Rimeditazioni
Da quel vecchio progressista che ero... 
Una lettera al Manifesto e una all'Osservatore Romano; un pensiero cattivo su Israele; le coidentità e l'incuria storica
Andrea Rivera al Concerto del 1° Maggio
Andrea Rivera al Concerto del 1° Maggio 
15 Giugno 2007
 

Ho inviato questa lettera a Il Manifesto, la ripropongo ai lettori di Tirano & Dintorni (e così a quelli di Tellusfollio, ndr).

«Caro Direttore,

sono un vecchio lettore de Il Manifesto, di cui apprezzo innanzi tutto lo stile. Mi sono soffermato naturalmente, data la mia appartenenza, sull’articolo di Mimmo di Cillis sulla crisi delle vocazioni, “La Chiesa è viva. Ma sempre più sola”, apparso sul numero di venerdì 20 aprile 2007, che ho trovato, tutto sommato, abbastanza corretto.

Si trattava, in fondo, di una recensione. Resta comunque un discorso da approfondire, magari anche dallo stesso Manifesto. A parte la mancata attenzione alla varietà (qualcuno ha osservato, quasi infinita) di vocazioni presenti nella Chiesa, altro sono quelle cosiddette di vita attiva – la cui crisi è, a parere di certuni, irreversibile –, altro quelle, sempre attenendomi al linguaggio ecclesiastico, di vita mista (contemplare et contemplata aliis tradere), i grandi Ordini del ‘200, a cominciare dai francescani, altro ancora quelle monastiche dal grande passato (hanno contribuito a fare l’Europa) e da un già prevedibile nuovo ressourcement.

Ognuna di queste realtà, e altre possibili, andrebbe analizzata singolarmente.

A parte tutto questo, che non è poco, il discorso da fare è un altro. La crisi delle vocazioni specificamente religiose si inserisce e va vista in un quadro più vasto e generalizzato, e che investe ogni campo, anche il più profano. Crisi del concetto stesso di vocazione.

Domina il tornaconto, il più delle volte a breve scadenza, o la dimensione utilitaristica. Dire o pensare: è affar loro, dei preti, oppure: ben gli sta, è pura miopia. Mi piacerebbe che Il Manifesto ne fosse immune. Per rifarmi al titolo, la Chiesa non è l’unica ad essere sola».

* * *

La nascita e la presenza di uno stato come Israele continua a fare problema, qualunque cosa si possa dire delle sue origini: una invenzione del movimento sionista con quel tanto di artificioso che hanno in questo campo le invenzioni, oppure un rifugio obbligato per ebrei sfuggiti all’olocausto. Io stesso ho conosciuto ed ho avuto qualche amico ebreo non sionista. È anche vero che non tutti gli ebrei scampati all’orrendo crimine che ha segnato la nostra storia, finirono in Israele. Molti trovarono salvezza in altri paesi ospitali, primi fra tutti gli Stati Uniti. Giova anche ricordare che non mancano esempi di ebrei che hanno lasciato Israele per tornare ai paesi d’origine, compresa la stessa Germania restituita alla democrazia dopo la fine ingloriosa dell’ubriacatura nazista. Di fronte all’incrudelirsi della situazione capita di essere tentati da un pensiero, come chiamarlo? cattivo: se non sia meglio la diaspora ebraica nei vari paesi, che tra l’altro ha avuto e può ancora avere una funzione di lievito.

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Chi si ricorda più dell’imitazione di Cristo, intesa sia come evento e sia come titolo di un libro che ha segnato la storia della spiritualità occidentale? Mi è tornata in mente ascoltando stupefatto e contristato le risposte di certi organi ecclesiastici, a cominciare dall’Osservatore Romano dimentico delle sue tradizioni di compostezza ufficiale, alle provocazioni di un certo Rivera (su questo tornerò più avanti). Si è addirittura tirato in ballo il terrorismo, denominazione ormai pericolosamente buona a coprire ogni sorta di manifestazioni anche minimamente oppositive. Ma veniamo alle parole di Rivera. Qui la cosa da mettere in discussione era l’improprietà della sede – concerto sindacale del 1° maggio –, una manifestazione che coinvolge anche masse di credenti e l’eventuale mancato controllo, in questo caso giustificato, dell’organizzazione. Le affermazioni di Andrea Rivera potevano e dovevano essere discusse una per una, lo meritavano. Oppure lasciate passare con una specie di fair play ecclesiastico. Le organizzazioni sindacali, d’altra parte, coi tempi che corrono, non hanno bisogno di tirarsi addosso critiche non necessarie.

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L’amico Lele Garbellini intitola un suo intervento su di me apparso anche sulle colonne di questa rivista: “Camillo chi sei?”. Giunti a questo punto me lo domando anch’io. Sarà perché, contrariamente alla vulgata dominante, soprattutto nella mia Valtellina, io sono espressione di una identità molteplice: inconfondibilmente valtellinese, ma nel contempo cattolico, che vuol dire anche etimologicamente, universale, nonché, politicamente, internazionalista. Mi piacciono quelle che io ho chiamato le coidentità, a cominciare da quelle più vicine, per poi proseguire con le altre, le più lontane.

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Da quel vecchio progressista che ero, ho salutato con entusiasmo quella presenza di tutti a tutti, da un punto all’altro del mondo, che caratterizza la modernità (o postmodernità, fate voi). Il guaio è che ci si è messa di mezzo la telecrazia, cioè il dominio incontrastato dei mezzi di comunicazione di massa. Se andiamo avanti di questo passo, chi ci salverà dalla presenza abilmente nascosta di qualche occhiuta telecamera? Addio care vecchie mura domestiche, addio cara vecchia e rassicurante clausura monastica dei miei anni giovanili, addio solitarie camminate per le vie di qualche città amata. Si salveranno le chiese, si salveranno i vecchi confessionali? A proposito della sopraccitata clausura conventuale, conservo un ricordo vivo e personale del rifugio e della salvezza offerti, dopo l’8 settembre del ’43, a molti perseguitati o a scampati al forzato arruolamento nelle file della Repubblica di Salò. Per chi veniva scoperto c’era la fucilazione. La smemoratezza o l’incuria storica dominante nelle nostre scuole, ha fatto sì che molti, soprattutto fra le nuove generazioni, l’abbiano dimenticato o non ne sappiano nulla.

 

Camillo de Piaz

(da Tirano & dintorni, giugno 2007)


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