“Considera la conoscenza della voce/ non più cara del vento profetico/ e considera il silenzio inesorabile/ della memoria”. A trent’anni dalla prima edizione Elio Grasso ci ripropone per i tipi di puntoacapo il suo L’angelo delle distanze, in cui sono racchiusi i versi appena citati. Ci ripropone, Elio Grasso, una soglia in cui si combinano antitetici gradi di materia, ossia l’immanenza e la trascendenza, e ci invita a considerarli, a soppesarli, con la consapevolezza che per immanenza e trascendenza si intende quella parte viva che regge la soglia. Quella parte capace di innestarsi in noi che siamo chimica e metafisica, potenziando gli effetti e le conseguenze di questo nostro essere e l’una e l’altra cosa. E il principio di tutto, l’in principio, è in una questione, la questione della sostanza. È questo, la sostanza, che si deve considerare. Dell’angelo, del vento profetico. Della conoscenza della voce, del silenzio e della memoria.
L’angelo. Come a dire: l’impalpabile, l’oltre, quel compagno celeste, distante e anche forse effimero (fa parte, forse, l’angelo di Elio Grasso della schiera degli angeli effimeri di cui ci parla una leggenda talmudica? quelli che vivono soltanto per il tempo del canto che innalzano a Dio?). Angelo. L’angelo che forse (ancora un forse) è il vento profetico, quello spostamento improvviso che ci dice che la nostra sostanza anche se è fatta di cellule e materia appartiene a qualcosa (qualcuno?) che la trascende. Un dire che ci muta in sobbalzo perché ci mostra rischi e paure, ci costringe “a chiudere una parte del viso”. Una chiusura benefica? Che contiene una dose di tenerezza o dolcezza? Di certo una chiusura che invita ad entrare nella conoscenza della voce. Un entrare in ciò che la voce conosce e nella voce stessa, per conoscerla e viverne il suo stato di conoscenza. Un invito a prendersi cura della voce, “cara” perché di una intensità che combacia pienamente con il vento profetico.
La voce che udiamo, che vive nella nostra gola, che si muove all’unisono con le nostre labbra, è dunque pari al vento profetico. Identico valore, e amore. Identico anche nel ribaltamento, quando la memoria si fa silenzio, quando il canto dell’angelo effimero tace e la memoria si fa strana china, idea da trattenere sull’orlo del dire e pensare. Del considerare.
E allora, la distanza? Meglio, le distanze. Che ne è delle distanze? Indicarle, farne piombo (sulla soglia, sulla pagina) è necessario. E necessario è percorrerne il disegno. Afferrarle, aggrappandosi. E Elio Grasso questo lo sa bene. E con la sua sensibilità e scrittura in questi trent’anni ce lo ha insegnato. Distanze e sperperi (Lo sperpero degli astri), i varchi in Varco di respiro e il crinale di Novecento ai confini. Tutto radicalmente necessario. Perché è il punto di partenza per smascherare e attualizzare la propria componente metafisica. Per puntellarsi. E vivere, poter vivere, le proprie crepe, quelle del cuore e del corpo.
Un orizzonte di rigore e svelamento quello tracciato da Elio Grasso. Un orizzonte in cui la parola ha pieno potere perché è sua la logica del mettere tutto in luce. Logica in cui Elio Grasso si immerge con sapienza e cautela, consapevole che questo è l’unico modo per angelo e uomo di misurarsi con le distanze, con la loro forza di gravità, stando, l’angelo e l’uomo, entrambi effimeri (questione di sostanza, si era detto), nella stessa prospettiva, che è poi quella capace di custodire il germe di una alare bellezza.
Silvia Comoglio
Elio Grasso, L’angelo delle distanze
Prefazione di Stefano Verdino
Postfazione di Maria Luisa Vezzali
puntoacapo, 2021, pp. 108, € 15,00