Lo scaffale di Tellus
Marisa Cecchetti. “La sperta e la babba” di Giovanna Di Marco
04 Agosto 2023
 

Giovanna Di Marco

La sperta e la babba

Caffèorchidea, 2023, pp. 188, €18,00

 

Un arco di tempo che inizia nel primo novecento segue la vita di due donne, Lucia e Concetta. Caltanissetta e Palermo sono i luoghi di Lucia, Piana degli Albanesi il luogo di Concetta, che tuttavia da anziana varcherà l’oceano per incontrare i nipoti in California.

Figlia di nonna Pietra, di famiglia borghese decaduta, Lucia, né povera né ricca, ha sposato Vicinzino, che si è beccato la pleurite nella prima guerra, poi ha avuto il lavoro statale di portalettere. Hanno messo al mondo quattro figlie. La seconda guerra li fa muovere tra Palermo bombardata e Caltanissetta. Delle figlie Lina, la gna’ Calidda, troverà lavoro in banca; Iolanda studierà medicina; anche Ida studierà e darà lezioni private, invece Carmela, Meme, è programmata dalla madre per fare la serva in casa, curare i nipoti e i genitori anziani.

Perché Lucia - la sperta - ha tutto sotto controllo, dirige, dispone, modella le figlie secondo la sua volontà; opportunista, non ha paura di niente e di nessuno; sa mentire se necessario, giudica tutti secondo il suo metro, sa tramare la vendetta.

Se sua madre Pietra ha avuto il coraggio di andare a Roma da sola - un viaggio di sette giorni - ed ha voluto parlare con Vittorio Emanuele III in persona per far riavere il posto di lavoro ad un figlio, anche Lucia sa ottenere ciò che vuole, con rapidità di pensiero e furbizia, capace di far andare a Caltanissetta invece che a Catania un soldato americano che le ha offerto il passaggio. Guardinga controlla le vicine che posano gli occhi sul marito, dà giudizi taglienti: “figlia di buttana e faccia di uccello”.

Ammira il duce perché “ha portato ordine” e per le sovvenzioni alle famiglie, ma l’oro alla patria lei non lo dà, pronta ad ogni azione per sopravvivere. Tutto il contrario del marito, che ha rispetto del lavoro statale che svolge, un uomo onesto e puro.

Le figlie sono consapevoli della mentalità di terribile pianificatrice della madre, “tutta furia, fuoco e mente sopraffina”. Non c’è possibilità di opporsi, ma la gna’ Calidda sa che “se avesse avuto figli non li avrebbe comandati a quel destino minchione di pupini comandati, come faceva la madre con loro”. I figli dovevano essere liberi.

Lucia succhia la libertà delle figlie modellandole come cera - “manciasti, ti lavasti, studiasti, ti pittinasti? - tuttavia sente che sono venute incomplete: “non avrebbero avuto la sua stoffa, di una che ha la lingua e passa il mare, sdirupa montagne, imbroglia una americano e lo porta dove vuole, o quella di sua madre che va a parlare col re”. Secondo lei i suoi discendenti “erano tutti delle minchie morte”.

Con il largo uso del dialetto siciliano che Giovanna Di Marco alterna all’italiano, la pagina suona musicale, rimanda a Camilleri ma anche al fantasioso linguaggio di Stefano D’Arrigo.

Concetta è l’altra figura femminile, “la babba”, la donna mite tanto da apparire sciocca.

Se Lucia è concreta e umorale, Concetta è idealista e visionaria, cresciuta alla cultura arbëreshe dai racconti della nonna che evoca il passato glorioso della terra da cui il suo popolo è fuggito. Concetta vede le ombre dei guerrieri della sua terra, ascolta il fantasma della nonna e parla con lei, per questo è considerata una “megera”.

Tutti sono poveri al paese, Hora, ma hanno splendidi gioielli che testimoniano il passato e le tradizioni. Quando il padre è in guerra, il figlio maggiore sfama la famiglia, le donne vanno a servizio. Il matrimonio della sorella Giorgina non è per amore ma per necessità, perché calino le bocche da sfamare.

Il padre Gjergji - quasi tutti gli uomini si chiamano così - educa la figlia alle idee socialiste, la porta con sé ad ascoltare “l’uomo colto che vuole giustizia”, lei ne sposa pienamente le idee, si proietta in un futuro di lotta sociale e allora non le compaiono più i fantasmi. I gabellotti perseguitano chi ha idee socialiste e li scartano quando scelgono i lavoranti a giornata. Il fratello, dalla California, non manda i soldi promessi.

Legata al fratellino Gjergji, Concetta deve lasciarlo partire per l’America per rispettare un voto, anche se per lei l’America è l’opposto della sua fede socialista. A Hora sono quasi tutti socialisti, ma lei deve aspettare parecchio prima che le chiedano la mano forse perché “ha un modo di fare distante”, perché riflette sulle cose, non per superbia.

Rimane fedele al garofano rosso anche quando arriva la scissione nel 1921 e il marito va col PCI; intanto l’Italia diventa fascista, la sorella Giorgina mette al mondo sei figli e muore precocemente. Concetta cresce il nipote Giorgino - Cinio, l’unico nipote maschio che ha la sua stessa inquietudine - alle idee socialiste, anche se il fantasma della sorella la ammonisce “non riempirgli la testa di idee a mio figlio”. Lei non si arrende, perché “che senso ha la vita se ci si accomoda a questa tranquillità di pecore”?

La vita di questa sognatrice è lunga quasi un secolo. Ha tempo per individuare le azioni mafiose che prendono forza, di conoscere la strage di Portella della Ginestra, di vedere le luci e l’abbondanza di New York: Scopre che “vivevano nello spreco questi Americani” e che “non le piace questa America dei padroni”.

Una figura di donna mite Concetta, sognatrice sì ma coerente, animata da una ideologia forte in cui trova la ragione di vita. Che ha seminato idee, che le ha viste germogliare nel nipote in una forma di eternità che la morte non cancella.

Lucia e Concetta attraversano lo stesso periodo storico nella stessa terra, ma gli eventi acquistano spessore diverso attraverso la storia della loro vita, il loro pensiero e il loro sguardo.

 

Marisa Cecchetti


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