Canta l’alba, meglio le albe, Lucetta Frisa nella sua ultima raccolta Ho tante albe da nascere edita da puntoacapo. Albe. Alter ego e presa d’atto che non esiste, non può esistere, una sola luce, un solo sorgere, un solo tempo. L’alba, dunque, come forza di gravità in cui disegnare e ridisegnare la propria soggettività. Disegnarla/disegnarsi e ridisegnarla/ridisegnarsi dopo il sonno e quanto lì, nel sonno, è rimasto come sogno o come io. Identità che si ridefinisce. Estaticamente ed esteticamente. In tempi e paesaggi nuovi. In un germogliare continuo di un tu da te: E tu/ vai germinando in te un altro/ da te/ che dal grembo si stacca per vedere/ senza ciglia/ gli infiniti spettri del sole. Tu e te. Mai in dissociazione o collisione ma radici che si intrecciano, mescolando piani lessicali ore e balconi (Alle sei del mattino sul balcone… A mezzogiorno se resto sul balcone… Alle nove di sera sul balcone…).
E chi scrive si osserva e osserva. E lo fa con una lente di ingrandimento il cui tocco è leggero ma concettualmente definito. Un osservare intimamente correlato con ciò che la vita è. Embrione cellula bambino infanzia. Così si fiorisce, così tu e te, contemporaneamente, sono nella scrittura. E contemporaneamente assorbono con e nella scrittura zampe di volpi, strade nella neve, bambini che entrano nel mare. Un multifocale orologio del tempo che Lucetta Frisa dilata e rovescia con una parola che si potrebbe definire estesa.
Estesa perché è e scandisce tempo natura e mondo nella sua piena fisicità. E perché è tonalità ampia e robusta. Ma anche estesa perché Lucetta Frisa la innerva, è vero, del suo io ma non ne comprime mai luce e pienezza. Ossia: Lucetta Frisa e la parola si animano e si infiammano in un’unione in cui ciascuno dei due soggetti sa mantenere la propria riserva di autonomia e, quindi, di libertà. E questo è il punto. Il non comprimersi e/o comprimere. Il mantenere la propria originaria unitarietà. Perché è solo così che si può nascere in tante albe. Che si possono avere tante albe da nascere.
La volpe posò le zampe un’altra volta e inaugurò una strada nella neve/ altre volpi posero le loro sulle sue impronte l’uccello/ proseguì il suo arioso disegno il bambino/ entrò nel mare e scoppiò a ridere un’altra volta. Ecco, zampe che si posano ancora. Che inaugurano strade. Che lasciano impronte su cui si posano poi altre/tante, chissà quante?, zampe per altre/tante, chissà quante?, volte.
Ed ecco, in questo altre/tante, siano esse zampe volte albe, il fondamento/le fondamenta di Ho tante albe da nascere. L’esplicitarsi di una visione poetica che è consapevolezza della complessità e della pluralità dell’esistenza e dell’esistente. Che vi aderisce emotivamente e razionalmente. E che, soprattutto, le restituisce con coerenza e limpidezza di linguaggio in una dinamica che declina l’esistenza e l’esistente in tutti i loro possibili gradi di luce e ombra. Quei gradi di luce e ombra che Lucetta Frisa sapientemente fonde con la fluidità, e anche, eccola ancora, con la pluralità di quei nostri tempi (nascita infanzia vita morte, passato presente avvenire) che ci costituiscono come memoria ma anche come amnesia.
All’alba/ gli uccelli cantano/ note smemorate/ all’aria/consegnano una luce/ tenuta stretta in gola nella notte./ Dal chiaroscuro/ cominciano a interrogarsi:/ sempre saranno i soli/ a trovare risposte.// Ora nella sera/ con tutte le parole accumulate/ lei resta muta/ disegnando/ cancellando/ disegnando/ cancellando/ i contorni della bocca.
Silvia Comoglio
Lucetta Frisa, Ho tante albe da nascere
puntoacapo, Pasturana, 2022, € 12,00