Nel 1942 in “American and French paintings”, una mostra alla McMillen gallery di New York, un quadro di Lee Krasner (1908 – 1984) è esposto tra un Matisse e un Braque. La donna conosce ed ammira tutti gli artisti americani che sono stati invitati, tranne uno: Jackson Pollock. Pochi mesi dopo andranno a vivere insieme, al 46 East dell’8th Street: «Ho resistito, in un primo momento, ma devo ammettere di aver ceduto quasi subito. Ero terribilmente attratta da Jackson e m’innamorai di lui – fisicamente, mentalmente – nel vero senso della parola».
Tra gli espressionisti astratti della prima generazione, Lee Krasner è la sola a non avere una cifra stilistica unica, immediatamente riconoscibile come Pollock, Rothko, Kline, De Kooning, Clyfford Still e Barnett Newman. Non ci crede, pensa che si tratti di un modo di fare arte troppo rigido. Così, per più di quarant’anni, lavora per serie e continua a reinventare senza sosta la sua pittura, esplorando sempre nuove strade: vuole che ogni suo dipinto descriva fino in fondo quel che la sua anima, il suo cuore e la sua mente provano in quel momento, senza naturalmente dimenticare quel che ha messo sulla tela in precedenza:
«Non mi libero mai del passato. Il passato fa parte del presente, che diventa parte del futuro».
Nonostante tutti la conoscano e molti apprezzino la sua arte, Lee Krasner è protagonista della sua prima retrospettiva a New York solo nel 1973. Il mese prima ha compiuto 65 anni: il Whitney museum espone 18 lavori di grande formato realizzati nel corso degli ultimi vent’anni. Quasi mezzo secolo dopo quella mostra, fino al 10 gennaio 2021 il Guggenheim di Bilbao mette in scena “Lee Krasner. Living colors”, una rassegna che ripercorre la lunga carriera e variegata produzione dell’artista. A partire dai primi autoritratti della fine degli anni Venti, compreso quello del 1928 nel quale cita apertamente Van Gogh, ma colloca la scena in un bosco: lo dipinge, racconta molti anni dopo, appendendo uno specchio al ramo di un albero. In un emozionante rincorrersi dei capolavori dell’artista, la retrospettiva mette in scena, accanto alle tele monumentali degli anni Sessanta e Settanta, anche le Little images della fine degli anni Quaranta e i sofisticati, grandi collage degli anni Cinquanta.
Aveva un carattere forte e ribelle: Lee Krasner ha passato tutta la vita in prima linea, per essere riconosciuta come una pioniera dell’Espressionismo astratto in anni in cui per una donna non era semplice essere accettata, ma anche per far dimenticare di essere la moglie, e poi la vedova, di un genio come Pollock, il rivoluzionario cui la rivista Life, nel 1949, aveva dedicato un articolo dal titolo significativo: “È il più grande pittore vivente negli Stati Uniti?” Ma le sue battaglie Lee Krasner le combatteva giorno per giorno: il 15 aprile 1940 partecipò con altri artisti a una protesta davanti al Museum of modern art, che non presentava alcuna attenzione all’arte astratta. Vennero distribuiti dei volantini, disegnati da Ad Reinhardt, sui quali campeggiava una domanda apertamente provocatoria: «Quanto è moderno il Museo d’arte moderna?». Pochi mesi dopo cacciò dal suo studio lo scrittore Tennessee Williams e il giovane pittore Fritz Bultman, protagonisti di un’accesa discussione sui versi di una poesia di Rimbaud tracciati su una parete: «Hanno litigato così tanto che li ho messi alla porta. Non mi piaceva quel che stavano dicendo così ho detto: fuori!». Più di trent’anni dopo, Lee Krasner, che considerava il movimento femminista come «la più importante rivoluzione del nostro tempo», in una lunga intervista pubblicata su Vogue disse chiaro e tondo quel che pensava su un argomento che le stava particolarmente a cuore: «Sono un’artista, non una donna artista, un’artista americana. Un’artista».
Nell’autunno del 1945 Lee e Jackson si trasferiscono a Springs, Long Island, in una fattoria che hanno acquistato con l’aiuto di Peggy Guggenheim. L’immersione nella natura porta a un deciso cambiamento nell’iconografia dei quadri della Kraner: nascono le Little images, piccole ma vibranti astrazioni. È di questi tempi anche il Mosaic table che l’artista realizza utilizzando la vecchia ruota di un carro trovato nella fattoria, incorporando nella pittura frammenti di gioielli, chiavi, monete e pezzi di vetro. Nel 1951 la sua prima personale da Betty Parsons ottiene buone critiche, ma nessuna opera trova un acquirente. Quattro anni dopo, per una personale alla Stable gallery, fondata nel 1953 da Eleanor Ward, userà frammenti di quei lavori in una serie di grandi collage nei quali mette anche suoi disegni sminuzzati, carta di giornale, foto e perfino brandelli di diversi disegni scartati da Pollok, rifinendo il tutto con colpi di pittura: Bald eagle e Bird talk, entrambe del 1955, sono le opere più famose di questa serie. Nel frattempo, nel 1952, Harold Rosemberg per la prima volta utilizza, in un articolo pubblicato su Art News, la definizione di Action painting per quella pittura che fece di New York la capitale mondiale dell’arte contemporanea. Non cita il nome di un solo artista, ma nel gruppo c’è anche lei, Lee Krasner, e le parole del critico americano descrivono in modo puntuale anche la sua poetica: «A un certo punto la tela apparve come un’arena dove agire, invece di uno spazio in cui riprodurre, ridisegnare, analizzare o esprimere un oggetto, reale o immaginario. Chiamate questa pittura astratta, o espressionista: quel che conta è il particolare movente a eliminare l’oggetto». Lee Krasner accusò Rosenberg di essersi appropriato, senza neppure nominarlo, di alcuni concetti di Pollock.
Nell’estate del 1956 dipinge Prophecy, uno dei suoi quadri più famosi: con le sue forme sinuose e carnose è diverso da tutto quel che ha messo sulla tela fino a quel momento. È un periodo complicato del suo rapporto con Pollock, parte per Parigi, da sola. Il 12 agosto riceve una telefonata: Jackson è morto in un incidente d’auto. Torna immediatamente a casa e realizza quadri che, come Prophecy, sembrano animati da oscure forze psicologiche. A chi le chiede come ha fatto a dipingere anche nei mesi del lutto risponde sicura: «La pittura non è separata dalla vita. È la stessa cosa. È come domandare: voglio vivere? La mia risposta è sì. Così dipingo». Si appropria dello studio di Pollok e inizia a produrre dipinti di grande formato, i Night jurneys, la Primary series, le Eleven ways e, nel 1971, quel capolavoro che è Polingenenis.
M.P.F.