I
La credenza zoppica,
pure i tarli hanno smesso
di rosicchiare.
Potrebbe servire
per il fuoco, ma tanta legna
sta già marcendo nel capanno.
E tu ancora a stroncare castagni
nel boschetto dove un tempo
raccoglievi funghi.
Porcini e galletti.
Poi solo famigliole sui ceppi
e lingue di bue sui tronchi vivi.
Di colpo, come i funghi,
scomparve pure la neve
che non si vide più cadere
d’inverno.
E tu sempre con la scure
in spalla
in giro per la macchia.
La cesta dei funghi
appesa
al porticato.
E il camino che non tirava.
I gatti continuavano
a figliare,
non entravano più nella cuccia.
Tu arrangiasti un riparo di legno
e stracci, per le nidiate.
Le zuffe notturne
ci tenevano svegli.
Soffi e ringhi ma tu dicevi
“è la tramontana”.
Sparivano i cuccioli
e la gatta ammattiva.
La primavera tardava.
Anch’essa impazzita.
Le gemme non sapevano che fare:
spuntare o non spuntare?
e dormivano fino
a morire.
Poi in un baleno fiammeggiò l’estate
e arse
feroce
la linfa d’ogni pianta e la nostra.
I gatti sonnecchiavano
pigri,
lenti e vuoti passavano i giorni
e la notte si trascinava
malinconica
senza lotte e senza amori.
E arrivò l’autunno smorto
spoglio di oro e di frutti:
anche le castagne sparite
come i funghi
e la neve.
Passò un giorno un girovago
che andava di collina in collina.
Sedette e divise il pasto con noi.
Ci avvinse con le parole
e il canto a distesa,
con lo sguardo
trasognato
del viaggiatore curioso.
Pioveva.
Tu ravvivavi il fuoco
sprigionando scintille.
Gufi volavano
torcendosi
nei tuoi occhi
umidi.
Anche la madia va in polvere,
ma conserva l’odore
del pane.
Il telo che avvolgeva
l’impasto
è rimasto nel fondo
col sentore della lavanda.
E si apprestano gli alberi
a rifiorire.
II
Non si poteva credere,
quando se ne parlava.
Abbattuti steccati
e divisioni ancestrali
avremmo mangiato
tutti
lo stesso pane
e osservato
la sola Legge che conta:
volersi bene.
Il sogno di Cristo.
Ai piedi del paese
devastato dall’insania bellica
il mondo cominciava
col pascolo
e finiva con la ferrovia.
Sparse
c’erano le casette
di mattoni
e baracche di bandoni,
lo sterrato
tracciato dal passaggio
di animali
biciclette
e scarponi,
e dai giochi dei bambini
senza giocattoli.
Le buche erano
d’inverno
caverne lucenti
dove ficcare lo sguardo
a caccia di tesori
nascosti,
succhiando bocconi di ghiaccio,
soffiando sulle mani
trafitte
dal gelo.
Il giardino
di Marietta
era sempre in fiore,
il più bello fra tutti
di quel mondo stretto
tra il pascolo
e la ferrovia.
Marietta annaffiava
e vigilava,
che nessuno allungasse la mano
per cogliere una sola foglia
del suo giardino
proibito.
Ma c’erano i roseti
selvatici
ch’esplodevano a maggio
illuminando l’aria
del candore
dell’Immacolata.
Gli orti si spandevano
attorno alle case,
le schiene rotte
dalle fatiche
ai cantieri e alle fabbriche,
si curvavano a sera
per ammansire la terra
col sudore
e l’acqua piovana.
Si raccoglievano i frutti
come manna
che colasse dal cielo.
Tirava sempre il vento.
Volavano i semi
insieme agli uccelli,
le api s’ingozzavano
di nettare
e ronzavano fitto tra loro
sciamando.
I canti si spegnevano al calare
del sole
poi arrivava l’ora dei racconti.
Tutti i padri avevano fatto
la guerra,
in trincea o nelle miniere.
La guerra delle madri
era tutti i giorni,
a combattere con la fame dei figli
e gli strappi da rammendare.
E il camino
tappato,
e quelle nuvole nere
che s’ammassavano
quando loro stendevano i panni.
Si aspettava il Natale per piangere
di letizia
al cospetto del Bambinello.
Ma del Natale sbiadiva il senso
e presto sparirono mangiatoie
e stalle
con i buoi e gli asinelli.
E non splendeva la stella.
Si tenta nella babele
un approccio almeno con se stessi.
Per chiedersi se è questa
la Borgata Mondo
senza catene e cancelli,
se è questo il pane quotidiano
da spezzare insieme.
Nei rifugi di cartone,
sui barconi carichi di vita
e di dolore,
sulle strade dell’esodo,
dietro l’angolo di casa,
ovunque,
ogni giorno nascono
creature
ma non si rompono noci
come a Natale.
III
Vado cercando
qualcosa
che ho perduto
o forse sperperato.
Ma non le ho messe
in tasca
le lacrime che ho
pianto.
Le cerco in ogni dove
per evocarne altre
e allentare
l’artiglio del cuore.
Smarrita la fantasia,
si contano i passi
circolari
nel recinto
murato.
Radici asfittiche
s’abbarbicano
al filo spinato.
Ribolle la terra
delle speranze
affossate.
Issati sui merli
gli spauracchi
del niente.
Ritrovare il filo incessante
del tempo,
i suoni mai prima
raccolti.
Din don din don
din… don…
din…
Una casetta su alla rocca
una stanzetta e una scaletta
un lettino sottotetto
una ruota di bicicletta.
Il tocco delle campane
lo zoccolare dei somarelli
il sole che s’affaccia
al risveglio dei galli.
E quel bosco
di fragole
e lucertole,
il riso della sorgente
dove specchiarsi,
l’odore caldo della paglia,
il bagliore delle stelle.
La luna guarda e sbadiglia
insonne
della terra innamorata.
Ecco che torno alla quiete
dei monti,
al vociare del fiume,
al frusciare dei pioppi.
Tace qui lo strepito
delle lotte assassine
nei fossati dell’odio e della pena,
e cantano le radici
del sangue
i greti fioriti
dei fossi,
l’allegria dei campi
seminati,
lo stridere d’ossa
dei vecchi
mai stanchi.
Un fiore vive d’acqua
e di luce
e quando appassisce
si fissa col suo profumo
nella memoria.
Nei liberi pascoli
ogni fiore che muore
si rigenera.
Eccolo, arriva,
scintillando fra le ragnatele
il pianto della notte
che lucida l’erba
e illumina la mente.
È come un canto
senza voce,
dolce,
una luce che s’alza e diffonde
con il sole,
un brivido
una ventata d’aria pura
che m’afferra e trasporta
al tempo fruttuoso
delle annate a venire.
Nella tasca del cuore
conservo i semi
e un pugno di terra.
E l’odore
della primavera.
Maria Lanciotti
(Rióne Munnu / Borgata Mondo, Ed. Cofine 2018,
Premio Città di Ischitella Pietro Giannone 2017)