1. Giannino di Lieto è una delle voci più significative del Secondo Novecento italiano. Esordisce con la raccolta Poesie, che esce nel 1969. Egli si confronta con alcuni poeti dell’area ermetica quali Gatto, Sinisgalli, Quasimodo ma un punto di riferimento sicuro è proprio Ungaretti dell’Allegria. Le sue liriche sono scarne ed essenziali, si sviluppano in verticale e in questa verticalità ricostruiscono delle misure classiche quali l’endecasillabo, il settenario o il martelliano.
Il verso è netto, breve, ha un andamento ascensionale che tende nella chiusa ad una rivelazione improvvisa. La rappresentazione del paesaggio non è mai fine a se stessa ma attraverso una non comune capacità analogica e visionaria attua una trasfigurazione del dato reale.
La raccolta si apre con una poesia che fa da cornice all’intero libro, la quale, come dice il titolo, è Quasi un proemio:
Se ti fermerai da me
fortuna
io ti darò un castello
tutti i miei sogni
il cuore degli anni.
Si tratta di un’apostrofe propiziatoria alla fortuna. Come in un’antica favola il tempo è indefinito e lo spazio è senza contorni, dissolvente e onirico. Alla fortuna, ma anche alla silloge che sta per iniziare e forse al lettore che la leggerà, il poeta offre “un castello” che è il simbolo di tutti i suoi sogni e del cuore degli anni. Come non pensare al “cuore della terra” di Ed è subito sera di Quasimodo, sintagma che mira a significare l’essenza della realtà nella quale ciascun individuo misura la propria solitudine. Da qui, dal proprio tempo esistenziale, inizia e si svolge il salto onirico dell’io in un non ben definito altrove.
La silloge di Giannino di Lieto è ricca di luoghi, di descrizioni naturali, di immagini, di figure, di personaggi, di idee, di oggetti che si trasfigurano in un altro da sé e trasformano il visivo in visionario. Si sente nel fondo una colonna sonora che viene da lontano; è una musica antica che intona ritmi arcani e si esprime nelle cellule foniche dei versi brevi.
Ci sono dei particolari del paesaggio, messi a fuoco in una nitidezza iperreale. Le case bianche sono paragonate a colombe che dal volo del giorno vanno verso la notte dell’Appennino. Case di Gavinana, luogo magico, caro ai poeti fiorentini degli anni emetici, rimanda a Sera di Gavinana di Vincenzo Cardarelli. È una fila di case che scende dalla collina e si confronta con le altre case che circondano la dimora dell’antico Pastore:
Scendono lente
a una
a due
a tre
lente nell’ore
nella varia stagione.
Sul vicino pianoro
sono l’altre raccolte
attorno alla casa
dell’antico Pastore.
Più oltre Cimitero di Gavinana descrive un percorso lungo il greto di un fiume “che torna alla sorgiva”. I personaggi sono guardinghi e attenti nell’itinerario a ritroso per ritrovare le proprie radici:
Il collo lungo
fiammelle
tentennano
zampate di vento.
Camminiamo guardinghi
sul greto di un fiume
che torna alla sorgiva.
Lo scenario mitico si riempie di dettagli, osservati nella loro nudità; così il fico d’inverno e la cappella nel giardino (“C’era una cappella / nel mio giardino: / fra le macerie / una pisside d’argento / un bimbo / una serpe / il veleno del tempo”), la meridiana e la campana pazza (“Una campana / pazza / nella tempesta / affida / al vento / l’antico messaggio / della paura”) sono alcuni dei particolari messi a fuoco nei luoghi familiari. In Primo piano vengono osservati tre buchi nella porta come “tre brillanti rivoli del mondo”:
Ci sono
tre buchi
nella porta
chiusi
tre brillanti
rivoli del mondo
dove l’estate brucia
alligna l’invidia.
Poche creature effimere popolano alcuni testi brevi dal respiro epigrammatico; sono la serpe, la libellula diafana, un grillo con il quale l’io poetico si identifica:
Veleno di serpe
Fra le sponde gialle
l’anima del fiume
ucciso dall’arsura
beve dai ciottoli
veleno di serpe.
Peristilio
Libellula
diafana
nell’acqua
della fonte
non vedo
pesci rossi
è morta la ninfea
tu non danzi più.
Io un grillo
Io
un grillo
alla terra
abbandonata
per la brevità di un salto
ritorna e si confonde.
Si tratta di minuscoli esseri di straordinaria modernità che ricordano le farfalle di Gozzano o i licheni di Sbarbaro. Essi all’inizio del Novecento con la loro storia naturale per via analogica simboleggiano le varie tappe di un’altra vicenda, esemplare ed egualmente enigmatica, di vita, di morte, di trasformazione, quella dell’uomo.
2. Queste poesie ci danno come il grafico dei rapporti essenziali dell’io lirico con la natura, che è una delle corde dell’ispirazione che più vibrano in questa prima produzione: le albe, i meriggi, i tramonti, le sere, i mesi, le stagioni, il mare o la pioggia, il vento, le nubi, la luna si ripetono uguali e nuovi come nella realtà, spesso animati da una geografia favolosa:
Pioggia
Come da una ferita
acuti scrosci
sui tetti delle case
sulle rose rosse
sui vicoli deserti
il lamento si placa
nella pace del mare.
Sotto la brevità
di un ponte
un uomo
paralizzato
aspetta
di riprendere il cammino
sul sinuoso fiume.
L’evento naturale non è mai osservato in senso puramente descrittivo ma il poeta cerca di far percepire al lettore il mistero che esso racchiude e dunque lo carica di ulteriori allusioni, umane o metafisiche. Gli scrosci della pioggia sono come i lamenti della terra che soffre per una ferita. Essi si placano nella pace del mare. In balia della pioggia un uomo si ferma come paralizzato su un ponte e attende di riprendere il cammino dell’esistenza, che non è mai lineare ma sinuoso come il fiume che costeggia. Così il vento di ponente, il Ponentino, ha una sua vita sul mare, “alto per l’onda diversa / bianco d’estreme lontananze / breve come i pensieri / di un meriggio estivo”. Dunque all’incanto del fenomeno analizzato si sovrappone e si intreccia l’enigma dell’anima che osserva, dei suoi presagi, del suo indugio meditativo. Il dato della natura diventa allora il punto di partenza di un’intensa speculazione filosofica: “Già vivo / nelle regioni d’oriente / il giorno arrossa / la ferrigna piana / gli elmi e la corazza / che ci fecero salvi / sventrati cavalli / della mischia. / Andiamo / cautamente / indietro: / il domani / è alle nostre spalle”. Così l’invocazione alle ore sottili perché non fuggano è l’occasione per una riflessione sulla fugacità del tempo: “Non fuggite / ore sottili / dipana / il comignolo / di pioggia / s’accartoccia / vibra il tempo / una nuvola / si sfrangia / non fuggite / come mosche / su un piano / trasparente / in perpendicolo / volano via / raccogliamo / stille / nella mano”.
Questi testi sono anche tipici dell’illuminazione poetica del di Lieto, del modo in cui da un dato immediato della sua esperienza egli riesce ad arrivare ad una visione totale. D’un tratto appare il Tirreno, un mare che è una rivelazione, il luogo ancestrale dove il mitico nocchiero potrà ancorare la sua nave. Nel luogo dei sogni per eccellenza il suo interlocutore vedrà in uno scorcio fugace la costa alta con la roccia rossa, i villaggi fra il sambuco e l’antica valle fuori dal tempo dove si staglia un paese che il poeta vorrebbe salutare: “vedrai la roccia rossa / scavati fianchi / una lunga scala / villaggi fra il sambuco / nella valle / antica / un paese / salutalo per me”.
In questi spazi dissolventi e onirici camminano i soldati, inconsapevoli del luogo e diretti verso un’altura indefinita che rappresenta la vetta dell’inconoscibile. Il destino dei soldati è ignoto ed è circondato di silenzio, di oscurità e di solitudine:
Vanno
ignari del luogo
muti nella notte
per il sentiero
che porta all’alba
alla cima dell’ignoto.
E si pensa ai Soldati dell’Allegria di Ungaretti, tormentati dallo stesso senso di precarietà e di incertezza. Ritornano i soldati, in un’altra lirica fortemente analogica, dove essi rappresentano una condizione di spaesamento, di abbandono e di inerzia:
Assopiti
soldati
sotto l’elmo di ferro
nella terra fradicia
barboni
per il mondo
accovacciati
su se stessi nei cunicoli
gocciolano
i tetti girovaghi
dei carrozzoni
la calda nuvola
alitata dai cavalli
affondati nella notte.
3. A poco a poco la raccolta si popola di personaggi, prima appena sbozzolati poi sempre più precisi. C’è una figura femminile, scandita nei particolari del suo corpo, il collo nudo, il seno:
Foemina
Io non sono
il passero
che becca
nella mano
il riso bianco.
Tu mi provochi
il collo nudo
il seno
brucia la terra
la gioia della vergine.
Il poeta attende invano la donna che si attarda a parlare e brucia così l’ansia del desiderio:
Non sei venuta.
Parlando
con una lavandaia
ti attardi
per farmi soffrire.
Aspetto.
Aggredirò le ore.
Libera i passi:
il vicolo è buio
e la notte
non tradisce le ombre.
In una atmosfera panica, di dannunziana memoria, la terra si identifica con la donna e il poeta si lascia prendere da un’inquietudine nutrita di lascivia che svela un istinto sotterraneo:
La terra
è una donna nuda
che dorme
con le tette al cielo
bagnate di latte
il fiato lieve.
Noi restiamo
inquieti
con l’occhio lascivo
tradito dall’istinto.
Ma poi la donna acquista un nome: Jole, forse d’ascendenza pratoliniana (“Eri così diversa. / Di te / inesperto mi fidai / non ho nulla”), o Delia, cantata da Tibullo nel primo libro delle elegie, con connotazioni erotiche ben precise. Delia appare come una visione classica in uno scenario moderno, lo stadio; qui è sorpresa dall’interlocutore del poeta. La poesia mette a fuoco alcuni dettagli della sua bellezza, anzi è un inno alle sue forme e i versi bruciano di desiderio:
L’hai scoperta
allo stadio
per caso
mi dici
i fianchi attillati
il seno raccolto
in camicia di seta
nitida
come a palparla
è bella
l’ho vista pur io
coi capelli di fuoco
studiati in disordine
bianca la nuca
il ginocchio rotondo.
L’impazienza ti brucia
non farti stremare
Delia verrà: […]
La figura femminile è dunque epifanica e salvifica; diventa protagonista di un mito contemporaneo, che, proiettandosi nel futuro, si connota d’eterno.
Un’altra donna si delinea in fondo alla raccolta, Mita, intrisa del profumo di rose; in una cornice georgica avviene l’incontro tra lei e il poeta. I due sono ritratti come da un’ideale macchina da presa distesi in un verde prato all’alba di un giorno. Ma la giovinezza è breve e presto arriva la sera della vita, connotata dalla medesima sensazione olfattiva, il profumo delle rose. Sembra di leggere l’epigramma di un lirico greco, arricchito dalla fantasia creativa di una traduzione quasimodiana (“oggi sento ch’è sera / come il profumo / delle rose”).
4. Molte poesie di questa prima raccolta hanno una veste classica e si popolano di colori, di immagini, di particolari che trasfigurano la realtà e creano delle visioni di tipo onirico. Così testi come Ai vecchi un sorriso o Tirannia fanno intuire arcane presenze che esprimono il mistero della natura e del tempo. È “un uccello gocciolante di notte” a scandire l’ultima stagione della vita ed è un “gigante mostruoso” a simboleggiare il “picco / dell’Occidente”. Ci sono poi degli enigmatici pescatori “che vanno / nella notte cieca”. Essi si trasformano in “solenni / sacerdoti del sole / che nasce dall’abisso”. Sono dunque i sacerdoti di un rito ancestrale, legato al culto del sole. In questa atmosfera arcana il tempo è sospeso, come nei quadri metafisici di De Chirico, e l’antico ha un’assolutezza che sa di eterno. In tal modo sarà possibile sperimentare l’Alfa. Omega. e nel riposo del corpo si potrà cogliere il senso dell’indefinito:
Un giorno
il mio corpo
stanco
riposerà
lassù fra i dolci ulivi
a fiato di luna
indefinitamente.
E il vento si placherà
la furia del tempo.
Chi
darà
un volto al mio nome.
Anche l’io lirico compie il suo viaggio per mare e si avvicina a poco a poco alla meta: “Continua il corso / la mia nave: / il porto / è già vicino / e il sole / s’innalza / all’orizzonte”. Esso è anche un viaggio metafisico che ricorda quello emblematico di Ulisse nei luoghi del mito, ed è anche l’attesa di un ritorno o l’impossibilità di un ritorno. Da qui scatta il salto dal reale all’analogico, dal visivo al visionario, di cui un esempio tipico, secondo quanto afferma Barberi Squarotti, è proprio la poesia Naufragio i sogni. Qui tutta la varietà di sentimenti, di rivelazioni, di presagi, di emozioni, che fa dell’anima un universo meraviglioso, si accumula nei versi, si proietta in immagini fantastiche, in sogni colorati. Poi d’un tratto si assiste al loro naufragio nello spazio angusto di un calice bianco. Si tratta di un’esperienza di morte, che provoca un senso di disorientamento e di vertigine. Ma da un altro angolo di visuale il pensiero della morte dà anche un’ebbrezza che accomuna e appaga chi tenta di esorcizzarlo, cantando versi d’amore “nel cuore della notte”:
[…] C’è ancora un giardino:
soffiati
dalla canna
del vetraio
voci di bimbi
s’intrecciano
naufragio i sogni
fanno d’un giorno
nel calice bianco.
Ho la morte
davanti agli occhi.
Briachi
d’amore
canteremo
versi osceni
nel cuore della notte.
Ci sono poi alcune poesie che, pur nell’essenzialità dell’accensione lirica, si aprono al racconto; così 8 settembre 1943, che fissa nel titolo una data storicamente emblematica, narra della fine violenta di una bella donna sotto le bombe. Il ricordo tragico della protagonista, descritta con pochi tratti di una carnalità diffusa (“Eri una rossa / avevi il petto / come una mela / da mangiare a morsi”), arriva al massimo dell’emozione, quando lei viene trovata morta “sotto un cumulo / di pietre”. L’io lirico aggiunge un particolare idillico: “ti portai / dei fiori / presi nel giardino” e conclude enigmaticamente: “Nessuno come me / sapeva ch’eri bella / quando fosti viva”.
Interessante è il linguaggio di queste poesie, caratterizzato a volte da verbi di tipo espressionistico quali fiotta, chioccola, s’ingorga, stracqua o nomi come stroscia che con la loro violenza fonica vogliono dare l’idea di un corpo a corpo con la parola per potenziare al massimo la forza semantica dei versi.
5. Nel 1970 di Lieto pubblica Indecifrabile perché, una raccolta nella quale la ricerca poetica si fa metafisica e filosofica per arrivare all’essenza della verità. Ci sono molti titoli che impegnano parole scientifiche, quali Proporzioni, Teorema, Giochi verticali, Linea, Un pendolo, Paradigma, Connessioni, Difetti di proposizione, quasi per creare un nesso tra poesia e scienza e definire così quell’indecifrabile perché che si cela dietro la realtà e ne costituisce la struttura profonda. Quel perché, impossibile da interpretare per via razionale forse si può esprimere solo per via analogica attraverso la poesia. Questo l’autore sembra volere confessare al lettore attraverso i ventiquattro testi che compongono la silloge.
La lirica d’incipit ha un attacco fonicamente ricco: “Crepitii di un falò” che ritorna come “vento di un falò” in un altro testo. Il fuoco è creativo e distruttivo insieme, rappresenta i due aspetti della vicenda esistenziale, fatta di nascita e di morte, di rovina e di trasformazione. L’eco del suo crepitio “si rannicchia nelle grotte”; è un’immagine platonica che rimanda al mondo delle idee e alla copia imperfetta propria della realtà degli uomini. La verità si esprime attraverso due immagini di luce, quella delle stelle e quella della “lampa / nelle camere notturne”. Ma il cuore della poesia è nell’endecasillabo franto che facilmente si ricostruisce: “l’adolescenza / numerava stelle”. I numeri delle stelle, simbolici e reali insieme, informano di sé tutta la silloge. La parola-chiave grotte trapassa da questa poesia d’incipit al testo d’explicit Muri d’isole, carico di termini scientifici (cerchi, verticale, atomi, coni, stalattiti):
Nei cerchi propagati il sole è fermo
un falco verticale sulla preda
e nube ambigua, zolfo
atomi disgregati
su coni-gronda in tese d’incredibile
stalattiti d’ombra incrostano le grotte
boccaporti dell’anima:
innalzeremo muri d’isole
verdi sull’oceano.
Tra la prima e la seconda strofe la quasi-rima gronda:ombra crea un nesso ritmico che prepara l’immagine delle grotte quali “boccaporti dell’anima” con la macchia di colore finale, “i muri d’isole / verdi sull’oceano”, confine e insieme apertura verso l’infinito.
In questa silloge i versi si allungano, il linguaggio si fa più ricco e variegato. La struttura del libro è compatta con connessioni intertestuali e richiami tra proemio e congedo che costituiscono una cornice all’interno della quale si muovono i testi.
La novità di questa raccolta si approfondisce nel libro successivo, Punto di inquieto arancione, pubblicato nel 1972 dalla prestigiosa casa editrice Vallecchi di Firenze. Fin dal titolo l’autore rivela un effetto visivo e coloristico, che rimanda a quel rapporto parola-immagine, caratteristico d’ora in poi dei testi di di Lieto. Del resto le macchie di colore ritornano nei titoli di alcuni testi, non solo in quello eponimo, ma anche in Deduzione al blu e Cupole da un cuscino rosso o all’interno delle poesie: “agli uomini verdi / viaggiatori di una grande solitudine una stella il nostro carro / sconta la popolazione delle nubi tranquillo annichilire al rosso / non è più vicino di un castello medioevale tuttavia (Lapo) / riesce ad arretrare fino a noi deduzione al blu / òvvia come una palla di fuoco corre lontano perché / il cammino degli occhi è curvo così la frombola catturando vortici / si sente stanca, appare la gravità un manubrio / in scala d’altissime velocità per una geometria di maschere”. L’effetto visivo è intensificato da un senso di velocità, dal flusso delle figure che si svolgono come spinte dalla forza di una corrente sotterranea, di un fiume in piena che cerca la foce. In un altro passo si legge: “azzurro faticosamente risale scene d’orologi / al tronco un sogno dopo nomi a fiori vezzeggiati e la generazione del ferro / farà l’ombra al fuoco […]”: l’effetto coloristico che va dall’azzurro al rosso del fuoco si inquadra in una dimensione onirica dove le immagini si sovrappongono e ricordano la tecnica informale degli automatismi di immagini o del light painting. Al fondo c’è un forte disagio esistenziale, una impossibilità a capire la realtà così come essa è e una difficoltà a comunicare le proprie impressioni. La poesia si intitola Galileo relativo, lo scienziato è già presente nell’epigrafe alla raccolta.
L’esergo consiste in un passo di Galileo tratto dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, nel quale si parla dell’apparenza come forma ingannevole della realtà, per cui coloro che di notte camminano hanno l’impressione di essere inseguiti dalla luna, che appare sopra i tetti, furtiva come potrebbe fare una gatta:
“E l’accidente è il parere, a quelli che di notte camminano per una strada, d’esser seguitati dalla Luna con passo eguale al loro, mentre la veggono venir radendo le gronde de i tetti sopra le quali ella gli apparisce, in quella guisa appunto che farebbe una gatta che, realmente camminando sopra i tegoli, tenesse loro dietro: apparenza che, quando il discorso non si interponesse, purtroppo manifestamente ingannerebbe la vista”.
Anche la poesia è fatta di apparenza; mediante un approccio analogico con la realtà, fa vedere le cose da un angolo di visuale sempre diverso e nuovo. Tale caratteristica è propria anche della pittura. L’artista interpreta la natura e il mondo, li deforma, guardandoli come attraverso una lente per coglierne l’essenziale.
Le poesie presentano la struttura di una salmodia biblica, con figure di iterazione che hanno una funzione compensativa rispetto alla rima. Si pensa alle sequenze delle liriche del poeta americano Walt Whitman, costruite con delle cellule ritmiche primarie che si ripetono con ictus centrali; la punteggiatura è ridotta al minimo perché i nessi sintattici sono semplificati. Ci sono delle strutture giustappositive che si accumulano in lasse di versi lunghi, versi-lenzuolo di respiro esametrico.
Leggiamo l’attacco della poesia che chiude la raccolta:
Grappolo di nervi al di là di una gromma liquida e l’uso dello zolfo
nutre firmamenti bolle-amalgama un viaggio colpi a tùrbine la mente
essere creato la forma degli atomi autunno sotto le volte curve
un potere in forse uomo-angelo le serrature tempo immagine del legno
brandirebbe fra sopracciglia visibile crescere ai coltelli sensuale rosso
perché il papavero è gradino della luce […]
C’è una ricerca delle forme oltre che dei colori e una appropriazione della materia impiegata nell’opera d’arte. Il titolo è Integrazione del silenzio, quasi che l’assenza di suoni possa essere per così dire integrata dall’eccesso di figure in una dimensione sinestetica. Colpisce nel primo verso la catena allitterante in gr, grappolo, gromma che traduce fonicamente le incrostazioni dei colori su una ideale tela da dipingere. Il papavero è un’apparizione epifanica, quasi una rivelazione che concentra in sé la sensualità del rosso, prevalente su tutte le altre sensazioni.
6. La plaquette Nascita della serra (Geiger, Torino, 1975) è caratterizzata da sette componimenti che si presentano come prove poetiche di una possibile proiezione pittorica. Non ci sono spazi, né a capo, né segni di interpunzione, solo un fluire incondizionato di immagini con una grande ricchezza creativa e una varietà di cose e figure. I testi sono un caleidoscopio di colori, di suoni, di ritmi, di parole che tornano e si rincorrono come a voler inseguire la forma giusta e la musica adatta. La tecnica è quella dell’accumulazione analogica e della iterazione, spesso arricchita da un elemento in più che vuole rendere il movimento del testo e delle idee. Direzioni stilizzate è l’ultima poesia del libro che segna gli itinerari di luce orientati verso nuove sperimentazioni: anche qui sono dei colori predominanti (verde, arancio, rosso) a ispirare come in una tavolozza virtuale le catene immaginiste:
[…] tuniche del verde remo numeri di notte
arancio con celate ovaie gomito del ciglio lanci una pedana istanti fioriti
rosso guida dei papaveri salvazione immersa ogni custodia come ineguaglianza
su un cuscino isola conchiglie via di luce attraverso una cloaca.
La serra del titolo è forse lo spazio stretto nel quale si condensa il laboratorio di figure che prende forma e si libera nei versi di di Lieto. Forse la serra è anche il fondo della psiche nel quale cose, colori e immagini si trasfigurano e diventano astrazioni simboliche del mondo dell’inconoscibile. Come tavole parolibere di una sperimentazione sui generis i fenomeni naturali vengono classificati attraverso minute analisi di movimenti, registrazioni di suoni che solo attraverso le parole giuste possono essere espressi; c’è però il filtro di un io lirico che trasforma e rende misterioso e onirico anche ciò che appartiene al mondo visibile:
tavole del centro non stile non gesto una conchiglia di cintura
chiuso l’apparenza perlustrare un insetto ogni ticchettio ogni passo
porta la maschera semi dell’appropriarsi un fiore raggi anche del fulmine
[…] catena delle foglie pioppi altissimi pupille quell’ansia barlume ala dei bracci.
Le catene di immagini danno ansia, provocano quel disagio esistenziale che nasce dall’osservazione della realtà e dalla disvalenza tra il visibile e il visionario.
Con Racconto delle figurine & Croce di Cambio, uscito nel 1980, la scommessa di Giannino di Lieto tra parola e immagine si realizza in un volume che è fatto di versi e di pitture insieme. Qui l’artista sperimenta l’elementarità del segno grafico che vuole riprodurre con pochi tratti la complessità del reale; anche il testo poetico si spoglia di tutto ciò che è superfluo e ridondante per ridursi alla semplicità di poche forme prime, archetipi del pensiero puro. Padre in apertura del libro potrebbe forse essere letta anche in chiave psicanalitica; la rappresentazione grafica è una sorta di grata realizzata con tratti più o meno marcati, al di là della quale c’è il nulla. La grata rappresenta la separazione tra il visibile e l’invisibile, che nel testo poetico viene espresso attraverso una “O” nel buio, che è il segno dello zero, del nulla, dell’assenza di significati ma può essere anche il budello o il varco attraverso cui ciascuno deve passare per transitare dalla non vita alla vita e poi dalla nascita alla morte. La O è l’incipit mentale e potenziale di un inizio di stato, forse vuole indicare l’origine di tutte le esistenze possibili e dunque le radici dell’essere:
separazione come accusa la parte una stella sassi e conchiglie
mansueti sentieri dormendo ancora solo esperienze del padre
vissute ormai scrittura in quella traccia di un “O” nel buio […]
Nella poesia contigua Approssimazione terza la vocale che affiora è la E, la quale indica il passaggio e la continuazione da una figura all’altra in una smania creativa che informa di sé l’artista come demiurgo di parole e di immagini: “[…] un “E” conio nelle pose passaggi splendidi a memoria / del canto privo-di-oggetto”. Nel testo successivo Divisibile “U” la vocale è un segno emblematico che vuole esprimere la bipartizione, la divisione, la diramazione di un percorso in due strade separate che poi ritornano all’inizio e si ricongiungono: “dal punto sommerso lettera divisibile “U” del ramo maestro battezzato / nome a barca […]”. I segni hanno un valore iconico per il poeta ma anche per il pittore.
Nella raccolta Le cose che sono, uscita nel 2000, il testo introduttivo Poesis vuole essere una meditazione sul modo di far poesia per immagini, dunque una dichiarazione di poetica. Ogni poesia ha un suo archetipo iconico, una specie di pittogramma da cui prende le mosse la scrittura. L’autore persegue una sorta di arte totale che parte dalle figure, insegue dei segni-suono per arrivare a fissare le sensazioni in una dimensione spazio-temporale nuova e originale: “[…] Immaginare la “situazione”: Verbum materia di sé, unico, definitivo.”.
E in Auctor & Interpres di Lieto spiega la logica che sta dietro il suo progetto di sperimentazione pittorica e poetica insieme:
In principio era scrittura di immagini, scie a pena catturate dalla comune, di scena l’intuizione principe. […]
Figure e andamento delle linee si adattano ai moduli surrealisti. Le trasgressioni: accumulo, l’ordine scompaginato, riannodando i segni mi appaiono nel loro struggente archetipo. […] A questo punto la scoperta del colore, prima timido è il fondo controverso, violento degli Inchiostri. Il Segno, anzi che incavarsi nella superficie come di tavoletta d’argilla, sembra scolpito a bassorilievo, sporge col suo mistero dal colore. Infine è il segno stesso che diventa colore, inaugurando un corso ciclico che ha come punto di partenza il suo punto d’arrivo, il pittogramma.
Di Lieto si rivela un artista del nuovo millennio che attraverso la combinazione inedita di parole, segni grafici e colori vuole creare un nuovo linguaggio dell’anima, per comunicare con gli strumenti dell’arte la propria avventura esistenziale e le proprie meditazioni filosofiche.
Il passo di Parmenide che fa da esergo a questa nuova raccolta indica la ricorsività del pensiero che ritorna sempre nel punto dal quale è partito: “per me è lo stesso / da qualsiasi parte cominci là infatti di nuovo farò ritorno”. Ma in questa circolarità l’autore trova percorsi laterali, misteriosi e segreti che collegano il visibile con l’invisibile e li fa scoprire al lettore.
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Elena Salibra (1949 – 2014) è stata professore associato di Letteratura Italiana alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa. La sua attività di ricerca verte sulla poesia tra Otto e Novecento con particolare riguardo a Carducci, Pascoli, d’Annunzio e alle correnti d’avanguardia d’inizio secolo. Ha seguito con attenzione il dibattito poetico contemporaneo confrontandosi con autori italiani e stranieri.