Paolo Morelli
/ri-don-dàn-ze/
Èxòrma, 2022, pp. 202, € 17,00
Ci vuole davvero tanta fantasia -ed anche esperienza- a scrivere racconti come quelli di Paolo Morelli in /ri-don-dàn-ze/.
Romano, ci porta al Testaccio “una località posta al centro di Roma, tra il Tevere e l’Aventino”, un rione dall’aria “potente e immobile”. Luogo dove “si perde tempo ad esempio a studiare certe questioni che ci sembrano importanti, cercando di non farlo vedere, che si studia”. Con l’obiettivo di “tramandare, prima che vada scomparsa dalla faccia della terra, l’attitudine peculiare dell’attività fantastica… che qui prende quasi inevitabilmente forma di una sorta di burbanza o furia moltiplicatoria che si monta a dismisura prima di scemare per forza d’inerzia”.
Con queste premesse il lettore parte per un viaggio dove l’essere logici non serve più -non il dantesco forse tu non pensavi ch’io loico fossi- perché saltano i nessi logici, o si pretende di dimostrare con rigore scientifico l’assurdo, il surreale, degno delle immaginazioni più fervide.
La fantasia ha un pozzo profondo da cui Morelli attinge storie attribuendole magari al medioevo, aprendo finestre che ne contengono altre, come se si smontasse una matrioska. E il registro si adegua al contesto della storia narrata, ritornando al linguaggio del Boccaccio, se necessario, per poi risalire ai tempi nostri quando la storia cambia. Una elasticità che recupera, o meglio inventa, un linguaggio fatto di contrasti ossimorici, dove si blandisce e si colpisce: “urterei la vostra sensibilità squisita, pregiatissimi miei sbomballati, se non la facessi breve a questo punto… voi, beneamati strafatti e agganciati carissimi, così alieni dall’arte solo umana della bugia e del piccolo sotterfugio”.
Il contrasto, si sa, è la base della vis comica, e quanto più è forte, tanto più si ride. Eppure qui ci si ferma ad un sorriso ad angolo di bocca, che contiene sorpresa e un tantino di amarezza, perché ogni paradosso, ogni impresa impensabile e illogica, nascondono una frecciata, uno sberleffo, un’accusa a situazioni, abitudini, persone della nostra società.
Possono essere gli artisti divenuti famosi ma di nessun valore, come un certo Michele Battiscopa del primo racconto, un imbianchino a cui si fa credere di avere il genio della pittura -e il pensiero corre alla dabbenaggine di certi personaggi del Boccaccio-; ma anche alla popolarità basata sul nulla, che si può acquistare rapidamente con le moderne tecnologie ma altrettanto rapidamente perdere, come in Ballata di un guastafoto qualunque, senonché qui si dà la possibilità di un riscatto personale. Ma ce n’è per chi non ha mai lavorato nella propria vita e comincia ad avere gli incubi notturni di dover svolgere lavori umili, come per una spietata legge del contrappasso; ce n’è per l’assenteismo divenuto regola, con la figura di un certo Sarchioni “che aveva scoperto che si può benissimo essere impiegati in un Ministero per una vita intera, lavorando, diciamo, due settimane ogni cinquecento (ed è grasso che cola) e si ha comunque diritto ad un minimo garantito”.
La penna va libera con la mente in cerca dei bar più fatiscenti del rione, perché solo quelli risultano “simpatici”, e non sfugge il riferimento, per contrasto, alle norme igieniche raccomandate e fondamentali in questi anni; si recuperano i saccenti che parlano di tutto e di niente: qui c’è una specie di investigatore “naturale” che fa ricerche, per esempio, “sul sapore immenso dei fichi di una volta”. E non manca un sorriso tra il bonario e l’ironico sulle disuguaglianze sociali: “Da che si riconosce un ricco da un povero? Ma dal fatto che un povero tende a vestirsi bene, il ricco al contrario…”, perché ai ricchi dà un “brivido” speciale il poter fare come fanno i poveri. Si prendono di mira le false notizie, la follia dei creduloni, il turismo di massa che distrugge i posti più belli non appena vengono resi noti. E non si salvano gli scrittori o presunti tali.
Per un sorriso finale -e qui l’assenza di logica galoppa- un’appendice riporta le affermazioni più assurde, o detti memorabili, di un tale Carmine barbiere: “Cosa fanno, dove vanno le bestemmie nella notte?” O che dire di “Un prete che russa rompe l’anima al cortile”? Oppure “Come faccio a sapere che quando chiudo gli occhi non divento un fiume?”
Marisa Cecchetti