Telluserra
Giuseppina Rando. Il fantasma di Dora
31 Marzo 2021
 

Nel silenzio maestoso della notte una pioggerellina insistente bussava ai vetri della finestra con un ticchettio che, nel buio della stanza, si trasformava in voci luminose, ora basse ora alte; voci che si dileguavano in un chiarore sfavillante sul cuscino di raso rosa antico abbandonato sulla poltrona di fronte al divano, dove lo scrittore Aldo Butera stava sprofondato.

Ma no, non sognava, era realtà! Ha notato lo stesso fenomeno ottico durante il breve soggiorno al mare, nella villa di Clelia. Luce azzurra, luce gialla, luce verde s’accompagnava al suono delle sue parole e illuminava il suo volto; non perfettamente bello, non giovanissima, con qualche ruga sulla fronte, ma con la luce dell’alba negli occhi e quella del tramonto sulla bocca.

Aldo Butera non aveva avvertito questo fenomeno al loro primo incontro che pure aveva già del prodigioso, perché era stato incantato dalla sua sagoma riflessa nella libreria del Corso. Un volto singolare, inafferrabile con lo sguardo: si muoveva infatti tra le lunghe file dei libri allineati negli scaffali... Aldo si girò ed alzò lo sguardo: una luce strana, proveniente dal cielo, ma non era la luna, era una luce come pendente da una cordicella, una luce strana dietro la porta girevole ed ecco lei, una sconosciuta. Alta ed elegante in un tailleur grigio ed un cappellino nero, dal quale sfuggivano alcuni riccioli color rame. Avanzò lentamente e si fermò accanto a lui: gli sorrise e chiese, posando lo sguardo sul libro che egli aveva tra le mani:

Anche lei legge Kafka?

Sì – rispose lui, dandosi un contegno.

E lei: – Uno scrittore estremo, uno scrittore che cerca un rapporto con il mondo e non si preoccupa semplicemente di comunicare qualcosa.

Aldo, quasi infastidito di questo commento stava per allontanarsi, ma non lo fece, anzi calamitato dallo sguardo di lei, chiese: – Prendiamo un caffè?

Lei, come se l’avesse conosciuto da sempre o come se avesse incontrato un amico dopo tanto tempo, lo prese sotto braccio e lo condusse lungo il Corso affollato, alla ricerca di un bar. Nella triste illusione dell’animo di Aldo, vi fu una pausa profonda, come quel vuoto che genera dolore o una lacuna: del sapere o dell’amore?

Entrati nel bar più elegante della città, ella si tolse il foulard azzurro che le girava attorno al collo e lo abbandonò sulla spalliera della sedia accanto. La profonda scollatura della giacca svelò una carnagione vellutata e rosea e lasciò intravedere un seno bellissimo, palpitante. La fantasia di Aldo cominciò a galoppare, mentre Clelia parlava freneticamente. Lui l’ascoltava estatico, come se la sua voce era quella che si portava dentro da un tempo immemorabile. Parlarono di arte, di letteratura, di musica; si soffermarono su poeti e scrittori emergenti sia italiani e stranieri. Lei parlò anche degli studi e delle ricerche condotte sotto la guida del professore Luigi Cortese, ordinario di letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Palermo, del quale era assistente volontaria; viveva tra la città e una villa al mare, ereditata dalla zia materna. Si scambiarono i numeri di telefono e si salutarono come due vecchi amici. Per tutta la serata la voce di lei risuonò ossessivamente nella mente dello scrittore. Dormì male. L’indomani nel suo ufficio di Via Siracusa, dove Butera dirigeva una prestigiosa Casa Editrice, il lavoro si svolse senza molti intoppi e con qualche soddisfazione. Da Milano ricevette rassicurante conferma che il suo libro sarebbe uscito tra qualche mese presso l’Editrice K.

Pranzò con una collega e dalla finestra del ristorante entrava un vago odore di cedrina che ai suoi sensi richiamò la sconosciuta incontrata la sera prima. Il suo pensiero andò più volte a lei nel pomeriggio. A novembre si fa presto sera e le ombre si coagulavano liquide e insidiose dietro i vetri della finestra del suo ufficio. Vide un’ombra sui vetri, come riflessa; si girò, non c’era nessuno. Il suo pensiero corse ancora all’incontro in libreria, a quella donna non certo bella, non certo banale, anzi colta. Le sue parole avevano un fascino, un richiamo a cui era impossibile sottrarsi. Rientrato nel suo piccolo appartamento, dopo una frugale cena, si sdraiò sul divano, in penombra. La chiamò al telefono. Sul soffitto nero vide brillare la sua voce azzurra e verde, vide la sciarpa che scivolava lentamente e gli apparve il corpo di lei, bianco, sinuoso, irresistibile. Aldo provò un godimento interiore, mai conosciuto. La conversazione si protrasse per ore: parlarono a lungo d poesia e si interrogarono entrambi sul senso dell’esperienza poetica e sulla sua dimensione psicologica. Una frase di Clelia lo fulminò: “la poesia è verità, ma non la verità prevedibile di un ragionamento, ma l’esito misterioso e inatteso di un incontro”.

Si sentì venir meno. Era ciò che egli aveva scritto sul suo ultimo saggio ancora in corso di stampa. Com’era possibile che pensassero e si esprimessero allo stesso modo? Clelia lo invitò nella sua villa al mare, lungo la costa tirrenica, a Santa Flavia. Disse: – A novembre il mare ha un tepore che trasforma, non trattiene il respiro, ma scioglie ogni groviglio nel tepore…

Aldo accolse l’invito e la raggiunse: di grovigli da sciogliere ne aveva tanti.

Nel fluttuare violetto dell’acqua parlarono d’amore e di dolore, di vita e di morte, di personaggi femminili della letteratura. Aldo così accennò al suo libro di prossima pubblicazione: un lungo saggio su Eugenio Montale e Dora Markus. Lei lo ascoltava interessata. Stavano bene insieme, ma qualcosa di indefinibile la allontanava. Aldo era ostile ad ogni sorta di legame e per questo con la mente la teneva distante, in uno spazio senza orizzonte.

Per ragioni legate al suo lavoro editoriale per parecchi mesi stette fuori, prima a Parigi e poi a Bruxelles. Da Milano, dove si fermò più a lungo, le inviò la sua ultima pubblicazione su Montale Il fantasma di Dora. Lei rispose con un breve commento lodandone la freschezza dello stile e la validità del contenuto. Lui provò a telefonarle, ma non riuscì a stabilire alcun contatto. Non riprovò. Altri interessi occupavano la sua mente e poi gli amori occasionali si susseguivano.

Rientrato in Sicilia, non ebbe voglia di rivederla, era stanco, aveva bisogno di riposo e lei era troppo… intellettuale.

Una notte fece un sogno terribile: apprese da un quotidiano che Clelia era morta. Ma come? si chiese. Vide se stesso in corsa su un’auto velocissima verso la località dove si sarebbero svolti i funerali; vide tanti alberi, strade e strade deserte e poi all’improvviso un corteo che seguiva la bara portata a spalla; la bara si dileguò in una luce viola. Si svegliò: era solo un sogno, per fortuna.

L’indomani, uscendo si diresse verso la libreria dove l’aveva incontrata. Si fermò ad osservare la vetrina: comparve ancora il suo volto, sorridente, alzò una mano come per salutarlo. Aldo si girò come per abbracciarla, ma alle sue spalle non c’era nessuno. Un gatto grigio stava solo attraversando la strada in una luce surreale.

La vita dello scrittore Aldo Butera scorreva con il solito ritmo, ai margini della mondanità letteraria della città, una vita borghese e tranquilla con i soliti amori fortuiti che lo lasciavano sempre più stordito, molti saggi e romanzi pubblicati e continui viaggi tra il nord e la sua isola.

Per caso, una sera alzando la cornetta del telefono, dopo uno squillo irregolare, senti una voce che lo fece trasalire: era lei, era la voce di Clelia. Un’interferenza; stette ad ascoltare: Clelia dava l’appuntamento ad un uomo. – È possibile? – si chiese. Un moto di gelosia l’afferrò. La comunicazione s’interruppe e lui abbasso la cornetta. Si affacciò alla finestra per prendere una boccata d’aria perché si sentiva soffocare. Stette là per un po’: un’allucinazione? No, era proprio lei, Clelia, usciva dal portone di fronte, la sua figura era inconfondibile. Si precipitò per le scale e la seguì. Era sempre in tailleur grigio, lo stesso di tanti anni prima, anche il cappellino era nero. Solo il foulard al collo era diverso, bianco. Non era cambiata: era la stessa, come allora. Il ricordo dei giorni trascorsi al mare con lei, il profumo della sua pelle lo turbò profondamente. Clelia salì su un autobus. Anche Aldo salì e a sua volta prese posto qualche fila dietro. Anche quando scese la seguì discretamente. Voleva conoscere il suo nuovo amore. La donna entrò in un ristorante dove l’aspettava un signore con i capelli brizzolati; prese posto in un tavolo accanto. I due conversavano sottovoce e si guardavano negli occhi, ridevano sereni e sembravano innamorati.

Aldo ad un certo punto non poté più resistere, si alzò e la chiamò: – Clelia!

L’uomo sembrò imbarazzato e assunse un’espressione preoccupata. La donna, invece, alzò il viso, molto più giovane da come Aldo lo ricordava, e con voce afflitta, disse:

Sono la sorella. Tanti ci scambiano. Ci somigliamo molto. Clelia non c’è più. L’abbiamo trovata morta nella sua villa a mare, distesa sulla sdraio in terrazza.

Tra le mani aveva un libro: Il fantasma di Dora.

 

Giuseppina Rando

 

 

Da Nel segno, Pungitopo, Marina di Patti (Me), 2010


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