Orizzonti*
Reticoli d’ombre.
Reticolati che lacerano pensieri e speranze.
La canicola spacca i timpani.
Il sudore, la sabbia.
Orme di gomme che non svaniscono mai.
Dune come onde di un arido mare:
camion le solcano colmi di respiri strozzati.
Linee di fuoco nel cielo rovesciato.
Sclere maculate di fatica e angoscia.
Grani di tempo nel vuoto pneumatico.
Corpi in stracci che si trascinano
verso il miraggio di una riva
che non c’è... che non c’è...
(o l’hanno spostata? Più in là...
sempre più in là).
Poi, infinite camicie al vento,
ossa-muscoli-nervi in attesa del viaggio,
volti senza parola; solo il soffio del buio
in ogni cuore smangiato dalla paura
e l’incognito mondo di sotto...
l’incognito mondo di sotto...
dove incrociandosi nel mistero
fluttuano le correnti
e i sogni son leviatani
che ingoiano qualsiasi grido,
qualsiasi sillaba
ma giorno verrà...
giorno verrà
in cui qualcuno sull’altra sponda raccoglierà
una conchiglia sulla battigia,
l’accosterà all’orecchio
e udrà il coro dei fratelli...
udrà il coro dei fratelli perduti...
* Guardando l’omonimo libro illustrato di Paola Formica
(Alberto Figliolia, da Audrey Hepburn ad Addis Abeba, Edizioni Il Foglio, 2020)
Sono anni che Margherita Lazzati, fotografa milanese, cacciatrice di miraggi secondo una sua antica, arguta e felice definizione, si dedica alla propria attività in vista e per la realizzazione di progetti che riescono a coniugare arte e impegno sociale e civile. Vogliamo qui ricordare fra gli svariati progetti cui ha lavorato i reportages d’immagini in una casa di cura/riposo alle porte di Milano, nelle carceri (San Vittore e Opera), sui clochards nelle vie e piazze della opulenta Milano (Visibili. inVisibili).
Non stupisce dunque che nel suo nuovo progetto il tema – sviluppato in 107 fotografie, di cui 8 selezionate (in grande formato: 90 x 140 cm), in prima esposizione, per la mostra Il porto che non c’è (dal 18 al 23 novembre alla Fondazione Ambrosianaeum di Milano) – sia costituito dai naufraghi, i derelitti dei mari e dei deserti, i reietti del mondo, coloro che fuggono da fame, guerra, miseria, macerie e rovine, diritti calpestati o negati, torture e il peggio che l’arsenale umano riesca a inventare; coloro che fuggono in cerca di una vita migliore. E si affollano sui barconi e sovente, ahinoi!, trovano un infinito riposo in quella che è ormai una tomba di ferro salato, quello che i Romani chiamavano Mare nostrum, il Mediterraneo, fonte di vita per le sue tante sponde, destinazione terminale per tanti, troppi sventurati: bambini, donne incinte, giovani, un’umanità sofferente, che meriterebbe certo miglior sorte e considerazione.
Le immagini sono state scattate, previo permesso, con una piccola Leica tascabile all’interno della Casa di reclusione di Milano-Opera, in un cortile interno. (S)oggetto delle immagini le barche, o i loro scheletri, spiaggiate dei migranti (sperando che almeno quelli a bordo si siano salvati) in un ultimo viaggio (vuoto) da Lampedusa a Milano.
Scrive il gallerista/artista Jean Blanchaert, che presenta la mostra a cura de L’Affiche (insieme, parallelamente, vi saranno in altre due esposizioni gli scatti di Leandro Ianniello e Barbara Cardini): “Sembrano dei cetacei all’attacco, talora mostrano la loro struttura ossea quasi fossero fossili del reparto paleontologico di un museo di storia naturale. I loro colori sono il bianco, il rosso, il verde e l’azzurro (e quanto contrasta questa vivacità arcobaleno con il nero dell’angoscia e della disperazione (N.d.A). A volte hanno nomi scritti in caratteri latini come Assia, nome di ragazza molto comune in Tunisia […] Margherita Lazzati è sempre stata una fata con occhio di antropologa. Documenta istintivamente tutto, come nel caso dei resti di questi naufragi: dalle Nike con logo rosa di imitazione alla scarpe da tennis o da ginnastica completamente distrutte; dai copertoni neri di ruote d’automobile ancora semigonfi, che avranno avuto la funzione di galleggianti, agli ami da pesca; dalle scatole di sardine, provviste per la traversata, alcune aperte, altre ancora chiuse. Sul fondo dello scafo s’intravedono un marsupio blu con delle stelline beneauguranti e una tuta in felpa azzurrina della stessa taglia. Dei blu jeans scoloriti penzolano da un timone; dei ferri arrugginiti escono dal boccaporto con qualche giubbotto salvagente senza fischietto annesso.”
Il porto che non c’è è una mostra – allestimento nel fienile, al terzo piano della Rotonda Pellegrini, sede della Fondazione Ambrosianaeum – bellissima e straziante, disperata e struggente. Tuttavia le umili rimanenze e i relitti di questi perigliosi navigli conoscono ora una nuova vita... “beni culturali e simboli dei tempi in cui ci troviamo. Memoria collettiva. Sono arrivate fin qui grazie a un’idea di Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti e al progetto Metamorfosi, che trasforma le barche in strumenti musicali e i detenuti in falegnami-liutai.”
Dal dramma, e spesso dalla tragedia, ci si muove verso isole virtuose, di benessere spirituale e condivisione, di piena consapevolezza, senza l’ottuso armamentario di vieti e triti pregiudizi. Quel legno subirà una splendida mutazione; sarà viole, violini e violoncelli. “Se i meravigliosi Stradivari nel Seicento erano fatti di abete stagionato, questi strumenti, figli di imbarcazioni costruite oggi con pino d’Aleppo e pino d’acacia hanno magicamente un bel suono, dolce e drammatico.”
Una mostra per immergersi a propria volta fra i flutti, provando a immedesimarsi in quello sguardo che scrutava con terribile ansia l’orizzonte, nel miraggio di un salvifico approdo e di opportunità di vita. Di una vita dignitosa. Insieme con quegli sventurati, nostri fratelli, per capire. Capire...
Le mostre sono aperte al pubblico, con ingresso libero, da martedì a sabato (h 11-20), in via delle Ore 3, Milano.
Per i concerti con gli strumenti del mare – giovedì 21 e sabato 23 e per il convegno di sabato 23 – info allo 0286464053 (segreteria Ambrosianaeum).
Alberto Figliolia