Lo scaffale di Tellus
Marisa Cecchetti. “Sulle strade di mio padre” di José Henrique Bortoluci
19 Maggio 2024
 

José Henrique Bortoluci

Sulle strade di mio padre

Traduzione dal portoghese di Vincenzo Barca

Iperborea, 2024, pp. 192, € 18,00

 

Cognome di origine italiana quello dell’autore José Henrique Bortoluci: il nonno paterno era figlio di due italiani partiti per il Sud America nel 1910, quando era in atto una “politica di sbiancamento” che tendeva a sostituire popolazione indigena e schiavi provenienti dall’Africa con immigrati bianchi a cui si concedevano benefici e agevolazioni: li attendeva un mondo cattolico, rurale, patriarcale, con razzismo e disuguaglianze. Erano famiglie numerose quelle dei suoi avi, che vedevano la morte precoce di parecchi figli. José, suo padre - ma tutti a Jaú lo chiamano Didi - classe 1943, era il quinto di dieci: al lavoro nei campi già a sette anni, a quindici in un’officina meccanica, a ventidue alla guida dei camion, sulle strade del Brasile per cinquant’anni. Lo spingevano la voglia di conoscere posti, di capire la dura vita che sentiva raccontare, di vivere all’avventura.

Un padre che lui vedeva di rado, che attendeva con “desiderio e terrore”, che nelle brevi soste in famiglia gli portava le parole dei viaggi: lo ricorda seduto a fumare sullo scalino di casa, abbronzatura da camionista, il pensiero fisso ai creditori e al sogno di diventare padrone del camion. Gli hanno insegnato fin da piccolo che il lavoro determina il valore di una persona, e lui non si è tirato indietro.

Il recupero del rapporto col padre - o meglio la costruzione - avviene quando l’anziano si ammala gravemente e racconta la sua vita a quel figlio, dottore in Sociologia e docente universitario, che ormai abita un mondo più esteso di parole; lui raccoglie da quelle del padre una storia di rischi, di coraggio, di ostacoli, di violenze, di devastazioni e di selvaggia bellezza.

Didi ha guidato il camion nella foresta Amazzonica già dagli anni Sessanta, Settanta, quando il trasporto su gomma era l’unico su cui poteva contare un Paese privo di infrastrutture dove mancava tutto, ma il progresso era la parola magica del governo militare (1964-1985) e la Transamazzonica il mezzo per realizzarlo.

Un racconto senza retorica, pieno di fatti, di personaggi talora surreali, di solitudine e silenzio, su strade di fango: “Le strade erano quasi tutte pozze di fango e polverone. Quand’era la stagione delle piogge c’erano certi pantani che ci restavi cinque, sei, sette giorni senza riuscire a tirare fuori il camion. Viaggiavamo in gruppi di cinque o sei e quando uno affondava, bisognava attaccarne un paio per rimorchiare quello impantanato”. C’era pragmatismo, cameratismo, affidabilità, e serviva accortezza nel sistemare un carico per non rischiare di perderlo, soprattutto se si trattava di tronchi. Nei lunghi viaggi nella foresta serviva combustibile di scorta, ma anche un’accetta e un machete per rimuovere vegetazione ingombrante. Il padre ha trasportato materiali per la costruzione della Transamazzonica, ha visto alberi abbattuti spacciati come prezzo inevitabile del progresso, ha dovuto convivere coi militari, ha osservato nascere colossali cantieri che il regime usava come manifesti pubblicitari: “Sulle strade dell’Acre, negli anni Sessanta, Settanta, non vedevi altro che carovane di camion che trasportavano tronchi. Nessuno parlava di salvare la foresta […] Già all’epoca mi pareva una distruzione. Lo sapevo che non era giusto, ma allora non ne parlava nessuno, pensavano che la foresta non sarebbe mai finita. Ti pagavano, e uno doveva campare”. Così la Transamazzonica lunga più di quattromila chilometri è anche “l’autostrada di mio padre”, scrive Bortoluci.

Il romanzo-verità avanza mettendo in parallelo la malattia che consuma il corpo di Didi e il cancro che ha distrutto e continua distruggere la foresta: infatti, partendo dalla Transamazzonica si aprono tante piccole vie verso l’interno dove prosegue la distruzione: ormai ottantatré milioni di ettari sono deforestati, circa il 20% dell’area totale, uno scempio dentro il polmone verde più esteso del mondo. Ma, come un’impresa di cui vantarsi, già nel 1971 il governo militare invitava gli allevatori a dirigersi in Amazzonia, con la promessa di sussidi e terre sconfinate, dietro lo slogan “Porta la tua mandria nel pascolo più grande del mondo”, senza sapere che le terre senza alberi si degradano presto.

Al posto del progresso promesso sono aumentati la criminalità, la prostituzione, i furti di merce, il prezzo del combustibile, la precarizzazione del lavoro, lo smantellamento della previdenza sociale; Altamira, la città più importante della Transamazzonica, è al vertice per tasso di omicidi e la politica si alimenta di brutalità: l’accusa emerge dalla parola che narra tra realismo e magia: “Così era la vita” dice Didi. Le parole del padre rimangono il patrimonio del figlio, andando ad arricchire il mondo più ampio di parole al quale lui è “migrato”.

 

Marisa Cecchetti


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