L'ultimo dei milanesi
“Il mio cinema”. Intervista a Franco Loi 
di Mauro Raimondi
05 Aprile 2019
 

Milano – L’estate scorsa abbiamo incontrato Franco Loi nella sua casa milanese. E per una volta non gli abbiamo chiesto di parlare di Poesia, ma di Cinema. L’intervista che riportiamo appare come postfazione del libro Il cinema racconta Milano pubblicato da Edizioni Unicopli nel 2018.

 

Quali sono i tuoi primi ricordi legati al cinema?

Risalgono a quando ero bambino, a Genova. I miei genitori mi portavano spesso a vedere i film, mi piaceva molto Tom Mix e i suoi western.

 

E quando arrivasti a Milano?

A Milano, con i miei amici, giravamo tutti i cinema… Però, vivendo in via Teodosio, a Lambrate, andavo spesso al Porpora, al Pacini o al Plinius. Da ragazzino cercavo di entrare senza pagare, infilandomi in sala alla fine del primo tempo…

 

C’è qualche tuo ricordo importante legato al cinema?

Quando Vittorio De Sica girava Miracolo a Milano, andavo sul set che era lì vicino, all’Ortica. Il più importante è sicuramente quello che riguarda il giorno della dichiarazione di guerra, il 10 giugno 1940. Con un mio compagno ebreo, Davide Danon, e le nostre rispettive madri, all’Argentina avevamo visto La mummia con Boris Karloff, un film che faceva veramente paura. Una volta usciti percorremmo via Gran Sasso, entrammo in piazza Piola e poi girammo in via Pacini. All’angolo con via Bazzini c’era un bar, e ci fermammo perché sentimmo dalla radio che da lì a poco ci sarebbe stato un annuncio importante. Qualche minuto, e si sentì la voce di Mussolini. Alla fine del discorso, dall’apparecchio provenivano le urla della folla presente in piazza Venezia, a Roma, ma dove stavamo noi c’erano solo pochissime persone, e tutte zitte. Il silenzio fu interrotto dalla voce del mio amico, che urlò: “Perderete la guerra!”. La madre lo zittì con uno schiaffo.

 

Quali erano i tuoi film preferiti?

Nel dopoguerra ero capace di vedere tre film al giorno. La mia passione erano quelli americani: La vita è meravigliosa di Frank Capra è un capolavoro, e abbiamo trasmesso la nostra passione a mia figlia Francesca tanto che possiamo considerarlo il “film di famiglia”… Più tardi mi avvicinai alla cinematografia russa, e con mia moglie Silvana vedemmo una rassegna a Palazzo Reale. Contrariamente a quello che sosteneva Fantozzi, La corazzata Potëmkin è stupendo.

 

E in Italia?

Tra i film italiani prediligevo quelli più politici, che raccontavano la realtà e criticavano, si ribellavano al potere. Anni dopo, rivedendoli, non mi sono più sembrati così belli. Mi piacque molto la fantasia di Miracolo a Milano, e poi Ladri di biciclette. Di Visconti quello che preferii fu quello girato in Sicilia: La terra trema era molto potente.

 

Tra gli attori, chi ti piaceva?

Tra quelli stranieri i miei idoli erano Charlie Chaplin e Buster Keaton. In Italia ho sempre ammirato Totò, che riusciva sempre a fare dei bei film nonostante i mezzi limitati: era il Chaplin italiano. Mi piacevano Sordi, e anche Gassman, ma solo nei ruoli leggeri, quando recitava Shakespeare era troppo retorico. Tra le interpreti italiane era molto brava Anna Magnani.

 

Non hai mai avuto niente a che fare, con il cinema?

Sì, ho scritto una sceneggiatura, nel 1955. Il regista era quello che considero il mio vero maestro, il poeta Giulio Trasanna. Ricalcai la figura del protagonista sul mio carissimo amico Sergio Temolo, il cui padre era stato ucciso dai fascisti a piazzale Loreto il 10 agosto 1944. Nel film, il ragazzo andava a San Vittore, dove era rinchiuso il papà, e si parlavano senza vedersi. Era un testo impegnato, che voleva raccontare la Milano della guerra e anche quella immediatamente dopo.

 

Giraste delle scene?

Certo, girammo tutto il film. Andammo al Casoretto, alla Falck e alla Breda di Sesto San Giovanni, alle cave del Parco Lambro, perché proprio in una di esse abitava la fidanzata del protagonista, un orfano di padre (morto in guerra) che si rifiutava di lavorare in fabbrica e voleva gareggiare in moto.

 

Fu lì che conoscesti Ermanno Olmi?

Sì, faceva le riprese. Me lo rivedo letteralmente sdraiato su un macchinario per filmare le moto in corsa. Era un bravissimo ragazzo, educato, gentile, gli piaceva stare in compagnia. Le miglior immagini le ha girate lui, ma anche il fotografo, Adriano Bernacchi, era molto in gamba.

 

Come mai di questo film non si sa nulla?

Perché non venne mai distribuito. Il produttore, Guzzetti, che aveva investito tre milioni, a un certo punto tolse il film a Giulio Trasanna e lo affidò a Giuseppe Dagnino, che aveva lavorato con Carlo Lizzani in Achtung! Banditi! E lui snaturò tutto. Quando ci sedemmo nella saletta di proiezione per l’anteprima e partirono le immagini, restammo allibiti: il nostro film su Milano era diventato una specie di giallo ambientato nel mondo del motociclismo, a cui si sovrapponeva una storia d’amore. Eravamo furiosi, e dicemmo subito che non l’avremmo firmato, ma poi era talmente brutto che non se ne fece nulla.

 

E la tua sceneggiatura?

Sinceramente, non so dove sia finita. Forse, l’ho data a qualcuno che poi non me l’ha più restituita. Oppure, è ancora tra le mie carte e prima o poi verrà fuori. Prometto che se la trovo ti avviso…


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