Ho letto quest’ultimo libro di poesie di Lorenza Colicigno Cotidie (dall’avverbio latino quotidianamente, giornalmente, ogni giorno) con la stessa predisposizione con cui si legge un romanzo che appassiona e ti fa affezionare ai luoghi sentendoli propri, sentendosene parte. Al centro della raccolta vive una donna e una città intera, che le ruota intorno. Il punto di vista è metaforicamente una stanza di un appartamento dell’ultimo piano di un palazzo, che svetta verso il cielo e domina dal centro alla periferia, su edifici e valli circostanti, fino al Basento.
Dico metaforicamente, perché la poesia di Lorenza “ha lunghe braccia”, che scavando in profondità si protendono oltre la sua città, muovendosi in una dimensione spazio-temporale, che dal personale si protende al collettivo, dal privato all’universale. Pronta sempre all’ascolto, a raccogliere e ad accogliere le contraddizioni del presente con tutti i tasselli della cronaca e della memoria, di chi c’è, ma soprattutto di chi non c’è e avrebbe dovuto esserci.
C’è dentro questi versi un lavoro di attenzione e partecipazione, di ascolto e scavo, che si muove dal ‘dentro’ al ‘fuori’ e dove la parola si rende libera, potente e immaginifica: “La vita mi ha presa qui,/ in questa rete di case e alberi,/ mi ha presa, più che la poesia, la vita”.
La città che Lorenza ha omaggiato con i suoi versi è Potenza, il capoluogo lucano dove si è trasferita negli anni Ottanta e dove vive tuttora, profondendo impegno, passione e grande attivismo a livello culturale e sociale.
Avevo già colto questo sguardo attento e indagatore sui luoghi, seguendo la pubblicazione di una serie di fotografie che, qualche anno fa Lorenza postava periodicamente in un suo spazio web personale, quasi a voler cogliere (entrare dentro) le sfumature e l’essenza più profonda della sua città. Non si trattava di scatti occasionali, ma di un lavoro creativo più ampio, che andava quotidianamente prendendo forma e che sarebbe confluito nella pubblicazione di Cotidie.
La silloge si apre con i versi “Mi sono frantumata in esperienze/ potermi ricomporre in un cristallo”. Si intuisce il desiderio e il bisogno di fare un resoconto della propria esistenza e della propria esperienza, di ricomporre se stessa nel cristallo sfaccettato della parola poetica. E la parola fluisce a suo agio nella sua città, nella sua casa, nella sua stanza, dentro un PC, dentro un luogo abitato da sogni, aspirazioni, sofferenze, limiti, entusiasmi. Dentro la sua città concreta e immaginata, come scrive in Matrie (la bellissima poesia d’apertura alla silloge). E sempre in questa, dettato e sintesi poetica di tutta la raccolta, la poeta vive come ogni donna, un po’ padrona di se stessa, un po’ schiava di tutti. Senso di appartenenza dunque, ma anche forte sorellanza e comunanza con le donne di cui, come donna, abbraccia il destino.
Si tratta di un vero e proprio atto poetico urbano. Un’azione che è anche sfida, rischio, perché parlare della città significa raccontarne il bianco il nero e tutte le sue zone d’ombra, con gli smarrimenti e le crepe della modernità.
Ci sono tantissimi elementi naturali, colti e osservati quotidianamente oltre il cemento (e la cementificazione) con gli occhi della bellezza e dello stupore: gli angoli di verde, un fiore germogliato nella spazzatura, il morbido della neve, i giochi di nebbia, un profilo di nube, le ombre dei palazzi, i silenzi notturni, ma anche quelli aridi di solitudine, alienazione, spersonalizzazione individuale e disadattamento con “la fretta/ d’essere altri/ d’essere diversi”, “io vivo dove gente scrive/ rammaricandosi/ del cerchio stretto/ dell’Appennino”, fino a cercare una trasformazione, sconfinante appunto nel desiderio di qualcosa di diverso che si fa strada nel sogno: l’utopia. Una parola forte, ripetuta e soppesata, che si fa destino, che racconta partendo dalla propria città un sogno (impossibile) che va oltre la fame, la schiavitù, la guerra, la tirannia del potere, l’omologazione e il pregiudizio. Scrive nella poesia L’eredità di Fernando Pivano: “Pace e libertà, utopie da persone/ speciali”. E guai se le utopie non esistessero, Lorenza lo sa, sa che sono il nostro orizzonte, ciò che ci serve per continuare a camminare.
Ho sempre amato la poesia di Lorenza, fin da quand’ero ragazza, ma con questa raccolta, credo abbia raggiunto traguardi alti per se stessa e per i luoghi che abita e che la abitano. Qui Potenza non è solo uno spazio geografico, ma una città che si fa carne e ossa, quasi un alter ego con cui tessere un dialogo fitto e polifonico di sentimenti e di pensieri. Una città reale, sognata, immaginata e soprattutto profondamente amata. “L’Appennino ti custodisce racchiusa/ nel tuo cerchio di fiumi, torrenti e valli brevi,/ il Basento, il Tora, il Gallitello respirano/ all’alba per te una corona di nebbia”. E, seppure la mente corra lontano e vaghi per altre lande e altri mondi, Lorenza scrive “Ritorno alla città da un tumulto/ di pensieri, parole, opere quotidiane”, “Ritorno alla città/ come sempre ardita di speranze, al fischio del treno”.
Maria Pina Ciancio
Da Cotidie
Matria
È questo un luogo,
dentro un pc
dentro una stanza
dentro una casa
dentro una città,
dove la parola fluisce a suo agio,
io stessa vorrei trovarmi a mio agio qui, a parlare, discutere,
[riflettere,
combattere,
scrivere dei sogni, delle aspirazioni,
delle sofferenze,
dei limiti, degli entusiasmi
di tutte noi, di noi tutti.
Vorrei che tutto questo universo di idee
ed emozioni si distendesse in un lungo diario
attento al valore dello stile,
alla distanza tra scrittura e vita, e lanciasse la sua sfida la parola
[che pratica,
oltre la sua stessa intenzione,
modelli di vita.
Il diario di una donna,
forse di ogni donna, e della città concreta e immaginaria,
in cui io, come ogni donna, vivo,
un po’ padrona di me, un po’ schiava di tutti.
Dove ogni donna vive, c’è una città,
una casa, una stanza, un angolo,
una frontiera, una prigione,
e un sogno, forse.
Forse il sogno di una matria.
Lorenza Colicigno, Cotidie
Prefazione di Francesca Amendola
Contributi finali di Mimmo Sammartino e Anna Santoliquido
Manni, 2021, pp. 224, € 22,00