Approvare una legge che regoli le unioni di fatto risponde ad una necessità reale della società italiana? La risposta è nei dati: le “libere unioni”, come le definisce l’ISTAT, sono oltre 700 mila. Dunque, quasi un milione e mezzo di cittadini italiani attendono una legge sulle unioni di fatto: coppie omosessuali che non hanno l’alternativa del matrimonio; coppie eterosessuali che per libera scelta non intendono sposarsi o per loro personali ragioni scelgono di convivere prima delle nozze.
Dunque, la legge sulle unioni civili serve ed il governo – che nel suo programma prevede il riconoscimento delle coppi di fatto – ha confermato la volontà di presentarlo entro la fine di gennaio. Questo vuol dire che avremo presto una legge? Non sarà certo una vittoria facile, visto che anche nella maggioranza ci sono numerose opposizioni. Ma c’è ugualmente da sperare che il ddl verrà approvato, perché su questo tema le intese ed i contrasti tagliano trasversalmente i partiti della maggioranza e della opposizione, come dimostrano in particolare le aperture al dialogo dell’on. Fini. Non a caso, tra le numerose proposte di legge presentate in Parlamento, due sono le più “quotate”: la prima è quella di Franco Grillini (DS), firmata da 161 esponenti di tutto il centro sinistra, dai DS a Rifondazione passando per la Margherita; la seconda è quella di Dario Rivolta (FI), sostenuta da buona parte del suo partito e da un gruppo trasversale alle altre forze della Casa delle Libertà. I due disegni di legge hanno in comune due punti importanti, perché non includono le norme più contestate introdotte in altri Paesi europei: infatti, non accennano alla possibile adozione di bambini da parte di coppie omosessuali e, soprattutto, non parlano di matrimonio né assimilano ad esso le unioni di fatto.
Sarebbe interessante tracciare un quadro esauriente delle leggi che regolano le unioni di fatto nel mondo. Per esigenze di brevità, mi limito qui a segnalare che in Europa solo l’Italia, la Grecia, l’Irlanda, la Polonia e la Slovacchia non hanno alcuna legge sulle unioni di fatto, mentre gli alti paesi della Comunità hanno legiferato in materia, spesso da molti anni, con una gamma di soluzioni che va dal semplice riconoscimento di alcuni diritti di base fino al matrimonio gay della Spagna, dell’Inghilterra, del Belgio e dell’Olanda. E il presidente di turno della CEE, Angela Merkel, ha già convocato una riunione dei ministri della Giustizia per omogeneizzare le 19 leggi approvate dai diversi Stati per tutelare le coppie di fatto.
Nel resto del mondo le unioni di fatto sono tutelate in gran parte dei paesi più importanti: molti stati degli USA (alcuni dei quali prevedono anche il matrimonio gay, come pure il Canada), il Messico, l’Argentina, il Brasile, diversi altri stati sudamericani, Israele e il Sudafrica, che un mese fa ha approvato una legge che autorizza i matrimoni omosessuali. Molti di questi paesi prevedono anche, in diverse forme e misure, la possibilità di adozione da parte di coppie gay.
Un merito di Prodi – ha scritto il prof. Ceccanti, capo dello Ufficio Legislativo del Ministero per le Pari Opportunità, e quindi impegnato in prima persona nella stesuradell’atteso ddl del governo – è quello di “aver scelto come riferimento un modello, quello dei Pacs francesi, che non solo si presta a una convergenza tra laici e cattolici del centrosinistra, ma anche con larga parte dello schieramento opposto, in alternativa a una logica di bipolarismo etico.
La legge francese del dicembre 1999 sul “Pacte Civil de Solidarité” (da cui l’acronimo PACS) è infatti avanzata, almeno dal punto di vista dell’Italia, ma molto equilibrata. È avanzata perché assicura alle coppie di fatto diritti in materia di assistenza sanitaria, di agevolazioni fiscali, di subentro nei contratti di locazione, di eredità ed entro certi limiti di reversibilità pensionistica. È equilibrata perché prevede non solo diritti ma anche doveri, quali l’impegno a condurre una vita in comune, l’obbligo di aiuto reciproco materiale, la responsabilità comune per i debiti contratti dalla firma del patto. In generale, è fuori di dubbio che l’impostazione giuridica dei PACS francesi ne fa cosa del tutto diversa dal matrimonio, soprattutto per la semplicità, rispetto al divorzio, con cui si può mettere fine al “patto”.
La legge ha avuto grande successo: in cinque anni – i dati vengono dal Ministero della Giustizia francese – sono stati contratti oltre 205 mila PACS. Nel 2005, a fronte di 278 mila matrimoni, sono stati 59 mila i PACS: vale a dire, circa 20 PACS per ogni 100 matrimoni. Queste cifre appaiono ancor più interessanti se si considera che il numero dei matrimoni “normali” non è, intanto, calato, ma è rimasto stabile. E va considerato anche che la convivenza nel nuovo istituto è relativamente robusta, più o meno come nel matrimonio tradizionale: in sette anni sono state in tutto 33mila le coppie pacs che si sono separate, ossia il 13% del totale. Ma il dato più sorprendente è che, contrariamente alle previsioni degli ideatori dei patti, questa forma di unione è in grandissima maggioranza scelta dalle coppie eterosessuali piuttosto che da quelle omosessuali. Secondo le stime disponibili, tra quelle che hanno scelto il patto le coppie omosessuali sono oggi il 15 per cento del totale, pur se nei primi tempi toccavano quasi il 50 per cento.
Dal punto di vista politico, il fatto più significativo è che i PACS, voluti dalla sinistra, non sono stati toccati dall’attuale governo di centro destra, che anzi ha introdotto alcuni miglioramenti, mentre il candidato socialista all’Eliseo, Ségolène Royal, considera le norme del 1999 ormai inadeguate ed ha inserito nel suo programma per le elezioni dell'anno prossimo una proposta molto chiara: “Il matrimonio e l'adozione saranno aperti alle coppie dello stesso sesso”. E non a caso lo stesso Partito Popolare spagnolo ha sostenuto la soluzione francese in alternativa alla legge di Zapatero.
Una considerazione conclusiva: la battaglia per le unioni di fatto si può vincere solo assumendo un atteggiamento molto fermo nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche. Infatti, bisogna prendere atto che sui PACS – come su ogni altro tema “eticamente sensibile” – noi siamo purtroppo “in guerra”: una guerra dichiarata apertamente dal Vaticano e guidata personalmente dal Papa, che il 22 dicembre, nello stesso giorno in cui il Vicariato di Roma negava al “dottor Welby” i funerali religiosi, ha ribadito il diritto-dovere della Chiesa di “ingerirsi” nella vicenda e ha definito le unioni di fatto inaccettabili in quanto “forme giuridiche che relativizzano il matrimonio”, ispirandosi a “quelle teorie funeste che tolgono ogni rilevanza allamascolinità e alla femminilità della persona umana”. E da allora continua, quasi quotidianamente, a lanciare i suoi anatemi. Una guerra,quella dichiarata da Papa Ratzinger, per la quale si accingono a partire i “politici di complemento” del Papa: con sacro furore, quando le loro intime convinzioni coincidono con quelle della Chiesa; di mala voglia, quando la loro scelta è dettata esclusivamente da opportunismo politico. Speriamo che molti di loro decidano di disertare.
Carlo Trailo
(da Notizie radicali, 19 gennaio 2007)