Una intervista a ruota libera con il batterista Enzo Carpentieri, dove le domande sono solo un pretesto per una narrazione spontanea e ricca di aneddoti e di spunti che renderanno interessante la lettura ad ogni appassionato.
Un musicista eclettico che integra gli elementi più tradizionali della musica afroamericana con quelli più moderni: dall’hard bop al free jazz, dal mainstream all’avanguardia, il batterista Enzo Carpentieri si trova a proprio agio con le più disparate musiche riuscendo ad esprimersi con successo in diversi contesti stilistici.
Attivo sin dalla metà degli anni ‘80 suona di frequente con i musicisti italiani Massimo Urbani, Piero Odorici, Carlo Atti e il grande Sal Nistico, accompagnando occasionalmente diversi solisti in tour come Art Farmer, Dusko Goykovich, Valery Ponomarev, Tony Scott, Steve Grossman, Ralph La Lama, Harold Danko, Vic Juris, Cameron Brown.
Collabora in modo continuativo con formazioni stabili con Dick Oatts, Jim Snidero, Bob Sands, Kurt Weiss, Erwin Vann, Tony Overwater, Paolo Birro, Ettore Martin, Roberto Magris, Robert Bonisolo; Antonio Faraò e altri.
Registra diversi cd tra i quali ricordiamo Guest – European Music Orchestra (Soul Note) alternandosi con Aldo Romano alla batteria e con solista ospite Kenny Wheeler, mentre l’ultima sua produzione discografica è Theory of Dreams, di cui potete leggere su Tracce di Jazz la recensione di Andrea Baroni, un live con Pasquale Mirra al vibrafono e Rob Mazurek alla cornetta.
Creatore di progetti originali e i più diversi tra loro, come Dufay, ispirandosi al compositore fiammingo del rinascimento Guillaume Dufay, o come Dolphiana.
Tiene concerti in molti paesi Europei e in Canada, Australia, Asia, Cina, Indonesia.
Si esibisce dal più piccolo dei jazz club ai più grandi teatri, dal Festival jazz di Melbourne al Conservatorio di Tashkent, dal Puppet Theatre di Samarcanda al Gedung Kesenian di Jakarta, dall’Academy for Performing Arts di Hong Kong alla Xinghai Hall di Guangzhou, dalla City Hall di New York al Festival jazz di Vancouver.
Parallelamente alla professione di musicista svolge diverse attività legate al mondo del jazz: lavori di musica per teatro sperimentale con il Tam Teatromusica, collaboratore da molti anni per la Rassegna Jazz Internazionale del Centro d’Arte degli Studenti dell’Università di Padova, direttore artistico di ZeroZeroJazz e festival manager del Padova Jazz Festival per varie edizioni.
TdJ) Il riaffacciarsi della pandemia ed il conseguente secondo lockdown ha messo in grave difficoltà una serie di professioni, tra cui purtroppo quella del musicista. Festival rinviati, concerti saltati, tour annullati, uscite discografiche posticipate, scuole di musica chiuse o a mezzo servizio. Non basta sicuramente il concerto in streaming e la prospettiva futura non è delle migliori. Come vive questa situazione sulla propria pelle un musicista ? Come si può difendere, che soluzioni ricerca, quali aiuti sono o non sono scesi in campo?
EC) Soluzioni direi che non ce ne sono, casomai qualche rimedio, cercando di ammortizzare la botta restando attivi e creativi.
L’oggi sembra per tutti un po’ il tempo dei ricordi proprio perché non si riescono ancora a fare programmi per il futuro, tanti sono gli spostamenti e i rinvii di concerti sospesi e allora si va indietro a riguardare cosa hai fatto, cos’hai in archivio, cosa vorresti fare una volta terminato il delirio di questa pandemia, ma non sai ancora quando potrà essere possibile e allora mi scatta di mettere in atto quello che io chiamo “il pensiero laterale”, una pratica che coltivo da un po’ di tempo e che va fatta aldilà della necessità del momento.
Cerco di spiegarmi meglio, l’essere umano è abituato a guardare in avanti e indietro, il passato e il futuro, visualizzandoli in linea verticale: il passato è dietro, il futuro è davanti, e spesso si pensa in linea retta, dritta, mentre il pensiero laterale ti permette di stare di più nel presente guardandoti intorno anche a destra e sinistra, in obliquo, storto o distorto, e talvolta ti si aprono altre strade impensate, nuovi sentieri che non avevi immaginato. Un po’ li cerchi e un po’ ti vengono offerti durante il cammino, comunque per ottenere dei risultati devi praticare, esercitarti quotidianamente in una sorta di libertà controllata, ci vuole disciplina.
(Futuri Impensabili, come il titolo di un libro di Brian Eno)
Poi l’altro ieri, in mezzo al nulla, nel deserto totale, mi arriva invece una richiesta per un concerto in streaming in club e quasi quasi non ci credi, non ti sembra possibile che ti esibirai in Sicilia in uno tra i più bei jazz club che l’Italia possa offrire, il Tatum Art di Palermo dove suonerò in streaming in trio con Piero Leveratto e Robert Bonisolo, il concerto è ancora da confermare ma pare si faccia. Non mi piace lo streaming fatto in casa dove suoni da solo e gli altri sono a distanza e poi si assembla insieme il tutto, non mi piace come approccio e quindi non è la mia scelta primaria.
Ricordo tempo fa, negli anni 90, di aver registrato un disco con un’orchestra dove ci alternavamo alla batteria io e Aldo Romano, solista d’eccezione era Kenny Wheeler alla tromba, ma io non ho mai suonato con lui (!). Lui invece ha suonato con me, anzi ha suonato su di me, sopra di me, sulle nostre basi, come se noi stessimo suonando per un Aebersold, mentre lui da casa si è sparato i suoi fantastici soli. Mi spiegate come posso dire di aver suonato con Wheeler? Certo ho un disco dove suono con il grande Kenny Wheeler ma in realtà io dal vivo non ho mai suonato con lui, non so se mi spiego.
In quanto al discorso degli aiuti essendo un lavoratore intermittente ho ricevuto solo delle cifre ridicole di cassa integrazione in 8 mesi di emergenza sanitaria, tra l’altro ottenute solo di recente e non quando sarebbero servite veramente. Campa cavallo che l’erba cresce.
Nonostante questo ho fatto sempre corpo unico e solidale tra musicisti firmando petizioni e richieste a nome di una intera categoria, We Are One!
E allora andando indietro con la memoria, ti salta in mente di far uscire dei live precedenti in versione digitale, nella piattaforma Bandcamp dove si possono sia ascoltare che acquistare, un vantaggio per musicisti e appassionati alla ricerca di musica nuova o documenti musicali ripescati da un passato chiuso nei cassetti, musica che bisogna liberare e far sentire, quindi grazie a Bandcamp posso pubblicare lavori del passato, ne ho in cantiere diversi da pubblicare.
Alcuni tra quelli già usciti secondo me sono di interesse storico, come la registrazione dal vivo con John Tchicai, ospite di Dolphiana, sestetto italiano con una front line che utilizzava tutti gli strumenti che Dolphy usava: Francesco Bearzatti, Piero Bittolo Bon, Achille Succi ai fiati, sezione ritmica con Giorgio Pacorig, Danilo Gallo e il sottoscritto, l’ideatore, che avevo convocato tutti insieme per l’occasione, con Tchicai ospite d’onore al sax tenore.
Un album fantastico per molti versi, a partire dalla freschezza del primo incontro, partiture viste solo al mattino, una breve prova in teatro e poi alla sera concerto estivo all’aperto con un bel pubblico attento e caloroso, un omaggio a Dolphy nel suo 80° anniversario. Da ascoltare!!
TdJ) Nel 2020, nonostante la pandemia, sono usciti due album nuovi. Uno a nome tuo, Theory of Dreams, in trio con Rob Mazurek e Pasquale Mirra. E uno a nome di Greg Burk Message in the Clouds con Stefano Senni al contrabbasso e tu alla batteria. Raccontaci qualcosa delle due diverse pubblicazioni, così diverse tra loro e anche distanti temporalmente.
EC) Gli eventi sono tutti collegati, in quanto esattamente il giorno dopo Dolphiana andammo nello studio di Stefano Amerio per registrare con Tchicai, Marc Abrams al contrabbasso e Greg Burk al piano. Ne uscì un album splendido, Look To The Neutrino e con il John Tchicai Lunar Quartet suonammo in giro per qualche anno fino alla scomparsa di John, una leggenda del free che dava ancora succosi frutti dalla sua fertile creatività.
L’anno successivo l’uscita dell’album con Tchicai conobbi Rob Mazurek ad un suo concerto con i primi Sao Paulo Underground, prima della formazione in trio, quando suonavano ancora in quintetto. Dopo il concerto che tennero per la rassegna del Centro d’Arte andammo tutti insieme a bere qualcosa e prima di salutarci regalai una copia del disco a Mazurek. Dopo qualche mese Rob mi scrisse congratulandosi per la musica del disco, dicendo che gli avrebbe fatto piacere se prima o poi avessimo suonato insieme. Non mi feci sfuggire l’occasione e durante un suo seguente tour in Italia in un paio di day-off, facemmo dapprima un concerto in trio con Danilo Gallo e il giorno seguente in studio da Mario Marcassa per una registrazione in quintetto alla quale si aggiunsero Enrico Terragnoli alla chitarra ed effetti vari, e Stefano Senni al contrabbasso in affiancamento a Danilo Gallo, con due bassisti quindi. Il disco uscì a mio nome e la musica era totalmente improvvisata senza alcuna indicazione, ognuno aveva portato musica da leggere ma decidemmo di suonare solo telepaticamente.
Chiamai il gruppo con il nome “Circular E-Motion” che è diventato un pò il mio marchio di fabbrica con cui ho all’attivo 3 dischi: il primo, registrato in studio è Everywhere Is Here; il secondo è Morse Attack tratto da un live al Centro d’Arte di Padova dove al quintetto si aggiunge anche Pasquale Mirra al vibrafono in un brano mentre altra musica è presa dalla sessione in studio con tracce che erano rimaste fuori per sovrabbondanza di materiale; il terzo album è Theory of Dreams con una formazione in trio con Pasquale Mirra e Rob Mazurek.
Theory Of Dreams, live del 2014, ha raccolto ottimi riconoscimenti, segnalato da Bandcamp come tra i migliori dischi di jazz usciti nel luglio 2020.
Passando a Greg Burk, con cui suonavo in quartetto con Tchicai, in quegli anni iniziammo a suonare anche in piano trio con Stefano Senni al contrabbasso. Greg Burk Expanding Trio è attivo da qualche anno e con questa formazione abbiamo suonato in giro per l’Italia ma anche all’estero, in UK dal Derby Jazz al Ronnie Scott’s di Londra e al Buenos Aires Jazz Festival nel 2016.
L’Expanding Trio, dopo il primo disco Deep Blue Sky dove Greg alterna il piano al moog, è tornato alla ribalta proprio ora con la pubblicazione dell’album Message in the Clouds (Tonos, 2020) in un contesto completamente acustico, dove Burk suona solo il pianoforte.
Registrato in due sessioni a Roma nello studio di Clive Simpson nel novembre 2019 e a metà gennaio 2020, giusto appena prima della pandemia. Un lavoro a cui tengo particolarmente dove la coesione del trio esalta la poetica di Burk, da ascoltare, lo consiglio!
TdJ) Nella tua carriera hai suonato con un numero notevole di musicisti, dal bop alla pura improvvisazione. Qual è l’ambito che preferisci e perché?
EC) Mi piacciono entrambi! Jazzisticamente sono nato ascoltando hard-bop con i Messengers di Blakey, i quartetti di Roach che già spingevano in direzioni più aperte, il quartetto classico di Coltrane e i suoi ultimi anni dove la musica si direzionava più verso il free, i quintetti tradizionali di Davis con Philly Joe e Jimmy Cobb, fino a quelli con Tony Williams dove spingeva la musica in nuove direzioni.
Al contempo seguivo tutti i concerti del Centro d’Arte dell’Università di Padova, una rassegna jazz che negli anni ha mantenuto sempre un certo rigore sulla linea della musica improvvisata, il free e la sperimentazione e così mi sono intrippato anche con forme di espressione e creatività meno canoniche. Ancora oggi mantengo l’amore e la passione per entrambe e son pronto a suonare in un contesto bop come in uno free, se poi in entrambi spunta fuori l’anima del blues... era Carmen McRae che diceva che il jazz senza blues è come il pane senza lievito?
TdJ) Se tu potessi scegliere liberamente tra i tuoi colleghi, italiani e non, con chi ti piacerebbe suonare? E per quale motivo?
EC) Diciamo che la scelta ricadrebbe su musicisti con cui poter continuare a fare un certo discorso per un periodo di tempo pensando ad uno spazio ampio con dischi e concerti e non cose occasionali come spesso mi è successo da sideman, e che comunque mi hanno aiutato molto nella crescita. È bello sì accompagnare il musicista di passaggio in Italia, ma dopo un po’ vorresti avere delle collaborazioni fisse.
Quindi ti porto ad esempio musicisti con cui ho già fatto un percorso e che mi piacerebbe continuare o riprendere in mano. Sono contento quindi di continuare a suonare con Greg Burk, un musicista con cui si è saldata una bella amicizia e un sodalizio musicale dove nella sua musica sento molto un lato poetico vicino al mio intimo romantico.
Con lui mi è capitato di suonare in quartetto anche con David Murray, esperienza bellissima, ma resterà un esempio isolato, quindi preferisco lavorare su progetti che abbiano modo di svilupparsi nel tempo, come quello con Rob Mazurek con il quale mi piacerebbe riprendere una collaborazione interrotta nel 2015, che fu per me un anno sabbatico che ha però interrotto un flusso creativo al massimo dei risultati. La vita a volte ti pone di fronte a nuove realtà e quindi qualcosa devi lasciare, ma poi la vita continua con altre offerte e nuove scoperte.
Restando in ambito modern bop mi piace molto l’artista Dick Oatts che suona alla grande e scrive musica che mi stimola molto, quindi mi piacerebbe riprendessimo una collaborazione che aveva dato buoni frutti in qualche tour italiano di qualche ano fa.
Interessante è stata anche la collaborazione con Markus Stockhausen alla tromba e Fabio Mina ai flauti, Music between Earth and Sky, ma abbiamo fatto pochi concerti e non siamo riusciti ad andare avanti anche se rimane sempre nell’aria la voglia di riprendere il discorso.
Un altro musicista con cui vorrei mettere su qualcosa è Giovanni Falzone, abbiamo fatto un solo concerto insieme e c’era una grande forza di energia creativa, molta empatia, sono scattate scintille, musica ad alto voltaggio.
TdJ) Quali sono stati i tuoi modelli ispirativi sul tuo strumento? E quali gli attuali protagonisti della batteria ai quali va la tua ammirazione?
EC) I tre Jones, Papa Jo, Philly Joe ed Elvin sopra a tutti, ma anche Blakey, Roach, Roy Haynes e tantissimi altri dell’hard-bop, una lista lunghissima, nomi un po’ meno valutati come i batteristi di Monk, Ben Riley e Frankie Dunlop. Tra i miei preferiti ci sono Eddie Blackwell e Billy Higgins, poi spostandomi in ambito più moderno Tony Williams, Jack De Johnette, Billy Hart, ma li sto sparando a ruota libera, di sicuro qualche grandissimo resta fuori, di quelli attuali usciti più di recente negli ultimi anni direi Bill Stewart, Eric Harland, Brian Blade, Jeff Ballard. Nel drumming del free mi piacevano molto lo stile e i suoni di Barry Altschul, Philip Wilson e poi Joey Baron, Tom Rainey, Jim Black, Hamid Drake, Han Bennink e di recente mi ha molto colpito Savannah Harris.
TdJ) Una esperienza musicale vissuta e pregnante che vorresti far conoscere a chi ti segue?
EC) Una cosa di cui io parlo spesso è stata la mia esperienza come drum roadie con Wayne Shorter Group negli anni 87 e 88. Nel primo tour estivo dell’87 fu una passeggiata in quanto i concerti erano pochi e i day off molti, qualche concerto in Italia, a Lugano e poi allo stadio di Atene.
La settimana più di relax fu quella nel sud della Francia, in Costa Azzurra al festival Jazz à Juan, dove dal backstage del palco con una scaletta scendevi in un’area privata della spiaggia di Antibes Juan Les Pins riservata al festival e dove transitavano Sonny Rollins, Pat Metheny, Irakere, Kid Creole and The Coconuts, Fats Domino, Ray Charles e le Raylettes e molti altri, insomma una grande festa del jazz.
Io stavo dietro alla percussionista Marilyn Mazur e alla batterista Terri Lyne Carrington allestendo il complicato set di percussioni e quello della batteria che aveva vari devices con piatti triggherati, pad elettronici. L’anno dopo, nell’88 mi chiamarono per il secondo tour europeo che si estendeva per una durata di 50 giorni, 42 concerti e 15 paesi. Per raggiungere le varie destinazioni viaggiavamo con un Bus Nightliner con 2 autisti a turno, e tutto il team con i posti letto, poi si arrivava in grandi hotel e subito in movimento per il sound check e i concerti.
L’energia che ho assorbito in quel tour fu qualcosa di eccezionale anche perché faceva crescere in me forza, visto che avevo accettato quell’incarico in pieno delirio di agorafobia, ma non potevo lasciarmi sfuggire una occasione simile e quindi, lottando contro la mia psiche instabile, accettai l’incarico forzando la mia ormai critica immobilità in un viaggio lunghissimo. Terapia d’urto, funzionò, per fortuna!
Ho tanti racconti, non solo personali: il mare del nord in mezza tempesta, i paesi scandinavi e i boschi di betulle, le scogliere di Dover, le autostrade sospese nel nulla in mezzo al mare per chilometri nei Paesi Bassi etc.; per vincere l’agorafobia era proprio quello che ci voleva, ma anche rilassarsi al Normandy di Parigi, la residenza di Wayne nell’85 quando collaborò al film Round Midnight di Bernard Tavernier con Dexter Gordon.
Anche per questi motivi devo molto a questa esperienza che è stata un punto importante per darmi una bella mossa, una svolta personale.
TdJ) Parlare di progetti futuri in questo frangente è come minimo azzardato, ma hai qualche idea e/o collaborazione nel cassetto pronta per quando finirà questo incubo?
EC) È da un po’ che ci rincorriamo con l’organista Brian Charette, me ne parlava spesso il chitarrista Yotam Silberstein dicendomi che noi due avremmo dovuto conoscerci, e così in uno dei miei viaggi a New York dopo un concerto allo Smalls con Yotam Silberstein, ne organizzammo uno in trio con Charette al Trumpets Jazz Club in New Jersey. Con Brian avevamo in programma una serie di concerti in Italia la primavera scorsa, poi spostati in autunno, ma si sa gli americani non possono ancora volare per via della pandemia e quindi speriamo per la prossima primavera di riuscire a rimettere insieme il giro che è rimasto in sospeso.
Altra collaborazione che mi piacerebbe riattivare è quella con la pianista Angelica Sanchez con cui è uscito di recente You Look Fly un disco pubblicato su Bandcamp, una registrazione in studio in quartetto con Danilo Gallo al contrabbasso e Francesco Bigoni al sax tenore e clarinetto.
Roberto Dell’Ava
(in Tracce di Jazz, 1° dicembre 2020)