Davvero imperdibile, per tutti i milanesi amanti della letteratura, è la mostra “El sur Carlo milanes – Carlo Porta nel bicentenario della morte” che si può visitare (gratuitamente) nel cortile della Rocchetta del Castello Sforzesco, all’interno della bella Sala del Tesoro, fino al 25 luglio (ingresso dalle 10 alle 17:30).
Caratterizzata da numerosi scritti autografi, da edizioni originali di poesie e poemetti, da un interessante itinerario dei luoghi dove il Porta ha ambientato l’azione dei suoi personaggi, la mostra ha anche l’ottima idea di raccogliere quelli che sono stati i giudizi sull’opera del Carlìn.
Infatti, ancora adesso accade che il suo enorme spessore poetico e la sua eccelsa bravura vengano messi in secondo piano dalla lingua che ha utilizzato, come se il dialetto lo ponesse automaticamente fuori dall’empireo della letteratura. Un errore grossolano perché un poeta, se è veramente poeta, può scrivere in qualsiasi lingua del mondo.
Anche in quel milanese che sta scomparendo, come sottolineava Eugenio Montale: “Porta è – provvisoriamente – un immortale: finché esisterà qualcuno capace di intendere il suo linguaggio”.
Ed è un vero peccato che Carlo Dossi non sia riuscito nel suo intento: “Se morirò ricco, lascerò una somma sufficiente per ché si fondi in Milano una cattedra di milanese (…). Vorrei evitare ai futuri milanesi la disgrazia di non poter più comprendere e gustare Carlo Porta”.
Certo, per assaporare al meglio gli scritti del Porta sarebbe preferibile essere milanese o lombardo, proprio come Carlo Emilio Gadda: “Mio padre leggeva, non male, le sestine di Carlo Porta, prima che mia madre mi leggesse il primo Dante o mi porgesse da leggere il Manzoni”.
Perché una volta era normale, in certi ambienti, sentirlo fin dalla più tenera età, perché: “Le poesie di Carlo Porta sono uno dei grandi libri dell’educazione sentimentale di ogni lombardo”, come ha scritto Dante Isella.
Tuttavia, le sue capacità lo proiettano ben oltre la terra di Lombardia, come ha evidenziato Giovanni Raboni: “Porta è degno di essere incluso, accanto allo stesso Manzoni e al Leopardi, nell’unica “triade” accettabile che si possa escogitare nel campo della letteratura italiana moderna. Ma non si rende completa giustizia alla grandiosità e complessità del suo mondo espressivo e del suo sapere umano se non lo si accosta (…) anche ai Balzac, ai Dickens, insomma agli eccelsi rappresentanti del romanzo realista borghese – di quel romanzo che l’Italia non ha avuto”.
Tra gli estimatori del Porta non mancano alcuni miti della letteratura italiana, a partire da Giosué Carducci: “Tra il Parini e il Manzoni, come poeta e satirico del costume, come inventore e modellatore di tipi saltanti su dalla vita, non può stare che il grande meneghino Carlo Porta”.
Ugo Foscolo, invece, è stato amico del Carlìn e in una delle sue lettere a lui indirizzate così scriveva: “Carlo Porta fratello (…), io Meneghino Fenestra girovago, stando oggi in Bologna, né sapendo domani dove sarò, vi saluto con tenerezza e desiderio di cuore (…). Addio, Omero dell’Achille Bongé – Addio”, Ugo Foscolo.
Più avanti lo stesso Gabriele D’Annunzio è rimasto colpito dalla lingua e dalle opere del sur Carlo milanes: “E fin d’allora io m’arrischiavo a parlare nel dialetto di quello stupendo Carlo Porta che avrei voluto fosse ristampato nitidamente da Emilio Treves, promettendogli un mio proemio aguzzo”.
E col “Vate” ha concordato – un po’ a sorpresa – il “futurista” per eccellenza, Filippo Tommasi Marinetti, affascinato dall’ardire del tono di alcune liriche del poeta meneghino: “Il genio di Carlo Porta vinse i moralismi imponendo ad aristocratiche dame cardinali giuristi e portinaie le sue poesie oscene perché nobilitate da una stupenda arte affascinante”.
Un modo di scrivere che ha conquistato anche Giovanni Testori: “Ciò che, ad ogni lettura del grande Porta, maggiormente colpisce è la forza aggettante, la prepotente, irresistibile pregnanza fisica e, quasi, fisiologica della sua parola: direi la sua specificità più teatrale, che lirica o narrativa. Leggendo Porta è quasi impossibile resistere alla tentazione di pronunciarlo, di dirlo, di recitarlo”.
Perché in lui c’era un’energia speciale, come ha sottolineato Franco Loi: “Porta è uno di quegli uomini che hanno vissuto profondamente le contraddizioni degli uomini, delle idee, degli amori, delle speranze. La sua poesia è paesaggio e grido, momento di ragione e momento di passione”.
Il nostro è stato molto stimato a “casa sua”. “Carlo Porta è il Rossini della nostra poesia in dialetto milanese”, ha detto Giuseppe Rovani. Mentre all’amico Fauriel così scriveva Alessandro Manzoni: “Il suo talento ammirevole, che si perfezionava di giorno in giorno, e al quale non è mancato altro che l’esercizio in una lingua colta per porre chi lo possedeva nelle primissime file, lo fa rimpiangere da tutti i suoi concittadini; il ricordo delle sue qualità è per gli amici motivo di rimpianto ancora più doloroso”.
Un rimpianto di cui Tommaso Grossi è stato il perfetto cantore, unendo la figura dell’uomo a quella del poeta: On talent inscì foeura de misura, / senza nanch l’ombra mai de dass el ton, / on’anima inscì candida, inscì pura, /pienna de carità, de compassion.
Per cui l’invito che rivolgo a tutti è lo stesso di un altro (momentaneo) immortale, Delio Tessa, tra l’altro bravissimo interprete dei brani portiani: Contra i melanconij, contra i magon / rezipe, el me ziòn/ rezipe i rimm del Porta. E allora, andiamo alla mostra e soprattutto riprendiamo le poesie di Carlo Porta, gustandone a pieno l’arguzia, la sensibilità, la potenza e, ovviamente, la lingua.