Manuale Tellus
Elisa Varese. Da Genova alla Sardegna passando dall’Africa 
Il genovese per il Mediterraneo e la nascita del tabarchino
20 Febbraio 2019
 

Nel Ponente genovese si trova il quartiere di Pegli. L’antico borgo marinaro, abbracciato da un lato dal mare e dall’altro dai monti e sede di importanti ville nobiliari, è oggi meta di turismo balneare e culturale. L’elegante passeggiata sul mare, affiancata da palme, le dimore signorili e il pittoresco parco di Villa Pallavicini, così come i palazzi moderni, hanno in parte stemperato la primaria rusticità di un borgo nato come villaggio di pescatori.

Tabarca (o Tabarka) è una città della Tunisia situata vicino al confine algerino e da cui prendeva il nome anche un’isoletta poco distante dalla costa, ad essa oggi unita da un istmo artificiale, e dominata da un’altura su cui ancora svettano le mura di un castello cinquecentesco a guardia e protezione del villaggio sottostante. La zona, oggi, è pressoché disabitata.

A Sud-ovest della Sardegna, nell’Arcipelago del Sulcis, vi sono le due piccole isole di San Pietro e Sant’Antioco e i comuni di Carloforte e Calasetta. In questi due borghi, tra le scogliere a picco sul mare cristallino e le stradine che serpeggiano tra le case colorate, il visitatore potrebbe essere sorpreso nel sentir parlare in tabarchino, una lingua diversa rispetto a quella impiegata nelle altre località sarde, mentre, in particolare, il visitatore ligure troverà in esso, oltre che una parlata assai familiare, anche un pezzo della propria storia. Quale legame intercorre, dunque tra Pegli e queste isole sarde? Che ruolo ha giocato l’ex isola africana, che, apparentemente slegata da tutto, dà origine al nome di questa lingua?

Come ogni lingua, il tabarchino riflette nei suoi elementi costitutivi – primo tra tutti, il lessico, – la vicenda storica e geografica che ne determinò l’evoluzione. Il trasferimento sull’isola tunisina di Tabarca da parte di numerose famiglie pegliesi,1 avvenuto attorno alla metà del XVI secolo, aiuta facilmente ad individuare nel genovese moderno il punto di partenza fondamentale di tale sviluppo. Ancora oggi, il tabarchino è spesso definito, più come una lingua a sé, come una variante del genovese, dunque un dialetto, anche se si ritiene utile puntualizzare che il genovese faceva parte di quelle lingue romanze derivate dal latino (dunque si potrebbe definire come l’evoluzione del latino parlata in Liguria) e diffuse in Italia, ma il suo minor prestigio rispetto a quella parlata in Toscana ne causò una sorta di “declassamento”. Tuttavia, è fondamentale, in questo contesto, considerare proprio quel prestigio – poi destinato a scemare – di cui il genovese godeva nel Cinquecento. Quella della Repubblica di Genova, fiorente e famosa per l’attività portuale, mercantile e bancaria, era la lingua commerciale per eccellenza, trasmessa e diffusa anche tra le popolazioni non liguri tramite gli avamposti della Superba. Questo caso di imperialismo linguistico, unito al lungo – seppur assolutamente non totale – isolamento della comunità tabarchina, che comunque mantenne i contatti con la madrepatria, è la causa principale della preponderanza del sostrato genovese e della scarsa presenza di prestiti dalle altre lingue. Tali tracce di contatti e interferenze con altri idiomi sono comunque riscontrabili e anch’esse contribuiscono a far sì che dal tabarchino stesso si possa leggere la sua storia.

Questa lingua, per tutto il periodo in cui i suoi parlanti risedettero nell’isoletta tunisina a cui deve il suo nome, rimase dunque per moltissimi aspetti aderente al genovese a lei contemporaneo. Tale persistenza, oltre ai motivi sopracitati, si deve anche al continuo afflusso di famiglie liguri a Tabarca nel corso degli anni seguenti. Le differenze tra il genovese dell’isola e quello della Superba consistevano essenzialmente in piccole varianti morfologiche e fonetiche e in alcuni mutamenti lessicali quali la perdita di lessemi, la creazione di neologismi o il cambiamento nell’associazione tra significante e significato. Un esempio interessante di quest’ultimo ambito è la parola brignun, che in genovese indica la susina. Poiché tale frutto non era presente nell’Africa settentrionale, il suo significato primario traslò per somiglianza al gelone, per via del suo colore violaceo e dunque per la sua similarità con la susina (Toso, Capriata; 2005).

Come si è accennato, nonostante la prossimità della Tunisia e il contatto ravvicinato con la lingua araba, gli arabismi ancora oggi visibili nel tabarchino non sono numerosi. Come osservano Nicolò Capriata e Fiorenzo Toso nella Grammatica del Tabarchino (2005) tali prestiti sono tutti sostantivi, vincolati dunque alla necessità pratica di indicare un oggetto con una parola inesistente in genovese. È plausibile che nei secoli addietro tali vocaboli, che dunque indicavano elementi tipici dell’ambiente o della quotidianità nordafricana, fossero più frequenti e che siano andati scomparendo in seguito all’allontanamento da Tabarca e alla conseguente sparizione di tali elementi dalla quotidianità della comunità. Anche nel caso del tabarchino, dunque, risulta evidente quanto la cultura materiale di una comunità abbia una decisiva influenza sulla lingua dei suoi membri. Tra gli esempi di tali arabismi “sopravvissuti” fino ai giorni nostri possono essere citati cascà (derivante da couscous), facussa, che indica un cetriolo tipico dell’agricoltura Magrebina il cui nome arabo è fakûs e cappi, ossia gli zoccoli aperti che in arabo si chiamano qabqâ. Infine, può essere interessante anche notare come in un caso l’arabo abbia influenzato anche la microtoponomastica: un quartiere di Carloforte, la Casébba, deve il suo nome alla parola araba kasbah (“cittadella” in arabo). La toponomastica è interessata anche da prestiti provenienti dalla lingua turca come bugazzu, termine che indica uno stretto braccio di mare (in questo caso, nello specifico, quello tra le coste di Sant’Antioco, San Pietro e Isola Piana) e che deriva dal turco boğaz, ossia “gola”, “insenatura”. Interessante è anche il caso della parola gimichìa, comune anche al genovese, che in persiano indicava la paga dei militari e che in tabarchino assume il significato di un avere che si custodisce scrupolosamente (da cui la forma idiomatica: û tegne cumme gimichìa). La convivenza di prestiti arabi e turchi risale allo stesso periodo di Tabarca, tempo in cui la guarnigione posta a controllo delle attività tabarchine era composta da turchi (Toso; 2009).

Il XVIII secolo fu determinante per la storia della comunità tabarchina, così come per la sua lingua. Infatti, l’abbandono dell’isola africana – in parte dovuto alla diminuita influenza genovese, in parte alle conseguenti mire da parte dei Francesi su Tabarca e al suo sovraffollamento e, infine, ai sempre più difficili rapporti tra isolani e nordafricani, che sfociarono poi nelle invasioni tunisine e algerine2 – per la colonizzazione, avvenuta in tempi diversi, di tre isole del Mediterraneo, causò dunque una sorta di tripartizione del ceppo linguistico originario che, a contatto con tre realtà diverse, si evolse in maniera differente. Fondamentali, anche se in misura diversa nelle tre situazioni, furono l’influenza della cultura materiale e delle attività umane, così come i contatti con le altre lingue.

Il primo spostamento vide come meta, a partire dal 1738,3 l’isola di San Pietro ed ebbe come immediata conseguenza la fondazione di Carloforte, che fu il fulcro di un’economia fiorente, seppur funestata da due avvenimenti drammatici quali l’invasione francese (1793)4 e quella barbaresca (1798).5 In quel periodo, la lingua parlata dalla comunità era ancora molto aderente al genovese dell’esordio dell’epopea tabarchina, seppur con qualche variazione e, come si è visto, con qualche prestito dall’arabo e dal turco. La preponderanza del sostrato genovese fu ulteriormente consolidata dal trasferimento sull’isola di altre 26 famiglie liguri: tale avvenimento, così come la continuità di contatti e rapporti commerciali con Genova nei due secoli precedenti, impedì alla parlata tabarchina di cristallizzarsi e di assimilare in buona parte l’evoluzione vissuta dal genovese in quell’ampio arco di tempo. Anche in questo caso, il fattore del prestigio attribuito alla propria lingua è alla base di due importanti conseguenze: la minor influenza del sardo in questa sede – in parte anche dovuta alla maggior distanza geografica – e il processo di “tabarchinizzazione” (Toso, Capriata; 2005) attuato sulla lingua di migranti provenienti da altre regioni, che presto abbandonarono la propria lingua d’origine senza lasciare tracce sul tabarchino.6 L’attività principale della comunità di San Pietro, il cui territorio comprendeva anche quello della vicina Isola Piana, ancora prima del potenziamento del suo porto, era la pesca (soprattutto di corallo, acciughe e tonno): al siciliano si devono alcuni termini relativi alla tonnara,7 quindi alla conseguente necessità di inglobare nel proprio lessico dei termini specialistici relativi ad un’attività tipicamente siciliana, mentre alcuni prestiti dal francese sono essenzialmente giustificabili dai numerosi scambi commerciali intrapresi nell’Ottocento, sia con la Francia che con la Tunisia coloniale.8

Diverso è il caso di Sant’Antioco; la colonizzazione dell’isola e la progettazione del centro urbano di Calasetta iniziarono nel 1770,9 circa trent’anni dopo la fondazione di Carloforte; al contrario di quanto avvenuto a San Pietro, i contatti con la Liguria si diradarono, mentre se ne instaurarono con i sardi. Linguisticamente, si assiste dunque al fenomeno contrario al precedente: la riduzione delle relazioni con la Superba causò una sorta di paralisi del genovese, che dunque permase, ma svincolato dalle sue naturali evoluzioni e che può essere considerato ancora oggi come più vicino a quello parlato in passato, anche se non possono essere trascurati i numerosi sardismi acquisiti. Interessante è dunque notare, come in entrambe le isole si possa trovare conferma della dinamicità delle lingue, seppur in modi diversi. A Carloforte il mantenuto contatto con Genova, ha implicato la parallela evoluzione della lingua in adeguamento a quella della terra d’origine, ovviamente tenendo in considerazione anche i prestiti da altri idiomi, mentre a Calasetta, il venire a mancare di tale contatto, nonostante la maggior staticità del sostrato, ha implicato dei cambiamenti in altre direzioni, in primis dovuti alla maggior influenza del sardo. Tale caratteristica è strettamente collegata al diverso sistema economico di Sant’Antioco, che, anziché sulla pesca e sul commercio, basò la propria produzione sull’agricoltura, in particolare sulla coltivazione della vite.10 La lingua di una comunità che aveva sempre basato la propria sussistenza sul mare e sulle attività mercantili, essendo sprovvista di terminologia specifica agricola, ovviò a tale carenza grazie ad una serie di prestiti sardi, in alcuni casi penetrati e assorbiti anche dalla vicina comunità di San Pietro.11 Sarebbe comunque errato considerare il tabarchino di Carloforte e quello di Calasetta come due entità linguistiche a sé stanti, in quanto i loro punti in comune sono molto più numerosi rispetto alle loro differenze. Entrambe le varianti conservano termini oggi scomparsi dal genovese e ne hanno aggiunti di nuovi.12 In ogni caso, ancora oggi, un genovese, un carlofortino e un abitante di Sant’Antioco potrebbero conversare riuscendosi a capire nonostante le differenze linguistiche.

Una situazione ancora differente si verificò nel caso dell’Illa Plana (o Nueva Tabarca), la piccola isola al largo di Alicante ove venne trasferito un gruppo di tabarchini in seguito alla liberazione dalla schiavitù in Algeria nel 1769. In questo caso il tabarchino, dopo un periodo di convivenza linguistica con il catalano, necessario per ogni tipo di contatto con la vicina costa spagnola e per l’approvvigionamento, venne da esso definitivamente sostituito, pur lasciando qualche suo residuo nel lessico.13 Analogamente, nella stessa isola a cui deve il suo nome, il tabarchino non sopravvisse al progressivo assorbimento francese perpetrato in seguito alla colonizzazione del Paese (Riggio; 1948).

Ecco, dunque, come un quartiere di Genova, un’ex isoletta africana, due piccoli comuni dell’arcipelago del Sulcis e una piccola isola spagnola possono essere considerate tra loro connesse. Tale legame è ancora spesso ricordato, sia nelle mete d’approdo di questo viaggio, sia nel luogo in cui ebbe origine. Ancora oggi, nel ponente genovese si celebra la storia tabarchina nella Giornata Storica Pegliese,14 a cui partecipano spesso anche membri delle due comunità sarde, promuovendo così l’incontro (o il rincontro) di culture così strettamente legate. Allo stesso modo, anche a Carloforte e a Calasetta vengono ricordate le origini genovesi e i trascorsi nel Mediterraneo con la tradizionale Sagra del cuscus (il cascà importato da Tabarka), non a caso in Piazza Pegli a Carloforte e quella del pilau15 di Calasetta, ove, inoltre, nel 2018 ha avuto esordio il progetto Ràixe – Spazi digitali per la cultura tabarchina, il cui scopo è preservare dall’oblio e rendere fruibile tutta la cultura tabarchina. La recente richiesta all’UNESCO per il riconoscimento del tabarchino come patrimonio immateriale dell’umanità,16 ha contribuito ad accrescere la consapevolezza e l’interesse nei riguardi di una parlata17 che lega dei borghi marinari del Mediterraneo solo apparentemente distanti tra loro, ma in realtà indissolubilmente legati da quasi mezzo millennio di storia.

 

Elisa Varese

 

 

1 Tale trasferimento, iniziato attorno al 1540, fu guidato da due delle più importanti famiglie genovesi dell’epoca, i Lomellini e i Grimaldi, che ottennero tale concessione dalla Spagna, allora protettrice dell’isolotto. L’attività delle famiglie di corallatori che si insediarono a Tabarca contribuì ad arricchire le casse dei loro nobili protettori, che rivendevano l’“oro rosso” nel Continente (Bitossi, 1997).

2 Nel 1741 i tunisini invasero l’isola e fecero schiavi 800 dei suoi abitanti; nel 1756 un manipolo di pirati algerini prese possesso dell’isola facendo strage degli abitanti rimasti o vendendoli come schiavi, che, liberati dopo un lungo periodo dal re di Spagna Carlo III, costituirono nel 1769 il nucleo primario della colonizzazione di Nueva Tabarca, al largo di Alicante (Bitossi; 1997).

3 Tale trasferimento fu antecedente rispetto alle due invasioni citate in precedenza (v. nota 2), ma la posizione strategica dell’Isola di San Pietro e i suoi banchi corallini costituirono un fattore di attrazione decisivo, unito ai fattori di spinta già citati. Furono determinanti, in questo caso, i propositi del re di Sardegna (Carlo Emanuele III) di ripopolare quelle zone e il suo conseguente accordo a tale proposito con i Lomellini (Ferraro; 1989).

4 L’invasione, conseguenza della guerra successiva alla Rivoluzione Francese, durò solo pochi mesi grazie all’intervento della Spagna e non lasciò particolari tracce, se non il detto u l’è u fögu du Rechemont (“è il fuoco del Rechemont”) che designa le persone particolarmente vivaci (con, appunto, il fuoco addosso), in riferimento alla nave incendiata e carica di esplosivo che i francesi mandarono contro la flotta spagnola il giorno prima della resa.

5 L’avvento dei pirati tunisini ebbe come principale conseguenza la deportazione e la schiavitù di oltre 800 abitanti dell’isola; parte di questi, riuscì a ritornare a Carloforte dopo cinque anni grazie al riscatto pagato dal re di Sardegna Vittorio Emanuele I. Ancora oggi è diffuso nell’isola il modo di dire avài i Türchi deré (avere i Turchi appresso) per indicare chi va di fretta e in riferimento alla corsa disperata degli abitanti per sfuggire ai pirati.

6 A tale proposito, uno degli esempi più emblematici è il caso dell’arrivo nell’isola di San Pietro di un gruppo di famiglie campane nella seconda metà dell’Ottocento. Ad oggi non risultano tracce della loro lingua o delle loro usanze, presto assimilate da quelle tabarchine.

7 A questa attività e, più in generale, alla pesca e all’attività marinaresca, si devono numerosissimi modi di dire e forme idiomatiche tipiche del tabarchino della zona, tra cui forse il più immediato è l’esclamazione che tunnu, che a seconda dei casi può riferirsi alla mole di qualcuno, oppure alla sua stupidità, ma, se riferito ad una donna, costituirà un chiaro apprezzamento (Toso, Capriata; 2005).

8 Si può citare, ad esempio, il termine bulanxé, “panetteria”, dal francese boulangerie.

9 Il fattore di spinta determinante di tale spostamento furono principalmente le invasioni nordafricane e le continue vessazioni sugli abitanti da parte del governo tunisino sull’isola. Sempre in linea con il progetto sabaudo di ripopolazione delle piccole isole sarde, la richiesta degli aspiranti migranti fu accolta dal re di Sardegna.

10 Allo stesso modo dei modi di dire legati all’attività della pesca, sono molto numerosi anche quelli legati alla viticultura e alla vendemmia, come, per esempio il detto ésse in fundu de mónica (“essere una pianta di monica”, ossia un tipo d’uva le cui piante sono molto alte) con la quale si può indicare una persona che, a causa della sua elevata statura, svetta tra le altre (Toso, Capriata; 2005).

11 Alcuni esempi sono buênorxu (bovaro), trabussu (tridente) e malóru (vitello).

12 Alla prima categoria appartengono parole come pumota (“pomodoro”) e vögimen (foca), alla seconda i termini esclusivi del tabarchino e mai esistiti in genovese come tagiavréddu (“libellula”).

13 Interessante notare come tali residui siano spesso propri di termini legati alla fauna marina e alla pesca, principale attività dell’Illa Plana. Tra questi possiamo ricordare asín (“riccio di mare”, dal ligure zin) e faula (un tipo di granchio, dal ligure fàulu (Toso; 2011).

14 L’evento, nato nel 1991, è organizzato dal Circolo Culturale Norberto Sopranzi e patrocinato da Regione Liguria, Comune di Genova e Municipio VII Ponente e ha luogo ogni anno nei mesi di maggio e ottobre.

15 Il pilau è un piatto turco a base di semola, verdure e pesce, derivante dal turco pilav (che però indica un piatto la cui base è il riso e da cui deriva anche l’italiano pilaf).

16 Il progetto ha origine nel 2010 nelle isole del Sulcis; nel gennaio del 2017 a Genova il Consiglio regionale della Liguria aveva approvato all’unanimità la mozione per avviare l’iter di tale richiesta. Un ulteriore passo avanti è stato fatto a Tabarka nella primavera del 2018 con la firma del Protocollo di intesa di partenariato e gemellaggio a cinque (Toso; 2004); da segnalare la partecipazione anche dei sindaci di Carloforte, Calasetta e Nueva Tabarca.

17 Attualmente si contano circa 15.000 parlanti, la maggioranza situata a Carloforte (ove l’87% della popolazione parla tabarchino) e Calasetta (68%). Si contano minoranze anche in altri centri sardi come Cagliari, Carbonia e Iglesias, senza dimenticare coloro che emigrarono nel continente e si stabilirono in Liguria o in Italia Settentrionale (Toso e Capriata; 2005).

 

 

Bibliografia

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Bitossi C. (1997), Per una storia dell’insediamento genovese di Tabarca (Fonti inedite 1540 – 1770), in Atti della Soc. Ligure di Storia Patria, XXXVII, CXI – fasc. I, Genova, USPI.

Capriata N. (2005), Presentazione, in F. Toso, Grammatica del Tabarchino, Recco, Le Mani, pp. 5 – 28.

Cardona G. R. (2006), Introduzione all’etnolinguistica, Torino, UTET.

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Ferraro G. (1989), Da Tabarka a San Pietro. Nasce Carloforte, Cagliari: Musanti Editrice.

Riggio C. (1948), Genovesi e tabarchini in Tunisi settecentesca, in Atti della Soc. Ligure di Storia Patria, vol. LXXI, Genova, USPI.

Toso F., Torchia A. (2002), Isole tabarchine. Gente, vicende e luoghi di un’avventura genovese nel mediterraneo, Recco, Le Mani.

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Toso F. (2010), La voce tabarchino. Aspetti lessicografici e storico-linguistici, in Lingua e stile XLV, Bologna, Il Mulino, pp. 259 – 281.

Toso F. (2011), Language death e sopravvivenze identitarie: l’Illa Plana ad Alicante, in Studis Romànics, Barcellona, Institut d’Estudis Catalans, Vol. 33, pp. 129 – 149.


  

Sitografia

» Corloforte Net

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» Pro Loco Calasetta

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