Lassù, al terzo piano del reparto maternità, nella penultima stanza a sinistra, sta per nascere il figlio di mia nipote, figlia della mia prima figlia.
Siamo tutti qui sotto in attesa da stamattina all’alba, sembrava che il bambino volesse nascere intorno a mezzogiorno ma sono le nove di sera e ancora non si decide.
Insieme a mia nipote c’è il suo giovane compagno, la sua amica del cuore ostetrica alle prime esperienze e la zia infermiera. Ogni tanto ci arriva dalla sala parto un messaggino con l’aggiornamento della situazione, che sembra non voglia sbloccarsi. Mia nipote vuole fare un parto naturale, costi quel che costi, e chi l’assiste lotta con lei perché non si debba intervenire chirurgicamente.
Non avevo messo in conto di vivere l’esperienza di diventare bisnonna. Ancora una volta la vita riesce a stupirmi.
Pensavo che i giovani oggi programmassero la loro esistenza stilando una specie di scadenzario delle loro impellenze. Pensavo che mia nipote si sarebbe laureata prima di pensare a un figlio. Mi ha detto che questa gravidanza è arrivata a sorpresa e ciò mi meraviglia: pensavo che la donna, o meglio la coppia, di questi tempi decidesse se e quando avere un figlio.
Forse una partita di profilattici scaduta, ha scherzato mia nipote, perché altre tre compagne di scuola sono rimaste incinte come lei.
O forse, penso io, il desiderio di maternità che questa società dei consumi, nemica dei progetti a lungo termine, tenta di sopprimere e resta invece prepotente e inalienabile.
Che tu giunga presto, bambino, l’attesa comincia a farsi spasmodica.
Siamo tutti qui, in silenzio dopo una giornata di parole.
“Donna, non poco la patria si aspetta da te”. Un altorilievo in marmo di notevoli dimensioni, datato 1918, posto all’ingresso del reparto, descrive la maternità attraverso la sofferenza e la dedizione senza fine di generazioni di donne considerate nella loro funzione esclusivamente generativa, preclusa ogni altra ipotesi di affermazione come individuo.
Una rabbia sottile come polvere di ferro s’insinua nei pensieri che vorrebbero essere positivi, per dirlo con una parola abusata, e la mente registra un disagio che parte da lontano e si proietta lontano.
Tante cose sono cambiate dal 1918, forse tutto è cambiato in apparenza, ma tanto resta ancora da fare riguardo alla situazione della donna, che è stata e resta il perno di ogni questione.
“Ci siamo quasi”, annuncia l’ultimo messaggino. “Il bambino ha tanti capelli neri”.
Al miracolo della nascita non ci abitua mai, sarebbe come abituarsi al miracolo della vita.
Riprende il corso dei pensieri per allontanarsi e insieme avvicinarsi a ciò che sta accadendo nella penultima stanza a sinistra, al terzo piano del reparto maternità.
Ho avuto tre figlie femmine, nate una dopo l’altra. Erano gli anni Sessanta, gli anni della grande trasformazione sociale, culturale e politica culminata col Sessantotto.
Gli anni dei grandi ideali e delle lotte e delle sconfitte. Gli anni in cui si è tentato di cambiare il mondo affinché il mondo non cambiasse noi. Gli anni di un sogno bello di fratellanza e di pace dopo due terribili guerre mondiali.
Sono le undici di sera e questo bambino non si decide ancora a venire al mondo. Tutto il dolore e la forza della spinta lo posso rivivere attraverso le doglie di mia nipote, come l’ho rivissuto ogni volta che le mie figlie hanno partorito. Momenti che non si dimenticano.
Ai miei tempi si partoriva in casa, con la madre e la suocera in aperta rivalità e la levatrice che bestemmiava come un turco mentre ti strizzava come un limone. Coi lumini accesi davanti all’immagine di sant’Anna e porte e finestre ermeticamente chiuse perché non trapelassero all’esterno rumori sconvenienti.
I mariti restavano fuori da quell’avvenimento, che doveva restare un mistero, allontanati dalle donne anziane come da una situazione disdicevole.
Entravano nella stanza quando tutto era stato ripulito e arieggiato, la donna lavata e incipriata, il bambino avvolto nella bella copertina ricamata e tenuto buono fra le braccia di qualcuno.
L’uomo poteva provare disgusto se solo avesse avuto sentore di ciò che si era appena consumato in quella stanza e disertare magari il talamo nuziale. L’uomo andava protetto dalla violenza di una natura esosa, che non sta certo dalla parte della donna.
Sono le donne che allevano gli uomini, e ai miei tempi li allevavano male. Eppure le donne facevano del loro meglio, secondo le normative cui erano soggette.
È mezzanotte e il bambino ancora non nasce. Povero bambino che forse non vuol lasciare la sua casina protetta, che forse ha paura di ciò che può percepire oltre quella strettoia, e certo sta soffrendo, così sospeso tra un mondo e l’altro.
Mia nipote, ne sono certa, ce la sta mettendo tutta; desidera quel bambino da quand’era bambina, figlia unica invidiosa dei cuginetti che avevano i loro fratellini e pativano a loro volta di una gelosia che loro solo potevano sapere quanto male facesse.
I sentimenti umani sono voragini oscure che non risparmiano nessuna età e condizione.
Il Sessantotto passò per me come un turbine di cui solo mi arrivava la polvere e il rimbombo. Io stavo vivendo la stagione del boom, moltiplicandomi per dieci per fronteggiare la cura dei figli sottratta alle incombenze di casalinga e donna che lavorava dieci ore al giorno al fianco di un marito dalla prorompente vitalità, che usava Pino Silvestre Vidal, e che era anche il mio datore di lavoro rigorosamente in nero.
Mio marito, nato nel bel mezzo del Ventennio, aveva visto morire durante la guerra la sorellina avvelenata dal latte della madre che aveva assistito alla perdita del fratello sotto i bombardamenti, aveva perduto il padre colpito da infarto secco, aveva raccolto l’ultimo respiro del fratello malato di cuore per il quale poco e niente la medicina di quei tempi poteva fare.
Una scuola dura, la vita, che forgia uomini duri.
La donna no, la donna resta sempre col cuore di burro, pronta a liquefarsi davanti al bisogno degli altri.
Questo almeno è ciò che ci si aspetta da lei, oggi e sempre.
Mi resi conto che c’era stato il Sessantotto verso la metà degli anni Settanta, quando già si stavano preparando gli Anni di piombo. Mi ero separata dopo mille drammi che sfiorarono più di una volta la tragedia, perché non potevo più accettare un rapporto basato sull’ipocrisia della bella facciata che nascondeva malefatte immorali, coperte dalla omertà delle madri che sapevano e tacevano e m’imponevano di tacere. Ero io, la pecora nera, quella che non ci sta, che non ci sta più, al gioco delle parti. Forse del Movimento del Sessantotto mi era arrivato molto più che la polvere e il rimbombo.
Le mie prime due figlie erano adolescenti e vivevano in pieno la rivolta. Si era creata una frattura fra di noi che sembrava incolmabile. Io ero la borghese piccola piccola che tutti i giorni come una formichina metteva insieme colazione, pranzo e cena col suo lavoro di libera professionista, nello specifico barista di un piccolo chiosco a me intestato, che mi qualificava capitalista e dunque in grado di provvedere da sola al mantenimento della prole senza il supporto dell’altro genitore.
Una capitalista che si alzava alle quattro del mattino e si faceva di filato quindici ore di lavoro, trovando peraltro gli spazi per accudire casa e famiglia, senza tralasciare il momento del confronto con ciascuna delle mie figlie. Un confronto che sempre più diventava impossibile, io inchiodata al mio ruolo di educatrice educata male, e le mie figlie che volevano rifare il mondo in meno di sette giorni.
“Ci siamo, tenetevi pronti”. Legge a voce alta il messaggino mia figlia che sta per diventare nonna, e vorrei tenermela stretta come fosse ancora una bambina alle prese con cose più grandi di lei.
Vent’anni fa mia figlia mi accusò di essere indifferente ai destini del mondo, di non scendere in piazza a manifestare il dissenso nei confronti del malgoverno di turno, portando magari uno striscione e cadenzando i passi con gli slogan più efficaci. La sua accusa mi colpì come una sferzata in piena faccia e non ebbi al momento il fiato per ribattere. Più tardi le scrissi una lettera dove ridisegnavo per sommi capi lo schema della vita che avevo vissuto, le battaglie che avevo sostenuto, le perdite che avevo subito in termini di fede e di credo, mantenendo salda a fatica una briciola di fiducia nelle possibilità di riscatto umano. E che se lei poteva scrivere il suo rigo di storia era perché prima di lei un esercito silenzioso e invisibile di donne – me compresa - aveva preparato il terreno e mantenuta la postazione faticosamente raggiunta.
Non abbiamo mai parlato di quell’episodio e oggi non avrebbe più senso. La vita insegna.
Potrei dire a mia figlia che io ho fatto la Resistenza. Una resistenza spesse volte passiva per evitare deflagrazioni violente a danno degli innocenti. Mai retrocedendo e avanzando millimetro per millimetro in una trincea che non mi copriva le spalle.
È l’una di notte e il bambino ancora non nasce. Mia nipote sarà allo stremo e non posso fare nulla per lei, per loro. Sto accanto a mia figlia e condivido la sua ansia.
Noi donne siamo tutte staffette portatrici di messaggi che mettono in contatto le generazioni.
Dietro ogni donna che si emancipa vi sono gli sforzi di tutte le donne che l’hanno preceduta in quel terreno di conquista che è la nostra consapevolezza acquisita.
Ma non basta formarsi una coscienza: occorre mettersi al servizio della propria coscienza e di chi ancora non la possiede.
Con tutti i mezzi che abbiamo.
Con tutti i mezzi di cui ci dobbiamo fornire, ognuna nel suo settore.
Le donne sono combattenti nate. Destinate a lottare fino all’ultimo respiro per il respiro del mondo. Generatrici in tutti i sensi, non possono tirarsi indietro ma solo andare avanti e con cognizione di causa.
Donna, non poco la vita si aspetta da te. Ma anche tu devi aspettarti tanto dalla vita e prima di ogni altra cosa il rispetto che ti è dovuto, che a tutti è dovuto. Finché qualcuno verrà offeso sotto i tuoi occhi e tu non lo difenderai, non sarai donna a pieno titolo.
Essere donna nel senso pieno della parola comporta un impegno illimitato e una volontà indomabile di bene.
La società ha bisogno delle donne come dell’acqua e dell’aria, ma che siano pure, non inquinate da personalismi riduttivi e sterili, da opportunismi e piccoli calcoli, o da residui di vecchie dottrine che della donna hanno fatto una icona dipinta.
La donna eroica per natura e per cultura non deve più sacrificare se stessa per mettere in luce chi di lei vive di riflesso, non deve più lasciarsi mettere in ombra da chi teme la luce della sua intelligenza.
La donna ha un compito da svolgere nella società in cui vive per renderla migliore, solo così esplicherà con gioia le prerogative di una maternità che non si limita a procreare, ma procede alla tutela e alla formazione degli individui che costituiscono la collettività.
“È nato, potete salire”, dice un’infermiera passando.
Corriamo tutti verso quella porta che varchiamo a turno per dare il benvenuto a Samuele, venuto a questo mondo per un atto d’amore.
Maria Lanciotti
(domenica 8 luglio 2007
Festa dell’Unità, Premio donna Bianca Cugini)