frangia. Serve per tenere la piega, in ufficio la toglieranno. Non sono ridicoli, fanno tanta tenerezza, uno si è addormentato in piedi sfidando ogni elementare regola di gravità, l’altro sta lottando perché gli occhi non si chiudano. Scendono a Shinjuku, sono sicura.

Shinjuku-mi fa male un piede.

La massa umana mi costringe a scendere, e l’impiegato che fino a quel momento mi ha tenuta in piedi mi schiaccia la mia ballerina di vernice. Ahi. Shinjuku è terribile. Metà vagone scende, sono trascinata fuori, risalgo sul treno. Questa volta davanti a me ho una Gothic Lolita. È terribilmente carina e inquietante, un metro e cinquanta di ragazzina e un metro circa di scarpe. Ha una cuffia di pizzo sui capelli neri, la gonna a palloncino blu scuro occupa tantissimo spazio. Mi piace la sua borsa a forma di teschio. Direi che ha quindici anni ma potrebbe averne tranquillamente ventisette. Chissà se torna da un evento gotico.

Yoyogi-è finita la canzone nel mio lettore MP3.

C’è troppa gente perché io possa raggiungere la mia tasca e cambiare canzone, mi limiterò a concentrarmi sugli schermi che ci sono in ogni vagone. Oggi il mio oroscopo dice che è giornata d’incontri. Passano continuamente le immagini di una boy band impegnata a correre e saltare bevendo un integratore salino che va molto. Non ci sono suoni, solo immagini. Nel treno nessuno parla. Molto alienante, e molto bello.

Harajuku-lo vedo.

Eccolo. È molto alto e magrissimo, un soffio di vento se lo potrebbe portare via. I capelli lunghi scendono in ciocche perfettamente ordinate sulla schiena. Un occhio è coperto da un ciuffo striato di biondo, l’altro occhio è truccato di nero. Ha piercing sul labbro e su tutte e due le orecchie, anelli a tutte le dita smaltate. I jeans strappati. La chitarra sulla spalla. Lo guardo in faccia. Gli zigomi appuntiti, le labbra sottili. Anche lui mi guarda. Mi ha riconosciuta.

Ikebukuromejirotakadanobabashinokuboshinjukuyoyogiharajukushibuya. IKEBUKUROMEJIROTAKADANOBABASHINOKUBOSHINJUKUYOYOGIHARAJUKUSHIBUYA.

Non è la prima volta che mi succede, ci sono abituata. Sento la testa girare. Sento le mie percezioni sensoriali abbandonarmi. Tranquilla, tranquilla. Non è nulla. Mi è capitato un sacco di volte. È solo un incontro con una mia vita passata. Solo non mi era mai successo in un treno, con tutta questa gente. Tranquilla, non è nulla.

Per un istante mi si annebbia la vista. Le ragazzine in minigonne inguinali, i vecchi impiegati che sbirciano nelle scollature delle giovani signorine, i bambini in uniforme, scompaiono tutti. Anche il silenzio scompare. Sento le cicale frinire. Riapro piano gli occhi. Eccomi qui. Petali bianchi mi cadono sul volto. Mi tocco piano il viso. Gli occhi mi si sono allungati, e gli zigomi si sono allargati. Sono più bassa, e un pochino più rotonda. Sento la fascia del kimono stringermi la vita, provo una punta di dolore ma mi abituo immediatamente. Mi guardo le mani, tozze, bianche. Sono una ragazzina. “Sei bellissima” mi dice lui. Lo guardo. Anche lui è un ragazzino. Faccia a mezzaluna, frangetta, coda di cavallo. Porta una spadina corta da figlio di samurai. È così carino che non direi mai che sterminerà tutta quella gente una volta adulto. È davanti a me. Vorrei sorridere ma è una cosa molto poco samurai, e io devo onorare la memoria di mio padre. La campana del tempio di Gion riecheggia l’impermanenza di tutte le cose.

Prendiamo a camminare, uno di fianco all’altra, in silenzio. Vorrei dirgli mille cose, ma non posso, lo so. Lo guardo, ogni tanto. Camminiamo lungo uno stagno. Fa caldo, è estate ora. Le carpe guizzano imponenti, sono grosse e mandano bagliori d’oro. Qualcuna di loro avrà la fortuna di diventare un drago. Lui si ferma. Il volto infantile e serissimo si posa sul mio. Istintivamente distolgo lo sguardo e mi specchio nell’acqua. Si, per i tempi sono una bellezza. I capelli neri lunghi fin quasi ai piedi, la pelle bianchissima. Non ho ancora le labbra rosse. “Sono contento che mio padre mi abbia fatto sposare con te” mi dice lui. Ma me l’ha detto davvero o me lo sono immaginata? “Anch’io lo sono” dico io, e anche in questo caso non sono sicura di avere pronunciato veramente le parole o di averle solo pensate. C’è qualcosa di non detto. Qualcosa che vorrei dire ma non posso, non riesco. Le parole mi muoiono in gola. Ricominciamo a camminare.

Qualcosa mi sfiora il volto. Una foglia di momiji. È autunno. Abbiamo giocato assieme, siamo stati ragazzini assieme. Ero così contenta quando l’ho sposato. A quei tempi l’amore non esisteva. Ora vorrei abbracciarlo, però è molto poco samurai. Mi rendo conto che lo sto guardando troppe volte. Dovrei guardare per terra e contare i miei passi sempre uguali nei tabi immacolati. “Tutti ti ricorderanno nei secoli” gli dico d’improvviso. La sua espressione cambia. Si direbbe quasi un sorriso. Annuisce. “Ho sempre pensato a te. Ogni momento, ho pensato a te”. So che non mi mente. So che da bambini mi prometteva che avrebbe unificato ogni feudo. Lui era uno che manteneva le promesse, fino alla morte, parola di samurai. Lui non mi avrebbe mai delusa e io lo sapevo, lo sapevo e per questo ho pregato mio padre fino ad umiliarmi di farmelo sposare. E non mi pento, non mi pentirò mai. È solo per nostro figlio che mi rattristo.

Diventa freddo. Da lontano, ecco stagliarsi da lontano la figura maestosa del tempio Kinkakuji innevato. È Kyoto, perché è qui che sono nata. Anche se poi mi sono trasferita quasi subito. Lui si avvicina a me, ma non mi guarda. Il freddo mi punge il viso. Devo dirglielo. Devo. Lui mi guarda. Sta leggendo i miei pensieri come si legge un foglio stampato. “Vuoi sapere se sono stato io” mi dice in fine. Non mi sono accorta, ma sto piangendo. Lacrime scorrono copiose sulle mie guance. Lui non può piangere, non ha mai pianto. “Non sono stato io” continua lui. Non è una giustificazione, è un dato di fatto. Sono in piedi davanti a lui e non riesco a smettere di piangere. “Lo so che tutti hanno detto che sono stato io ad uccidere te e nostro figlio…no, non l’ho fatto. Avrei ucciso piuttosto me stesso. Non ho unificato il Paese per una donna che ho ucciso”. Ci guardiamo fissi negli occhi. Non voglio sapere chi è stato. Ricordo la lama. Ricordo il sangue. Ricordo di aver pensato che non lo avrei visto compiere l’opera che mi aveva promesso, ricordo di aver pensato che non sarei invecchiata con lui. Non ho mai veramente pensato che fosse stato lui ad uccidermi. “Nostra figlia?” balbetto tra i singhiozzi. Sono così poco samurai in questo momento…non sono assolutamente degna di stare al fianco di un uomo di questo calibro. “Si è sposata a Kamakura, ha avuto tre bambini” risponde schematico. Non vedo più nulla, le lacrime mi annebbiano troppo la vista. Non avrò mai paura della morte. Sono morta troppe volte.

Sento caldo. Un piacevole tepore. Non è più inverno. Sento profumo. È il suo profumo. Mi sta abbracciando. È una cosa così insolita. Apro gli occhi, mi bruciano. Petali di ciliegio. È tornata la primavera. Lui è sempre un ragazzino, ma c’è qualcosa di più adulto nel suo volto rotondo. So che sta per finire, ma vorrei non finisse mai.

IKEBUKUROMEJIROTAKADANOBABASHINOKUBOSHINJUKUYOYOGIHARAJUKUSHIBUYA

Eccomi tornare nel vagone. Mi manca quasi il fiato, e non solo perché la borsa gigantesca di Louis Vuitton della ragazza di fianco a me mi sta schiacciando le costole. Lui è sempre davanti a me. C’è un’ombra di paura nel suo sguardo. Anche a lui probabilmente non è mai successo in treno. È così difficile tornare alla realtà, dopo. Tiro un bel respiro. La gente intorno a noi non sa. E non può capire. Nessuno può capire, se non noi due che l’abbiamo vissuta.

Shibuya-È la mia fermata.

Scendo sospinta dalla gente. Vorrei fermarmi ma non posso, il flusso di gente non lo permetterebbe. Mi volto. Anche lui sta scendendo. Continua a guardarmi, come io guardo lui. Credo proprio che ora andremo a prenderci un caffè da Starbuks. È la prima volta che lo vedo con queste sembianze, e ancora non ci ho parlato. Sono solo quattrocento anni che ci conosciamo.

 

Giulia Evolvi


TELLUSfolio - Supplemento telematico quotidiano di Tellus
Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - R.O.C. N. 7205 I. 5510 - ISSN 1124-1276