Molte volte, a Teheran, mio zio Ali usciva di prima mattina per raccogliere grossi funghi sulla montagna di Shemiran. Ogni estate ed ogni autunno, quando vedevo i temporali addensarsi nell’aria, sapevo che avremmo avuto grandi mucchi di succosi funghi selvatici. Mio zio credeva che i temporali spingessero i funghi giù dalla cima del monte alle sue pendici sassose. Così i “cacciatori” di funghi come zio Ali si alzavano presto la mattina dopo il temporale, per trovarli e tagliar loro la testa. Come giornalista e scrittrice iraniana, ho spesso paragonato me stessa e molti dei miei colleghi a quei funghi. Nel 1992, quando cominciai a lavorare a Teheran, stavo molto attenta a quel che scrivevo. E questo andò avanti fino all’elezione di Mohammad Khatami, il presidente “riformista” nel 1997. Allora io, e numerosi altri giornalisti, ci affrettammo ad andare a lavorare per i principali quotidiani riformisti del paese. I chierici moderati iniziarono ad usare la stampa per mettere in discussione le leggi basate sulla religione, come i codici d’abbigliamento restrittivi e la morte per lapidazione. Il presidente Khatami portò alcune riforme al sistema politico e svelò il ruolo degli agenti dello spionaggio iraniano negli omicidi di un certo numero di intellettuali.
Ogni giorno i giornalisti iraniani, con il sostegno del popolo iraniano, andavano in profondità nel dare notizie o mettevano in questione il sistema. Avevamo fiducia nel fatto che i cambiamenti raggiunti erano definitivi e che saremmo stati protetti dal governo che avevamo eletto. L’ultima rivista per cui ho lavorato in Iran, Zan, fu chiusa per ordine del tribunale nella primavera del 1999. All’epoca io mi trovavo negli Usa, e fui arrestata non appena rimisi piede a Teheran. Fui tenuta, per ordine del governo, in isolamento per tre mesi, durante i quali confessai crimini che non avevo commesso e feci tutto quello che un essere umano poteva fare per salvare la propria vita.
Adesso sono arrivata a chiedermi se le opportunità che avevamo scambiato per vere riforme non fossero che illusioni create per ingannarci. Il governo iraniano incoraggiò quella breve era per poter identificare meglio i propri oppositori ed eliminarli? L’elezione di Khatami fu il temporale che permise infine al governo di darci la caccia?
Questa tempesta non ha travolto solo noi, ma anche gli intellettuali iraniani espatriati che avevano iniziato a tornare nel paese quando il presidente Khatami inviò all’estero il messaggio “L’Iran è per tutti gli iraniani”. Di recente alcuni di essi sono stati arrestati. Ramin Jahanbegloo, che è uno studioso iraniano/canadese, ha passato quattro mesi in una galera iraniana, l’anno scorso. Ha “confessato” sui media nazionali che alle conferenze fuori dall’Iran “entrava in relazione” con molti americani ed israeliani, e che parte di costoro erano “agenti dello spionaggio”. Zahra Kazemi, una fotografa iraniana/canadese, è morta sotto interrogatorio mentre era detenuta a Teheran. E, naturalmente, Haleh Esfandiari, un’intellettuale iraniana/statunitense che dirige il programma per il Medio Oriente del Centro Internazionale Wilson per docenti, a Washington, ha passato 100 giorni nella prigione di Evin, prima di essere rilasciata su cauzione martedì scorso.(1) Anche lei ha dichiarato in televisione di essere in combutta con la “rivoluzione morbida” contro il regime di Teheran. La situazione in cui la dottoressa Esfandiari si trova oggi è la stessa che ripetutamente i cittadini iraniani che osino pensarla in modo differente devono affrontare. Il messaggio mandato agli intellettuali iraniani all’estero è lo stesso che viene dato a quelli ancora nel paese: “Non sei più il benvenuto, qui”.
Chi ha avuto un assaggio delle prigioni e degli interrogatori in Iran, inclusi gli accademici e gli scrittori della mia generazione, o i marinai britannici recentemente detenuti per ordine del governo, sa di cosa parlo. Si tratta di tortura psicologica e false accuse. In prigione, tutto quel che ti resta è pregare di riavere la tua libertà per potertene andare dall’Iran e non tornarci mai più. E questo è ciò che il regime vuole per qualunque studioso, intellettuale, scrittore che possa avere una qualche influenza sulla gente in Iran: che si lasci il paese e che si sia troppo spaventati per farvi ritorno. Ancora non è chiaro se alla dott. Esfandiari verrà permesso lasciare presto l’Iran. Non sarei sorpresa se in questo momento stesse ripromettendo a se stessa di non far mai più visita alla madre e al proprio paese, e se consigliasse altri di fare la medesima cosa.
Camelia Entekhabifard(2)
(per il New York Times, 24 agosto 2007 – traduzione di M.G. Di Rienzo)
(1) La madre di Haleh Esfandiari ha venduto la propria casa per pagare l’ingente cauzione della figlia. (Ndt)
(2) Giornalista, autrice di Camelia: Save Yourself by Telling the Truth — a Memoir of Iran.