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Wendy Guerra: “La letteratura non parla di storielle o di martirii”
Foto di Daniel Mordzinski (da www.zendalibros.com)
Foto di Daniel Mordzinski (da www.zendalibros.com) 
10 Aprile 2019
 

Wendy Guerra è una delle autrici più apprezzate della narrativa cubana odierna. Tradotta in diciotto lingue, in Francia, dove è stata insignita del titolo di Cavaliere dell’Ordre des Arts et des Lettres, è sostenuta con entusiasmo fin dalla traduzione del suo primo romanzo, Todo se van (2006). Anche da questa parte dei Pirenei, dove ha collaborato con i principali quotidiani, non le mancano i riconoscimenti. El mercenario que coleccionaba obras de arte, il suo ultimo romanzo, è appena arrivato nelle librerie. Edito da Alfaguara, è molto meno fiction di quanto sembri. Il mercenario in questione è una persona che ancora vive sotto falso nome. Dopo aver letto le sue peripezie si possono trarre molte conclusioni. Ed è certo che, in questa varietà di conclusioni, non manca ciò che osservano i meno dogmatici nei confronti della rivoluzione nella sua concezione più ampia: il destino ultimo di tutti i rivoluzionari – a cominciare da Robespierre – è quello di essere degli agenti, agenti della rivoluzione. Esattamente come furono agenti di ciò che esisteva prima quelli che perseguitarono loro quando la rivoluzione la facevano.

 

Crescere in un regime politico che fonda uno dei suoi pilastri sulla denuncia rappresenta un vantaggio per la scrittura di buoni romanzi di spionaggio?

Niente che reprima un essere umano, dal momento della sua nascita alla maturità, può essere un vantaggio. Tutte le tragedia umane, gli olocausti e le conflagrazioni, scatenano e scateneranno nel corso della storia l’infinito, terribile dramma per cui, al momento di riguardarle, vengono considerate come parte dell’archivio storico di un paese, di un continente, di un universo scombinato. Solo i loro protagonisti conoscono il caro prezzo di viverle per poi poterle raccontare. È la narrativa del trauma, qualcosa che segna l’autore, come ha segnato i suoi contemporanei.

 

El mercenario que coleccionaba obras de arte non è solo un thriller di spionaggio. Alla sua presentazione alla fiera di Guadalajara lei ha detto che, tra le altre cose, è anche un romanzo d’amore. In effetti, nella prima pagina, il seme e il sangue si mescolano in una certa pulsione erotica.

Io non l’ho scritto come thriller, ma mi piace come ogni lettore vada organizzando la propria visione strutturale della forma man mano che si addentra nel contenuto. Quando intervistavo il vero personaggio, ho sentito che erano le sue stesse condizioni, la lotta e il mistero che incarna il suo destino, incerto e complesso, a dover guidare la trama di generi e stili. Adrián Falcón è al di sopra di ogni classe, ha infranto le barriere e solo l’amore può calmare, un po’, il suo nevrotico andare tra le rovine spirituali di un continente distrutto. Solo il desiderio fa uscire il meglio di sé stesso. Non importa che anche la sua controparte sia un mostro: l’amore gli fa bene e guarisce buona parte del percorso narrativo che entrambi, Valentina e Adrián, si degnano di attraversare. Questo è un romanzo che va oltre il romanzo stesso, un romanzo che soffre i suoi protagonisti e modifica apertamente la sua morfologia a mano a mano che le circostanze lo richiedono. L’erotismo del rischio, la perdita del pudore, il salto quotidiano in un abisso fisico insondabile ogni volta più pericoloso, sono parte importante di questo universo. Ricordiamo che le lotte e le società chiuse sono quasi sempre endogamiche e promiscue. Il sovraffollamento produce condotte sessuali specifiche, e un circolo di lussuria in cui giocare al duro y al desnudo, circondato da testimoni, fa parte dello scontro carnale quotidiano.

 

Adrián Falcón, falso nome del vero protagonista del suo romanzo, diviene l’ultimo anello di congiunzione con Reagan, un condottiero (in italiano nel testo, ndt) della CIA, poiché il padre venne fucilato da Fidel Castro. Leggendo le sue peripezie, mi è sembrato di avvertire il suo scetticismo più assoluto come autrice. Mi sbaglio?

Non sono una persona scettica, credo che si debbano chiamare i sintomi con il loro nome e intenderli come li intende un patologo quando si siede davanti al proprio microscopio e trova un’area piena di tumori. Lì non ti puoi permettere di spezzarti, di piangere o di destabilizzarti. Devi fare la tua diagnosi, affrontarla e sfuggire al melodramma. Questi sono i problemi del mio continente, degli uomini che hanno resistito alle rivoluzioni, di quelli che hanno fatto le proprie rivoluzioni e anche, perché no, di quelli che sono rimasti braccia conserte permettendo crimini da un lato all’altro. Che cosa resta a un autore? Raccontarlo con onestà e buon senso. Scetticismo è una cosa, paura un’altra. Sono temi necessari, e vanno affrontati con coraggio e senza timore.

 

Tutti i furfanti sono affascinanti come Adrián Falcón?

Ogni furfante parte dal suo referente umano, e in quanto tale possiede caratteristiche dissimili. Tutti gli attori preferiscono interpretare un furfante per la ricchezza che la malvagità e l’ostinazione conferiscono a questo tipo di personaggi. Se riesci a cogliere gli strati, le pieghe e il complesso sistema di pensiero di questi esseri, avrai in cambio un buon antieroe, credibile e limpido, un essere da citare e ricordare.

 

È un dovere del nostro secolo – o perlomeno una tendenza – demistificare le ideologie che hanno monopolizzato la legittimità morale o la libertà nel secolo scorso?

Non credo sia un dovere, è un risultato storico naturale, parte della deriva sociale. Tutti i canoni creano un contro canone. Nessuna società è intoccabile, ogni società è lì, esposta e pronta a essere raccontata insieme alle proprie peripezie o avvenimenti lungo la mappa del tempo. Shakespear, Salinger, Victor Hugo, Anaïs Nin, tutti hanno scritto le loro opere attraversando le vene della società che era toccato loro vivere.

 

È Cuba il luogo fantastico per perdere la fede nella rivoluzione socialista?

È la sinistra europea ad aver bisogno di innalzare continuamente questo faro di fede. Noi, però, non possiamo continuare a stare in posa per la sinistra, sacrificandoci in nome di qualcosa che ci risulta inamovibile, un ideale, un’utopia spezzata, una perdita ideologica che da molto tempo ha smesso di essere ciò che il mondo ha bisogno che sia. Siamo quello che vedete. Se la sinistra europea si cibasse di ciò che mangia il popolo cubano, di ciò che ogni mese gli viene concesso con la libreta, smettesse di lavorare per trovare medicinali o per spostarsi ogni giorno, smetterebbero di pretendere da noi questo pacchetto di fede. Il problema è che qui tutti quanti guardano l’acquario con stupore, ma nessuno vuole buttarsi in acqua a interpretarne il ruolo, la dura vita dei pesci tropicali nel socialismo cubano.

 

Come crede che accoglierà la sinistra spagnola, che riconosce un autentico dogma di fede nella lotta latinoamericana, e in Che Guevara un vero santone, El mercenario que coleccionaba obras de arte?

Io non scrivo per la sinistra e ancor meno per la destra. La mia generazione è stanca di questi riferimenti. Viviamo tra Tump e Maduro, niente di tutto questo sembra essere coerente. Questi modelli non ci servono più. Scrivo per coloro che hanno voglia di leggere una letteratura verosimile, peritura e audace come la vita stessa che a noi tutti spetta vivere. I miei libri non sono notiziari, si tratta di letteratura.

 

Questa bellezza, nella cui ricerca è lecito supporre perché collezioni opere d’arte, rappresenta la redenzione del mercenario?

Il mercenario sa che non ci sarà più redenzione. I fiumi di sangue, il ricordo dei morti, la sua frammentaria relazione con le figlie, la vendetta in nome del padre, sono prova inconfutabile che non si può più voltare indietro. Io fuggo dal melodramma, e Falcón me lo facilita, perché riconosce il suo orrore e non lo mitizza. Definisce sé stesso mercenario, e in questo modo affronta i suoi demoni. È questo il reale valore del personaggio: il non negare i suoi crimini e rispettare i suoi nemici accentua la sua complessità che raggiunge il suo apice al momento di rivelare la sua strana ossessione per il collezionismo, per l’arte, per comprare la bellezza con il denaro guadagnato in un combattimento. Tutto questo sconvolge il lettore: lo odi con tutte le tue forze, ma si trasforma anche in un personaggio terribilmente complesso dal quale non c’è modo di uscire.

 

— “Patria o morte”, “Libertà o morte”… Il culto della morte e del martirio è comune a tutte le ideologie…

Ideologie, religioni, stati fondamentalisti usano la morte come forma di riaffermazione. Questo è senza dubbio l’arredo essenziale di una prigione ideologica complessa. Morire per un ideale versus vivere per un ideale.

 

Nessuno mette in dubbio che i ricchi e gli imperialisti siano l’incarnazione del male. Ma e i poveri, i reietti e cose del genere… sono così buoni come ci vogliono far credere i messia che mettono in moto le rivoluzioni, e i loro corrispondenti bagni di sangue, in nome dell’emancipazione degli oppressi?

Ormai siamo troppo grandi per credere nei buoni e nei cattivi. Questa non è una telenovela di Televisa dove il povero ruba o il povero aiuta e il ricco uccide o il ricco dona una casa in beneficenza. Questi modelli non ci servono. Persone buone e cattive, manipolazioni all’interno di cause oneste, crepe nel carattere o nell’integrità di un essere umano, di questo tratta il doloroso e scomposto destino delle rivoluzioni e i loro svantaggi nel nostro continente.

 

Lei è solita dire di non essere giornalista, ma di aver imparato a fare domande mentre la interrogavano a Cuba. Si riferisce alla polizia politica?

Ai programmi della Televisión Cubana, dove non puoi parlare di tutto e dove per averlo fatto in passato non sono più la benvenuta. Le conversazioni con le varie persone che dirigono con terrore certe istituzioni cubane, esseri sprovvisti di vero potere, battitori emergenti che scoprono sul giornale del mattino il titolo della loro destituzione. Tutte queste domande senza risposta e tutte queste risposte con conseguenze fanno parte di un questionario infinito, di un modello referenziale che ha sostenuto e segnato il battito del mio lavoro preliminare con Adrián Falcón. Sulla polizia politica, che nel mio paese consta di un esercito enorme in cui tutti sorvegliano tutti, non è un semplice dipartimento, è un’isola con l’occhio di Polifemo che vigila giorno e notte, io ho scritto un romanzo, Domingo de Revolución. Lì ci sarebbero state tutte le chiavi.

 

Pare che, prima della pubblicazione del romanzo, vista la clandestinità in cui ancora vive il suo vero protagonista, lei abbia vissuto personalmente situazioni degne di un thriller di spionaggio. È stata condotta in luoghi con gli occhi bendati e cose del genere.

La verità della verità è scritta in caratteri invisibili, galleggia sotto l’iceberg. La letteratura non parla di storielle o di martirii, parla di risultati, e al lettore poco importa il processo. Non siamo delatori, siamo scrittori. Per tutto il resto ci sono i servizi di polizia e di intelligence del mondo intero, sempre più connessi e strutturati. La paura passa, l’audacia rimane cucita nelle pagine del libro. Bisogna resistere. Altrimenti, come raccontare tutto ciò che si dice in questo libro?

 

Lei crede, come Leonardo Padura, che l’immagine di Cuba sia strettamente legata alla sua novellistica?

Credo che la letteratura abbia sostituito, con verosimiglianza e acume in molti casi, quello che altri mezzi all’interno dell’isola non si azzardano a raccontare. I giornalisti cubani che lavorano per lo Stato vivono in un’altra Cuba, in una Cuba in cui non ci sono problemi e si raggiungono i traguardi e non esistono fame né pressioni politiche. La vita trascorre in bianco e nero, al rallentatore, con una canzone della Nueva Trova, come niente fosse. I titoli dei giornali cubani sembrano uscire dal cinema sovietico: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Noi autori letterari, invece, abbiamo ereditato il compito di illuminare ciò che altri vogliono oscurare. La nostra opera sarà parte della documentazione storica fondamentale per la ricostruzione di questo malinteso storico. Così mia madre chiamava la distanza tra teoria e pratica, processo fatale della messa in scena dell’utopia rivoluzionaria.

 

Il suo rapporto con García Márquez, come sua allieva nella stesura di sceneggiature all’Istituto Superiore di Arte dell’Avana, sembra essere stato una delle grandi influenze della sua vita.

Oggi è il 6 marzo, compleanno di Gabo. Lui è stato un riferimento di vitale importanza per gli autori latinoamericani. Nel mio caso, mi ha salvato la vita in un paese che lui aveva fatto suo e che aveva iniziato a comprendere in maniera diversa attraverso le mie problematiche quotidiane in quanto parte di un popolo molto lontano dal potere e il suo stato di cose. La sua protezione e il suo modo sottile di tutelarmi hanno determinato un nuovo modo di intendere il suo rapporto con Cuba. Conoscerlo è stato magico, e ancora oggi sento il suo potente incantesimo illuminare il mio cammino, per quanto complesso o impraticabile sembri.

 

Non sembra sentirsi a proprio agio con l’etichetta di romanziera caraibica che le danno alcuni cronisti colombiani.

Le etichette non contano. L’opera parla da sé.

 

Ha un po’ abbandonato il suo canale YouTube, su Wendy Guerra Channel. Sono undici mesi che non pubblica niente.

Il canale è una cosa di cui mi occupo nel mio tempo libero. Per ora è complicato trovare questo momento per dedicarmi a filmare e pubblicare immagini dell’Avana e della mia isola.

 

È molto più apprezzata in Francia, in Italia e, ovviamente in Spagna, che nel suo paese. Il popolo cubano continua a ignorare i suoi scrittori, come dichiarava in un’intervista concessa al Festival della Letteratura di Mantova?

In Italia non ho molto seguito, diciamo che non è il paese in cui ho avuto più fortuna. In Francia sì, lì ho un pubblico meraviglioso. A Cuba non esisto, sono trasparente. La censura è l’arma più potente che qui usano contro le idee.

 

Dalla pubblicazione dei suoi diari nella Transición, che in Spagna ha coinciso con il parossismo della rivoluzione sessuale, alla fine degli anni ‘70, nel nostro paese avevamo a malapena risentito parlare di Anaïs Nin fino a quando lei non ce l’ha ricordata nel suo Posar desnuda en La Habana (2010)… Ci parli, per favore, del suo interesse per lei.

Questo è uno dei miei libri più cari. Ritrovare l’autrice nel suo percorso cubano è stato un dovere come autrice, come donna e come cittadina dell’Avana. Lei è infinita, come i suoi diari. La ricreazione, l’insieme delle immagini, il modo apocrifo in cui ho intessuto le mie ricerche su di lei per 12 lunghi anni mi hanno permesso di incarnarla e di scrivere con umiltà la sua possibile storia cubana. Io e Anaïs abbiamo qualcosa in comune: un padre, un’isola, un diario e un universo narrativo complesso ma aperto, interattivo, ricostruibile. Amo il modo in cui lei ha reso la sua vita un eterno diario aperto, senza censure.

 

Javier Memba

(da zenda, 3 aprile 2019)

Traduzione di Silvia Bertoli


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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - R.O.C. N. 7205 I. 5510 - ISSN 1124-1276