Nell’architettura di Dispositivi, l’ultima raccolta di Stefano Guglielmin edita da Marco Saya Edizioni, due sono le chiavi di volta: l’io e i dispositivi. Entrambi, in forte tensione reciproca, si osservano e misurano in un calcolo in cui l’io si vede circoscritto da modelli, i dispositivi appunto, che per l’io non sono neppure circoscrivibili. Qui ed ora i dispositivi si fanno quel sistema, quell’unità, che all’io e sull’io si impone, definendone la sua finitudine, al punto che all’io per vivere, sopravvivere, non resta che un inesorabile disfarsi. Un frammentarsi e farsi plurale.
Dunque, in Dispositivi, unità e pluralità. Unità che Stefano Guglielmin ci mostra scegliendo tra i tanti possibili dispositivi, modelli del potere, quelli del poetico e della salute. E qui vi immette l’io, lo fa scivolare esponendolo e combinandolo con i frammenti che lo hanno alimentato e forse ancora possono alimentarlo. L’io scivola, combinandosi con schegge di passato e citazioni, riesce a dilatarsi nel presente fino anche a farsi percettibile collisione, ma è una collisione impotente, una collisione che si traduce in un perpetuarsi di desoggettivazione.
E allora, in questo sistema che chiosa la sconfitta dell’io, come muoversi per provare a far tornare la sconfitta a proprio vantaggio? La sola possibilità, anche se non salvifica, risiede in un radicale riorientamento della parola e del dire poetico. E per questo la parola di Stefano Guglielmin non è parola che crea o attraverso cui si crea, piuttosto è parola che si dà totalmente per potersi poi esaurire nella sua totalità. Dove esaurire non significa svuotarsi, privarsi di tutto il proprio contenuto, ma portarsi a compimento. Il compimento della parola, appunto. Unico elemento con cui si può disincarnare la materia del dispositivo, disincarnare nel senso di renderla visibile, fruibile. Perché è solo stendendo in modo compiuto e a polso fermo parole come ossitocina o serotonina o scrivendo “la morale è un aminoacido sociale, un dispositivo che mette in gabbia l’animale, come la poesia quando è fatta male” o “perché una fetta di mondo conta, là fuori/ si dà una forma, la vuole e ti vuole/ uguale: le cose che dici, ciò che sei e che fai”, solo in questo modo, ossia nell’indicare il centro battente di ciò che ci inghiotte, è possibile individuare una forma di soccorso, forma che coincide con una lucida constatazione dell’esistenza e della natura del dispositivo.
Lucida constatazione. Come a dire: lucida soglia. La lucida soglia su cui si erge Stefano Guglielmin, quella che gli consente di posizionare pietre angolari in se stesso e al di fuori di se stesso. Quali pietre angolari? Quella dei rimandi, per esempio, come nel testo Libri in cui richiama il suo libro precedente, Ciao cari, libro intimo e costitutivo in cui “la prima parte ha i miei amici/ morti”. E l’intimo, il costitutivo, è ciò che tiene, che può soccorrere in uno stare al mondo che è fatto di dispositivi. Un rimando che si fa respiro, restituzione dell’umano.
E poi ancora la pietra angolare delle citazioni, Corrado Costa la lepre e l’erba in Collocare i nomi, o l’ermo colle e il naufragio di leopardiana memoria in Caterpillar, pietre pulsanti per tessere legami, per ridisegnare la forma dei polmoni, l’ostinato pronunciarsi per cercare un senso nonostante i dispositivi, il loro condizionamento.
Due chiavi di volta, si è detto, l’io e i dispositivi. Chiavi di volta su cui Stefano Guglielmin incentra la sua riflessione consegnandoci un’opera in cui la parola, esplorando se stessa fino al compimento di se stessa, delinea la rete del sistema in cui siamo con determinato disincanto, senza mai cedere alle sirene della finzione o dell’edulcorazione perché lo scandalo e il paradosso in cui siamo non ammettono né finzione né edulcorazione ma totale presa d’atto.
Silvia Comoglio
Stefano Guglielmin, Dispositivi
Marco Saya Edizioni, 2022, pp. 58, € 10,00