In tutta libertà
Gianfranco Cercone. “Civil war” di Alex Garland
29 Aprile 2024
 

Da un film che appartiene al filone della fantapolitica potremmo aspettarci in primo luogo una ricostruzione dettagliata del contesto fantastico del racconto, che lo renda allo stesso tempo pienamente comprensibile e verosimile.

Da questo punto di vista, Civil war, che alla fantapolitica certamente appartiene, delude le attese.

L’autore immagina una nuova, sanguinosa guerra civile che divide alcuni degli Stati Uniti d’America, secessionisti, e li contrappone alla Presidenza degli Stati Uniti. Ma niente ci viene rivelato sulle ragioni del conflitto, sulle ragioni o sui torti dei contendenti. Ci sono mostrate soltanto le conseguenze: le strade dell’America interrotte da incidenti catastrofici, scene di guerriglia urbana, gli orrori che abbiamo imparato a riconoscere caratteristici di ogni guerra.

Ma ecco il punto: perché ipotizzare una guerra immaginaria per poi limitarsi a rappresentare scenari di una guerra “qualsiasi”? Perché non riferirsi allora a una guerra realmente accaduta?

Presento tale riserva in una forma interrogativa perché il film in parte la smentisce, avvolorando la propria impostazione.

Protagonisti del racconto non sono dei soldati ma un gruppo di reporter di guerra, determinati a raggiungere Washington allo scopo di intervistare il presidente degli Stati Uniti, braccato all’interno della Casa Bianca da dove lancia proclami all’America.

Fra i reporter ci sono due fotografe: una veterana di reportage di guerra, e una ragazza, ammiratrice dell’altra, la quale, forse per spirito di emulazione, si è unita a quel gruppo di coraggiosi giornalisti.

Non è un caso che proprio le due fotografe siano le protagoniste del racconto, perché nelle pericolose avventure che il gruppo si trova ad attraversare, spicca un episodio, anzi un’immagine ricorrente, quasi ossessiva, in cui sembra racchiudersi il senso ultimo del film. Ed è poi quella di uno o più soldati vivi accanto ad altri soldati, dell’esercito nemico, già uccisi o da uccidere. E da tale confronto i soldati viventi sembrano ricavare un’esaltazione della propria vitalità, forse un senso di onnipotenza, comunque un’emozione simile alla gioia, che a volte si esprime nel riso.

E il fascino, certo misto a orrore, che tali immagini sembrano suscitare nelle due fotografe, che si avvicinano a tali scene mettendo a repentaglio la propria incolumità, non è dovuto ai particolari cruenti dei cadaveri o dei corpi torturati, ma proprio a quella particolare reazione che le vittime suscitano nei carnefici. La guerra insomma metterebbe a nudo un fondo perverso e intatto che si annida nella civiltà, anche in una civiltà apparentemente così evoluta come quella dell’America contemporanea. E proprio forse questo intento di svelamento giusitifica l’ambientazione. E niente come certe immagini fotografiche può portare tale contenuto alla luce della coscienza.

Va detto che tra gli attori, tutti credibili, è forse Kirsten Dunst, nel ruolo della fotografa più matura, con il suo sguardo duro, severo, ma anche come torbidamente affascinato, quella che meglio esprime il senso del film.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 27 aprile 2024
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